Pat Collins e il canto “granitico” di Joe Heaney in Song of Granite (2017)
(a cura di Luigi Tallarico)
Nella giornata che conclude il nostro viaggio nell’undicesima edizione dell’IRISH FILM FESTA dobbiamo partire da una premessa : Song of Granite non è un film per tutti.
Frutto di una coproduzione tra Canada ed Irlanda, è una pellicola in bianco e nero dalle caratteristiche non convenzionali e dai molteplici obiettivi: vuole essere documentario della vita del grande cantante folkloristico Joseph “Joe” Heaney (1919-1984) pur senza essere un tedioso biopic, e al contempo trattarne il dramma esistenziale, non contentandosi di riportare telegraficamente il vissuto dell’artista ma tuffandosi nel vivo dell’esibizione cantata, in parte riprodotta non senza mirabile sforzo dagli attori, in parte presa direttamente dagli archivi video immortalanti il vero Heaney.
Parliamo di attori al plurale perché sono tre a recitare per le tre età del cantante, dall’infanzia nelle zone rurali e costiere delle torbiere e delle rocce del Connemara nella contea di Galway, fino alla maturità vissuta nella fama ottenuta nella moderna New York (dopo una permanenza a Glasgow e a Londra dove lavorò come carpentiere) e alla vecchiaia piena di nostalgie per l’avita terra natia.
L’introduzione di Joe Heaney è ancora incompleta se non si considera la sua abilità nel complesso genere sean-nós (in gaelico: “vecchia maniera”), ovvero il canto solistico non accompagnato, ma nondimeno melodicamente assai ornamentato, delle zone sud e ovest dell’Irlanda (con sfumature diverse da zona a zona). Il termine si riferisce anche al ballo tradizionale.
Per chi non conoscesse il genere, il primo ascolto potrebbe risuonare arabeggiante o simile al canto a tenore sardo, come la musicista e cantante Kay McCarthy ha avuto modo di spiegare oggi al pubblico prima della proiezione.
Si ipotizza addirittura “una continuità tradizionale che nel tempo ha viaggiato dal nord dell’Africa, alla Sardegna, passando per il sud della Spagna e arrivando via mare in Irlanda“.
Il dramma della vita di un’artista, talentuoso fin da bambino e la cui memoria possedeva fin dalla gioventù centinaia di canti (si stima ne ricordasse all’incirca 500), prende contorni più estremi quando si considera il rapporto fra l’amore per l’arte e la vita privata. Periodi di interminabili assenze dalla vita familiare, prezzo da pagare per via della passione per il canto, culminarono infine nel non avere più contatti con moglie e figli.
Pat Collins, esperto in film documentari, opta coraggiosamente per un ibrido fra il film di finzione e il documentario, tramite scelte stilistiche originali; prima fra tutte il salto, a tratti una vera e propria frattura narrativa, fra elementi situati in diversi istanti dello spazio e del tempo. Tale espediente evita la noia di un’elencazione sterile di fatti, che Collins stesso afferma “renda uguali tutte le vite”, con l’inconveniente sfavorevole di rendere ostica l’immediata fruizione da parte di un pubblico distratto o svogliato. Fra gli intenti del regista c’è inoltre quello di evidenziare accuratamente il rapporto fra il territorio e lo spirito di una popolazione.
Song of Granite sembra riuscirci abbastanza bene: silenzi molto lunghi, compita malinconia e tradizioni forti, rari sprazzi di Irish craic, tutto si mescola in un’opera complessa che a detta di Collins prende ispirazione, fra gli altri, da Man of Aran di Robert Flaherty (1934) e dai film muti anteriori al 1930.
Il silenzio delle scene si estende da queste al piano astratto della narrazione, tanto che la descrizione della vita di Heaney è tutta ellissi e discontinuità che rendono impossibile tracciare una linea retta che attraversi il tempo senza soluzione di continuità. L’enigmaticità e l’elusività del personaggio sono in tal modo volutamente esaltate.
Lo si ripete ancora per avvisare chi si approccia a questo titolo: abbiate pazienza, specialmente per la prima parte, spossante nella sua lentezza. Anche il montaggio è praticamente assente e non aiuta a connettere le isole delle immagini e dei concetti, quando piuttosto non le confonde.
Un difetto o un pregio? Si direbbe più una scelta stilistica, da apprezzare o da rigettare completamente, come in generale si deve fare con il film, il cui “estremismo” impone allo spettatore la scelta fra l’amore e l’odio per il suo stile.
La scena al tempo stesso più pesante e più realista è quella del canto al pub, con il nostro adulto Heaney che “mano nella mano con un altro uomo per tenere il tempo e per sottolineare lo spirito di partecipazione” (è sempre la McCarthy ad averci illuminato sul significato di questa e di altre pratiche tradizionali), intona in sean-nós un canto che quasi sfinisce lo spettatore per la sua lunghezza.
Non mancano i più noti canti in inglese, disseminati un po’ in tutto il film, fra cui figura anche il notissimo Rocky Road to Dublin.
Soprattutto la parte finale ci lascia un attimo respirare e il lirismo si accresce in una tensione quasi intimista sui rapporti dell’artista con la patria ormai abbandonata, sull’insanabile distacco che il tempo ha creato, sul senso di una vita dedita all’arte e che si risolve in poesia, come si vede nella scena stupenda dell’incontro fra l’anziano solista e un bambino lungo un fiume del Connemara.
“Cosa ci faresti con tutta la conoscenza”, arriva a chiedere il bimbo al vecchio dopo un breve discorso sul senso dell’esistenza. Heaney, dopo aver ammesso di non poter rispondere perché avrebbe potuto solo se in possesso di tale conoscenza, rigira la domanda al bambino che candidamente risponde: “io comporrei un’altra poesia”.
La conoscenza si deve far canto, poesia, ringraziamento per il dono dell’esistenza.
Siccome in questa recensione non si osa esser poetici ma si predilige un sano pragmatismo, terminiamo con un consiglio spassionato che avremmo voluto dare anche agli organizzatori dell’IRISH FILM FESTA : “non guardate il film se siete preda del sonno, men che mai dopo pranzo!”
L’ultimo cortometraggio in concorso dell’IRISH FILM FESTA 11
Native (Irlanda, 2017) = Promosso da Guglielmo Vinci
Prima della proiezione del lungometraggio Song of Granite è stato possibile vedere l’ultimo cortometraggio in concorso all’IRISH FILM FESTA di quest’anno. Ed è una degna conclusione di questo concorso che ha visto tante luci e decisamente poche ombre : anche Native della regista Linda Bhreathnach si inserisce infatti tra i lavori giudicati positivamente da Policlic.it e può aprire, a mente lucida dopo la proiezione del lungometraggio ivi citato, anche un interessante dibattito sull’utilizzo sapiente dei silenzi scenici, su come ovvero un film di dieci minuti possa risultare più interessante, stimolante e narrativamente lungo nella sua fluidità (sembra un gioco di parole ma non lo è) rispetto a lavori di oltre un’ora e mezza.
Il film, nei suoi dieci minuti di lunghezza, racconta il ritorno verso casa di un lavoratore (Patrick Bergin) emigrato molti anni prima. Un viaggio che immerge il pubblico nella natura, tra i paesaggi mozzafiato dell’Irlanda rurale, nel ritorno verso la terra natia, il luogo chiamato casa, lasciando che siano le immagini, curate magistralmente da Sean T. O’Meallaigh, ed il ritmo incalzante del bodhran, delle uillean pipes (le cornamuse irlandesi) e del tin flute ad essere i soli accompagnatori che abbiamo nella visione del film.
La casa abbandonata ad uno stato d’incuria è un problema relativo per il personaggio, perchè è tornato a casa propria, nel luogo dei suoi ricordi, della propria vita, motivo per il quale si sente sollevato e felice come un bambino quando si spoglia dei vestiti (e di tutto quello che era prima di quel momento) per buttarsi in acqua e nuotare.
Il viaggio di Gabriel Byrne alla riscoperta di George Bernard Shaw
(a cura di Giulia Vinci)
“Oh well this is a surprise, have you all come to see me ladies and gentlemen?
Well I should never have expected this” (George Bernard Shaw)
Il penultimo appuntamento di questa edizione dell’IRISH FILM FESTA è stato il secondo ed ultimo omaggio del Festival all’attore,produttore e sceneggiatore irlandese Gabriel Byrne con la proiezione del docu-film My Astonishing Self – Gabriel Byrne on George Bernard Shaw.
Un lavoro “all Ireland”, quello diretto dal regista Gerry Hoban, in cui Gabriel Byrne si è offerto con la massima disponibilità e si è immerso nel riscoprire la figura dello scrittore e drammaturgo irlandese George Bernard Shaw (1856-1950).
In quello che tutti potrebbero vedere come un documentario poco scorrevole nella sua durata e racconto, veniamo “accolti” con sorpresa e delicatezza dalla figura di un burattino che ritrae George Bernard Shaw con la sua lunga barba bianca, la fronte pronunciata, la giacca beige scuro ed i suoi inseparabili pantaloni alla zuava.
Una curiosità sulla marionetta per bocca dello stesso regista Hoban : è un pezzo unico, preparato ad hoc per uno spettacolo di marionette di Shaw e rimesso a nuovo, per l’occasione irripetibile, dal maestro Damian Farrell (celebre per i lavori nella saga di Guerre Stellari).
Nato in un quartiere povero di Dublino il 26 luglio 1856, George Bernard Shaw trascorse un’infanzia traumatica (padre alcolizzato e madre infedele) seppur immersa nell’arte, a stretto contatto con la povertà e l’indigenza : elementi che vediamo nel documentario quando Byrne entra nell’abitazione di Shaw (aperta solo per l’occasione) e mostra le microscopiche stanze del piccolo Shaw e dei suoi genitori. La presa diretta con la povertà avrebbe marchiato l’animo del poeta per il resto della sua vita al punto in vita ebbe modo di definirla, all’interno della prefazione della commedia Il Maggiore Barbara del 1907, come “il male più grande ed il peggiore dei crimini” .
Uomo che in gioventù era timido ed insicuro, munito della doppia nazionalità (irlandese di nascita, a venti anni si trasferì a Londra dove vi rimase per tre quarti della sua vita, ottenendo la cittadinanza inglese) o forse di nessuna visto che si sentì sempre uno straniero sia nella terra natia che quella adottiva (non viene definito irlandese da molti in Irlanda), la sua educazione si divise in varie scuole “con la vergogna di vergognarsi della propria povertà”, ma l’aiutò per via della sua infinita curiosità dinnanzi a ciò che lo circondava.
Il suo carattere cambiò radicalmente dopo aver perso la verginità con un’amica della madre, abbandonando gli abiti del giovane squattrinato Shaw per indossare quelli di G.B.S : uno dei primi casi di celebrità così come la intendiamo attualmente al punto da esaltare il proprio ego (si ribattezzò “nuovo Shakespeare”).
Fu uno dei primi (e tra i pochi) a guidare, con il proprio esempio, il cambiamento sociale e a mostrare l’impotenza degli Stati a provvedere all’organizzazione di questo mondo.
Il poeta dedicò molte energie e determinazione in vita nell’approfondire le cause della povertà, da ricondursi alla mala politica e alla società diseguale che permette la sua diffusione tra le fasce più deboli (specialmente le donne ed i bambini, allora ancora sfruttati come manodopera).
La povertà per Shaw è stato qualcosa che si poteva e doveva frenare, perchè nasceva dal male e finiva per tramutarsi in tale crimine (per le avversità e le disgrazie che arrecava agli esseri umani, e continua ad arrecare oggi).
Premio Nobel per la Letteratura nel 1925 “per il suo lavoro intriso di idealismo ed umanità, la cui satira stimolante è spesso infusa di una poetica di singolare bellezza” (ne avrebbe rifiutato il premio in denaro in quanto “ne aveva già guadagnato abbastanza”) e Premio Oscar per la miglior sceneggiatura per l’adattamento cinematografico del suo Pigmalione datato 1938 (avrebbe utilizzato la statuetta come fermaporta della sua tenuta in Inghilterra), George Bernard Shaw cercò sempre di essere al centro dell’attenzione, sfruttando il cinema e la radio per trasmettere il proprio messaggio nel mondo, per fare in modo di dire la propria su tutto perchè , come riportava Michael Holroyd, “non riusciva a tacere su nessuna ingiustizia” .
Ma non dimenticò mai i due luoghi in cui riuscì ad esprimersi ancora meglio degli altri : il teatro e le piazze.
Negli anni non si fece problemi nell’affrontare a muso duro tanto la società vittoriana inglese che l’aveva “adottato” ed era impazzita per la sua arte “così come impazzì per Oscar Wilde” con opere come La professione della signora Warren (1902) quanto l’Irlanda degli anni della Easter Rising (scrisse propria manu un testo per la difesa di Roger Casement dal processo che lo vide coinvolto e lo condannò a morte).
Contrario alla guerra (“uno spreco di potenziali giovani Newton, Einstein, persino Shaw“, durante la Prima Guerra Mondiale attaccò duramente tanto i tedeschi quanto gli inglesi per l’immane ammonto di vite spezzate) ed ultracritico verso la lentezza del progresso delle società democratiche dinnanzi a tematiche come la qualità del lavoro, lo sfruttamento del lavoro minorile e la condizione delle donne (la Santa Giovanna di Shaw del 1923 è un’ode alla donna, come Byrne concorda con l’attrice Gemma Arterton) arrivò a guardare con profondo interesse ed apprezzamento, senza smentirsi e rinnegare mai le sue dichiarazioni, i regimi di Stalin, Hitler e Mussolini.
“You can’t get anything done without a dictatorship [..]
The great majority of the human race are easygoing sensible people and left for themselves, they look around for somebody who looks intelligent and they say “Tell us what to do” “(George Bernard Shaw nel suo viaggio a San Francisco, Stati Uniti d’America, 1933)
Nel corso del documentario Gabriel Byrne coinvolge diverse personalità di primissimo piano in Irlanda come in Inghilterra come il Presidente irlandese Michael D. Higgins, l’attore Ralph Fiennes (che portò in scena il suo Man and Superman), gli storici Fintan O’Toole, Rachel Holmes e Diarmaid Ferriter ed autori come Dara O’Briain.
Le loro testimonianze arricchiscono davvero la narrazione della vita di Shaw definendolo semplicemente come inetichettabile, la cui vita è stata guidata dalla “compassione, dall’umanità e dal coraggio”, pensando che “nessuno dovesse essere trattato come una pezza da piedi”. Lo stesso Byrne aggiunge come “si abbia la sensazione di averlo vicino, ma che sia comunque irraggiugibile”
Alla sua morte, sopraggiunta nel 1950 cinque anni dopo la morte della moglie Charlotte, fece spargere le proprie ceneri assieme a quelle della moglie attorno alla “cabina studio” della sua tenuta nell’Hertfordshire (ribattezzata Shaw’s Corner).
Inoltre, lasciò in eredità la stessa tenuta alla tutela dei beni culturali e creò un fondo in cui convogliare i proventi per i diritti d’autore delle sue opere da usare per gli enti museali irlandesi “perché tutti dovevano avere libero accesso all’arte e non renderla di unico appannaggio delle elites“.
Infine, donò ad enti come la National Gallery of Ireland un proprio busto di marmo come ultimo gesto istrionico imprimendo il proprio volto come quello della Sacra Sindone.
Questo documentario fa riflettere molto di come ci sia effettivamente bisogno di persone come Shaw in questo periodo storico dinnanzi a figure come quella di Donald Trump e l’instabilità causata da eventi come la Brexit : personalmente infatti ritengo che noi tutti ci si debba svegliare da questo torpore della mente e dell’animo e tornare a ricercare la verità come fece lui stesso, ponendosi dubbi ogni giorno su ogni cosa che ci circonda.
La parte che maggiormente mi ha colpita difatti proprio come l’emozionato Byrne e lo stesso regista Gerry Hoban (come ha avuto modo di dire dinnanzi ai microfoni della FESTA), è stata quella dedicata alla “cabina studio” di Shaw nello Shaw’s Corner, il luogo di rifugio dove lo scrittore irlandese trascorreva ore ad appuntare e scrivere tutto, che ha la sua peculiarità per essere stata costruita su una piattaforma mobile : Shaw infatti la fece costruire in questo modo per poterla muovere in base allo spostamento del sole, per avere sempre la luce accanto a sè.
Il mondo, credo, meriti uno scontro d’idee che porti ad un suo progredire pensando anche alle qualità morali di quest’uomo che dovrebbero davvero ispirarci tutti a batterci per ciò che reputiamo giusto, perché ognuno di noi può fare qualcosa uomo o donna che sia.
Come disse in vita George Bernard Shaw :
“Life levels all men. Death reveals the eminent.” (G.B.S)
Il Concorso Corti dell’IRISH FILM FESTA 11 – La premiazione dei vincitori
(a cura di Guglielmo Vinci)
Dopo cinque giornate e sedici cortometraggi proiettati, si arriva all’atto finale del concorso indetto dall’IRISH FILM FESTA per i migliori corti nelle categorie live action e di animazione di questa undicesima edizione.
Nella sala sono presenti molti degli ospiti che si sono intervallati nel corso dei diversi giorni della rassegna tra registi, produttori, attori, incluse personalità come la selezionatrice dei corti del Galway Film Fleadh Eibh Collins.
In una cerimonia breve ma comunque di grande soddisfazione per il lavoro dei cineasti irlandesi selezionati dalla rassegna, Policlic.it può dire di aver parzialmente azzeccato le previsioni sui vincitori. Dopo la proiezione delle pellicole vincitrici si è infatti passati alla consegna dei premi alla presenza della giuria (l’attrice Daniela Poggi, l’attore Gerry Shanahan e Maurizio Carrassi per le Biblioteche di Roma).
La categoria “Live Action” ha visto il successo del cortometraggio You’re Not a Man at All (Irlanda,2017) del regista Padraig Conaty, pellicola che da me “rimandata” nel suo giudizio con questa analisi.
“Si aggiunge alla categoria dei “vorrei ma non posso” il secondo cortometraggio (strutturato alla maniera del mockumentary) di quasi dieci minuti del regista Padraig Conaty che racconta la vita semplice, immersa nella terra della contea di Monaghan al limite del soffocamento (“Tah, you’re a farmer, you’re stuck for life“) , di un allevatore locale.
Una vita scandita dalle attività nel pascolo e nelle coltivazioni di cui non si lamenta “del tutto” apprezzando infatti il lavoro a contatto con la natura (“l’autunno è la mia stagione preferita”). Ma la storia non parla di un semplice allevatore qualsiasi, ma di un semplice allevatore che lotta con la propria doppia identità : allevatore da una parte, drag queen amante del canto dall’altra. L’occasione di un concorso canoro per drag queen sarà la possibilità per lui di poter essere quello che sente realmente dentro di sè.Le idee sono interessanti come le intenzioni, presenti anche alcuni momenti divertenti (la vittoria del concorso da parte del presidente della squadra di calcio locale che viene celebrato come un fresco vincitore dei Mondiali, suscitando anche un po’ d’invidia nell’allevatore) ma non bastano per dare un giudizio complessivamente positivo del corto.”
La previsione invece azzeccata ha riguardato la categoria dei cortometraggi d’animazione che ha visto la vittoria del corto Late Afternoon (Irlanda, 2017) della regista Louise Bagnall , che avevo promosso a pieni voti (con l’augurio, avveratosi, di un suo successo) con queste parole :
“Nove minuti di pura poesia per Late Afternoon, un cortometraggio semplicemente meraviglioso. La storia ruota attorno alla figura dell’anziana Emily, donna in avanti con l’età e “forse” affetta dal morbo di Alzheimer , che si trova nel mezzo del trasloco dalla sua abitazione.
Durante il trasloco ritrova alcuni oggetti (una tazza di tè, un libro e una fotografia) che in lei fanno riaffiorare alcuni ricordi della propria vita, in un’esplosione di colori e disegni dal tratto delicatissimo che trasportano in una dimensione eterea. Un tripudio di emozioni.”
Cala il sipario – No Party for Billy Burns (Irlanda, 2016)
Il lungometraggio che chiude l’undicesima edizione dell’IRISH FILM FESTA è il film No Party for Billy Burns, diretto dall’autore del cortometraggio vincitore nella categoria “Live Action” Padraig Conaty.
Ambientato nelle campagne del County Cavan, nell’Ulster non legato al Regno Unito (assieme a Monaghan e Donegal), si incentra sulla figura di Billy Burns (Kevin McGahern), un onesto sempliciotto segnato dalla tragica e precoce perdita dei suoi genitori che si rifugia nell’immagine del cowboy solitario per proteggersi dalla crudeltà della vita.
È un uomo che non ha ancora piena consapevolezza di essere tale, immerso tra i sogni del Selvaggio West, dei pistoleri e della musica country (trasmette da una radio pirata chiamata Riverside Radio) : vive con il nonno a cui deve anche badare per via del suo alcolismo, lavora nei campi mettendo da parte i soldi per un suo viaggio nei ranch americani, ha pochissimi amici ed esce di rado per andare a bere in piccoli pub lontano dai propri coetanei.
Infine, è terribilmente impacciato con le ragazze inclusa Laura, una commessa di un supermarket interpretata da Sonya O’Donoghue.
Nella storia sono presenti anche due diversi branchi del paese di Billy, uno dei quali è guidato dal violento ragazzo di Laura Ciarán (Charlie McGuinness). Per entrambi i gruppi di ragazzi Billy è un bamboccione con qualche rotella fuori posto, uno strambo che si veste in modo ancor più strano di quanto non lo sia già di suo.
Nello scontro tra questi due gruppi Billy si trova involontariamente coinvolto per via di uno scherzo di pessimo gusto riguardante Laura, che senza volerlo illude il cowboy mancato di un suo interesse.
Ciarán, già a sua volta malmenato da un gruppo di energumeni (aveva aggredito il fratello di uno di loro), affronta il debole Billy tornando ad essere forte (contro i deboli) e lo pesta a sangue. Di lì a poco Billy decide di lasciare il paesello per andare a Dublino senza dirlo al nonno ma di ritorno dall’unica giornata in cui Billy si sia “forse” divertito, scopre che il nonno è morto d’infarto : il nuovo trauma fa scattare qualcosa dentro al suo cervello, distruggendo l’innocenza del giovane ragazzo.
No Party for Billy Burns è una pellicola che racconta, senza troppe pretese, una storia che intrattiene normalmente il pubblico per un’oretta e venti, un film nella media con qualche spunto interessante ma che non ha tantissimo da dire.
Una conclusione in sordina (anche se va detto che in patria è stato candidato all’interno del Galway Film Fleadh) all’interno comunque di un’edizione dell’IRISH FILM FESTA che ha regalato grandissimi momenti di cinema, sia a livello di lungometraggi che di cortometraggi, dando nuovamente la possibilità al pubblico romano ed italiano di inserirsi in un clima internazionale di ampio respiro.
Un’edizione che Policlic.it ha avuto modo di seguire in tutta la sua durata per i suoi lettori, con la speranza di aver avvicinato qualcuno di loro a questo evento di grande spessore culturale.
Guglielmo Vinci, Giulia Vinci e Luigi Tallarico per www.policlic.it