Corri, giovinezza a cavallo! – L’omaggio a Gabriel Byrne con “Into the West” (1992)
(a cura di Luigi Tallarico)
È ormai storia la decisione, di cui leggiamo la cronaca sui giornali irlandesi del primo marzo 2017, di riconoscere lo status di minoranza etnica da parte dell’allora Taoiseach Enda Kenny a beneficio della comunità degli Irish Travellers, altresì noti come Pavees o, in gaelico, an Lucht Siúil.
Datata molto più indietro nel tempo è invece la pellicola Into the West, un classico diretto da Mike Newell nel 1992 su sceneggiatura di un ispirato Jim Sheridan e di cui qui vogliamo tessere le lodi dopo averne gradito le scene all’IRISH FILM FESTA, nella quarta e penultima giornata di rassegna.
Sheridan ci inizia al mondo dei Travellers con una pellicola inusitatamente (per il suo consueto realismo puro) magico-realista che colpisce ed ammalia lo spettatore tenendolo sospeso tra la malinconia di una persona cara persa troppo presto e la spensieratezza fanciullesca della vita filiale che prorompe e rifiuta la sedentarietà; lo trascina sulla scia delle ali della libertà, nell’empito della forza quasi sovrumana di un cavallo “divino”, non alato come Pegaso, ma pur sempre bianco e salvifico: il cavallo Tír na nÓg.
La trama ruota, o sarebbe meglio dire corre, intorno al cavallo e ai suoi due giovanissimi cavalieri, i bambini Tayto e Ossie.
Figli di “Papa” Reilly (interpretato da Gabriel Byrne), un tempo “King of the Travellers” ma ormai caduto in un profondo stato di depressione ed alcolismo per la prematura morte della moglie, vivono una vita sedentaria dopo il rifiuto del padre di proseguire in una vita errabonda.
Ecco però che il nonno ancora “viaggiatore”, come un antico bardo, un fili dei tempi andati, porta ai bambini il duplice regalo delle leggende folkloristiche irlandesi raccontate allo scoppiettare del fuoco e del cavallo bianco Tír na nÓg, ossia “Terra dell’Eterna Giovinezza”. Il legame profondo che si instaura fra Ossie e l’animale si giustappone al mito e il forte desiderio di essere un cowboy e di andare verso occidente, il West, si concretizza in una serie di fatali peripezie che porteranno Ossie e Tayto a fuggire in groppa a Tír na nÓg nelle plaghe d’Irlanda. Veri vagabondi in un mistico viaggio. Parallelamente il padre vive la propria redenzione nella ricerca dei figli perduti, e si riconcilia gradualmente con il ricordo della moglie perduta.
Gli eventi si susseguono miracolisticamente e si è catturati nel sogno di poter rivivere un mondo mitico, quello tipicamente celtico e specialmente irlandese, in cui naturale e soprannaturale convivono senza problemi. Scrive Marie-Louise Sjoestedt in “Celtic Gods and Heroes” (1949) : “Some people, such as the Romans, think of their myths historically; the Irish think of their history mythologically”.
Non si può non percepire questo alone mitico quando fin dall’inizio ci si accorge che in realtà, più che il vecchio Pavee, sembra che sia il nobile animale a scegliere la compagnia dei Travellers, come se fosse cosciente delle proprie azioni, inviato di una forza soprannaturale. Agli appassionati potrebbero sovvenire alla mente le immagini della giumenta di Epona o della corrispettiva gallese Rhiannon. Tutti però concorderanno che il cavallo, nel film come nel simbolismo tradizionale, è l’Ardore domato dall’Intelletto che lo cavalca. I due bambini in questo caso sono però piuttosto “cavalcati” e portati avanti dall’animale ; questo perché l’ardore dell’innocenza e della volontà di vivere nell’immediatezza di una vita che non vuole riconoscere il materialismo come possibilità relazionale è il tema che prevale, come lo stesso significato del nome Tír na nÓg sembra suggerire. Troviamo una conferma di ciò quando ascoltiamo Ossie più volte scongiurare l’avvento dell’età adulta.
Denso nei richiami alla spiritualità, soprattutto cristiana, Sheridan potrebbe lasciare interdetto per la banalità con cui dipinge gli antagonisti della storia: si capisce immediatamente che sono figure di poco spessore e dai tratti caricaturali quasi favolistici (il ricco e viziato proprietario terriero, il poliziotto che nutre un esagerato odio razziale, lo stato tiranno che è dalla parte dei forti e non dei deboli).
La regia è stata in parte capace di sopperire a queste mancanze, proponendo uno sviluppo graduale della panoramica naturale. Dalla grigia Dublino, alle verdi distese dell’Irlanda centrale, fino all’Oceano agitato da libere onde.
Va aggiunta una considerazione sulla colonna sonora di Patrick Doyle , compositore che ha collaborato in numerose pellicole come in quelle di Kenneth Branagh (incise la colonna sonora del suo adattamento dell’Enrico V) che ci regala questa volta temi dal tono gaelico, tali da intarsiare il ritmo della vicenda di magiche increspature.
Ma probabilmente le descrizioni non riescono a rappresentare appieno le forme che la mente può ricreare dall’ascolto di musica così celestiale. Basti pensare al tema che accompagna le prime immagini del film in cui Tír na nÓg danza sulla riva del mare (qui il link).
L’IRISH FILM FESTA non delude nel proporre questo titolo in onore di Gabriel Byrne, considerato anche il complesso dell’intera giornata.
La scelta della pellicola è comprensibile per la voglia di non far mai mancare un classico nella rassegna, al tempo stesso valorizzando un titolo meno noto al pubblico, e se poi Gabriel Byrne stesso invia una lettera con un breve messaggio in ricordo dell’importanza del film, a noi presenti non può che ispirare gratitudine nei confronti di chi ci ha donato questi momenti sognanti.
La grande fuga dal “labirinto a blocchi” – La proiezione ed il dibattito sul film “Maze” (2017)
(a cura di Guglielmo Vinci)
5 Marzo 1981 : il Primo Ministro britannico Margaret Thatcher rifiuta di piegarsi e cedere contro i detenuti dell’IRA che da giorni hanno cominciato il secondo sciopero della fame (“There is no such thing as political murder, political bombing, political violence. There is only criminal murder, criminal bombing, and criminal violence.“)
5 Maggio 1981 : lo sciopero della fame di Bobby Sands, membro dell’IRA detenuto nel carcere di Long Kesh si conclude dopo sessantasei giorni con la sua morte per inedia.
20 Agosto 1981 : muore per inedia Mickey Devine, il decimo ed ultimo hunger striker.
25 Settembre 1983 : nel Maze di Long Kesh ha luogo la più grande evasione della storia del sistema carcerario britannico che porterà trentotto detenuti dell’IRA a fuggire da quella che era definita “la prigione più sicura di tutta l’Europa“.
Nello stesso giorno ne vennero ripresi quindici, altri quattro nei due giorni seguenti mentre solo negli anni successivi i restanti si divisero tra la morte o la cattura mentre si trovavano all’estero…ma il danno era già stato fatto : l’evasione colpì in modo devastante le certezze del Regno Unito, partirono inchieste governative sulle responsabilità materiali sull’evasione da Long Kesh e vi furono dimissioni da parte di alcuni funzionari di Stato.
“Maze”, il nome della pellicola del regista irlandese Stephen Burke , arricchisce la filmografia dedicata al periodo storico dei Troubles con questo tassello appartenente alla storia del conflitto nord-irlandese, e non poteva trovare contesto migliore dell’IRISH FILM FESTA per presentarsi al pubblico italiano (il film è passato molto in sordina nelle sale) , considerando come il tema dei Troubles dal punto di vista cinematografico fosse stato trattato e dibattuto proprio nella FESTA dello scorso anno con una conferenza tenuta dal professor Martin McLoone della University of Ulster.
Frutto di una co-produzione tra Irlanda e Svezia (paese che ha voluto sovvenzionare la realizzazione del film e dove sono state effettuate alcune riprese del girato, come hanno voluto spiegare il regista e la moglie, nonchè produttrice del film, Jane Doolan) , Maze ripercorre sì gli eventi che portarono alla “Great Escape” (come ribattezzata dai repubblicani) del 1983, ma nella sua narrativa approfondisce anche un aspetto che è stato trattato di rado nelle pellicole che vanno a comporre la filmografia, o meglio la “fase della filmografia” come ebbe modo di definirla il professor McLoone, contemporanea dei Troubles. Laddove i registi hanno avuto modo di seguire i percorsi narrativi che ruotavano attorno alla fazione repubblicana e dell’Irish Repubblican Army come soggetto principale, Burke approfondisce e scava all’interno del conflitto tra i repubblicani ed i lealisti dell’Ulster fedeli alla Corona britannica in un modo che, al momento, solo la pellicola ’71 di Yann Demange (2014) era riuscita a fare, come ha avuto modo di spiegare durante la presentazione della pellicola alla quale ha presenziato con la moglie e l’attore Barry Ward riportata in questo estratto video.
La presenza di detenuti appartenenti alle fazioni opposte di Belfast (come dell’intero Nord Irlanda) nel complesso penitenziario di Long Kesh e all’interno di specifici blocchi del Maze fu un’ulteriore scelleratezza da parte del “governo di Sua Maestà” (se ne potrebbe tirar fuori una lista molto lunga) che trasportò il conflitto tra Dublino, Belfast e Londra dalle strade ed i pub dell’Ulster fin dentro alle prigioni creando ulteriori problemi o teorici vantaggi per l’una come per l’altra fazione. Dal punto di vista cinematografico invece, il fatto permette al regista di offrire un’ulteriore sfaccettatura del conflitto nord-irlandese approfondendo queste dinamiche in un percorso parallelo anche se secondario alla storia principale : la meticolosa pianificazione e preparazione della grande fuga ad opera di Larry Marley, militante dell’IRA realmente vissuto (venne ucciso il 2 Aprile 1987, poco dopo la fine della propria pena detentiva, da un militante dell’Ulster Volunteer Force) ed interpretato nella pellicola da Tom Vaughan-Lawlor.
Disprezzato dai detenuti orangisti (“fenian bastard” è il complimento più affettuoso) e dalle guardie del suo blocco, nel film Marley viene dipinto all’inizio anche come un traditore dai propri commilitoni perchè colpevole di aver interrotto il proprio sciopero della fame e di essersi piegato alla volontà del nemico britannico/lealista in cambio del ripristino di alcuni diritti fondamentali e della propria sopravvivenza.
In questo scenario si inserisce la figura del secondino Gordon (figura romanzata ed interpretata da Barry Ward) il quale, dopo un iniziale ostilità (l’odio verso i repubblicani non lascerà mai Gordon, che infatti subirà anche un attentato da parte dell’IRA) verso Marley , gradualmente comincerà a mutare il proprio comportamento nei suoi confronti. Il motivo? Marley ha deciso di “sconfiggere il nemico dall’interno” offrendosi come lavoratore (“Mia moglie era solita chiamarmi il re del mocio“) all’interno del blocco. Una scelta che piace ancor di meno ai commilitoni repubblicani che fanno capo al romanzato Comandante Oscar (Martin McCann, già noto al pubblico dell’IRISH FILM FESTA per aver prestato la voce a Bobby Sands nello struggente Bobby Sands : 66 Days presentato lo scorso anno) : le gerarchie e le decisioni politiche all’interno dell’IRA, fuori dal carcere come al suo interno, vanno infatti rispettate (coinvolgendo l’organo in modo attivo nelle decisioni che verranno prese).
Nonostante tutto ciò, Marley prosegue nella propria strada e offrendosi a mansioni umili conosce il proprio nemico, lo osserva alla ricerca di punti deboli e, una volta trovati, approfondisce e “lavora i fianchi scoperti” delle guardie del Maze (nel nome di una stabilità e normalizzazione dei rapporti, vengono fatte ulteriori concessioni ai detenuti del tutto disapprovate da Gordon) come del carcere stesso.
Fino a quando non progetta “il piano perfetto” , che ovviamente viene inizialmente respinto dall’IRA tramite una comunicazione dall’esterno (“i pizzini in salsa menta”) rivolta al Comandante Oscar. Solo un successivo cambio di rotta porterà il progetto d’evasione di Marley, che non vi parteciperà per finire di scontare gli ultimi due anni della propria condanna, alla sua attuazione e successo (“abbiamo un solo colpo, un solo singolo colpo“). Il secondino Gordon, “ingannato e tradito nella fiducia” da Marley, restaurerà brutalmente il rapporto gerarchico e di potere nei confronti del detenuto che l’ha ingannato prima di “mettersi in semi-libertà vigilata” a seguito delle inchieste governative sui fatti del Maze.
Una volta terminata la proiezione è stato possibile discutere con i graditissimi ospiti della giornata, nel dibattito moderato dalla direttrice artistica dell’IRISH FILM FESTA Susanna Pellis. Numerose le domande provenienti dalla moderatrice come dal pubblico, dalle quali è stato possibile scoprire il coinvolgimento della Svezia nella realizzazione della pellicola (le scene conclusive sono state girate negli interni di un carcere svedese con la divertente curiosità delle lingue parlate all’esterno durante le riprese) , il notevole lavoro sugli accenti nord-irlandesi dei due attori protagonisti (sia Ward che Vaughan-Lawlor sono di Dublino) e i vantaggi di aver potuto riprendere all’interno di un vero carcere, con tanto di coinvolgimento attivo di esperti del settore quali le guardie penitenziarie del nuovo carcere di Cork limitrofo al luogo delle riprese, il vecchio carcere di Cork.
La scelta è stata motivata dalla “struttura pressochè identica a quella del complesso di Long Kesh” motivo per cui si è lavorato per sistemare il penitenziario, allora in uno stato di abbandono, per il periodo delle riprese.
Importante anche il contributo che Barry Ward ha voluto dare al pubblico sulla creazione del ruolo del secondino Gordon, sia dal punto di vista fisico (“Ho seguito un allenamento intenso e ho bevuto tanto”, quest’ultimo passaggio ha creato un divertente siparietto in cui ha specificato si trattasse di frullati proteici, “per aumentare la mia massa muscolare e compensare il fatto di essere più basso di Tom [Vaughan-Lawlor ndr]. Una volta ultimate le riprese però ho visto il mio corpo sgonfiarsi come un palloncino!” ma soprattutto quello psicologico, nella sua interiorizzazione del ruolo del personaggio.
In questo secondo estratto video, è possibile vedere una parte del dibattito tra il pubblico e gli ospiti della pellicola “Maze”, nella quale anche noi di Policlic.it abbiamo partecipato rivolgendo domande a Barry Ward e al regista Stephen Burke, al quale invece abbiamo chiesto maggiori delucidazioni sulla scelta di allacciare una storia secondaria (lo scontro tra repubblicani e lealisti) all’interno di quella principale.
I cortometraggi della giornata – The Captors e You’re Not A Man At All
The Captors (Irlanda del Nord, 2015) = Rimandato da Luigi Tallarico
Una storia di tre rapinatori che da carnefici si tramutano in vittime come gli altri.
La vera vincitrice è l’irrazionalità, non quella femminile come si potrebbe pensare, ma quella straniante di azioni compiute all’ombra del caos. La scena, dopo una brevissima introduzione che subito mostra il movente del rapimento, si sposta nella casa di un uomo molto ricco in cui i tre si introducono a forza per ricattarlo usando la vita della moglie come pedina di scambio.
Tutto andrebbe liscio se il facoltoso marito non ribaltasse le carte, non solo accettando di pagare i rapinatori ma trasformandoli nei sicari della moglie infedele, rovinando i piani al capo della banda, segretamente impegnato con la donna.
Ciò che non piace del corto è la recitazione, forzata e innaturale nei momenti più critici. Forse ci si aspetterebbe una violenza più spontanea in un cortometraggio thriller. La vera forza del pezzo di sedici minuti è l’assurdo groviglio degli eventi che vanificano ogni piano e si dipanano infine in morte e disperazione.
You’re Not a Man at All (Irlanda, 2017) = Rimandato da Guglielmo Vinci
Si aggiunge alla categoria dei “vorrei ma non posso” il secondo cortometraggio (strutturato alla maniera del mockumentary) di quasi dieci minuti del regista Padraig Conaty che racconta la vita semplice, immersa nella terra della contea di Monaghan al limite del soffocamento (“Tah, you’re a farmer, you’re stuck for life“) , di un allevatore locale.
Una vita scandita dalle attività nel pascolo e nelle coltivazioni di cui non si lamenta “del tutto” apprezzando infatti il lavoro a contatto con la natura (“l’autunno è la mia stagione preferita”). Ma la storia non parla di un semplice allevatore qualsiasi, ma di un semplice allevatore che lotta con la propria doppia identità : allevatore da una parte, drag queen amante del canto dall’altra. L’occasione di un concorso canoro per drag queen sarà la possibilità per lui di poter essere quello che sente realmente dentro di sè.
Le idee sono interessanti come le intenzioni, presenti anche alcuni momenti divertenti (la vittoria del concorso da parte del presidente della squadra di calcio locale che viene celebrato come un fresco vincitore dei Mondiali, suscitando anche un po’ d’invidia nell’allevatore) ma non bastano per dare un giudizio complessivamente positivo del corto.
The Breadwinner – NON un semplice film d’animazione
Nella serata della quarta giornata del Festival, la cinepresa fa volare il pubblico spettatore dalle verdi lande d’Irlanda alla Kabul martoriata dal regime dei talebani.
Il viaggio transcontinentale avviene con l’apparente grazia (sublime tralaltro) delle sequenze sceniche disegnate, colorate a mano e successivamente digitalizzate, delle opere di carta e della grafica tridimensionale che arricchisce ma non opprime la bellezza dei disegni classici ma che nascondono una violenza totale (quella perpetuata dai talebani nei confronti dei non conformi all’interpretazione pashtun della Sharia) che prende e colpisce gli spettatori con il fare di un pestaggio.
Al termine della proiezione ho potuto constatare con i miei occhi i volti disperati e pieni di lacrime di bambini e bambine presenti con le famiglie alla visione del film.
Se lo scopo della regista irlandese Nora Twomey (figura oramai “di casa” all’IRISH FILM FESTA, alla terza pellicola proiettata nelle edizioni del Festival) era quello di riportare le parole non scritte (la violenza, la brutalità ed il terrore scaturito dai talebani in uomini, donne e bambine) del romanzo Sotto il Burqa di Deborah Ellis nella loro potenza esplosiva e far riflettere il pubblico, allora ci è riuscita benissimo.
Perché non si può dire altro del grande film The Breadwinner (2017) , prodotto dalla casa di produzione irlandese Cartoon Saloon (alla quale Susanna Pellis ha voluto dedicare un omaggio a cui ha partecipato la Creative Director Louise Bagnall) con il sostegno del Canada e del Lussemburgo.
Elogiato dalla critica cinematografica, candidato al Premio Oscar di quest’anno come miglior film d’animazione, si è rivelato capace di smuovere le coscienze dell’opinione pubblica (l’ambsciatrice umanitaria dell’ONU nonchè produttrice esecutiva del film Angelina Jolie e la giovane Premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai si sono fatte portavoci della pellicola come del romanzo).
Purtroppo, è uno di quei casi di film dove gli elogi della critica non combaciano con un apprezzamento ai botteghini (poco più di trecentomila dollari incassati tra Stati Uniti e Canada a fronte di un budget di dieci milioni spesi per la realizzazione del film).
Si potrebbe pensar male se si pensasse agli incassi così bassi in una Nazione che è “leggermente” responsabile per i disastri in Afghanistan (un messaggio rivolto, “ovunque si trovi”, a Ronald Reagan, finanziatore dei mujaheddin afghani in chiave anti-sovietica negli anni Ottanta) che ancora oggi continuano a perpetrarsi in un Paese traumatizzato in modo permanente dalle guerre e le esportazioni di democrazia.
Rimanendo in ambito cinematografico, The Breadwinner è un’opera d’arte : dal contenuto durissimo, ma sempre tale.
Ambientata nella Kabul sotto il regime talebano, poco prima dell’inizio delle operazioni statunitensi di Enduring Freedom, il film racconta la storia della giovane Parwana, una bambina che vede il padre, ex-professore e mutilato di guerra, vessato dal giovane miliziano Idrees e da questi successivamente arrestato per aver osato rispondere a tono alle loro minacce (oltre all’infrazione dei precetti morali della Sharia per le donne della famiglia, la madre Fattema e la sorella Soraya).
Private dell’unico uomo adulto di casa (Parwana ha un fratello minore, Zaki) in grado di mantenerle, Fattema e Parwana provano a fare un reclamo per avere notizie del padre e marito. Ma la risposta dei talebani è spietata : un miliziano strappa la foto dell’uomo arrestato (sono proibite) e colpisce ripetutamente la donna sotto al burqa , colpevole di non essersi sottomessa e non aver ubbidito agli ordini, lasciandola esanime per strada.
Con la madre in gravi condizioni, tocca a Parwana provvedere ai compiti “apparentemente” più semplici : prendere l’acqua dal pozzo e comprare del cibo al mercato.
Ma una donna non può girare da sola se non accompagnata da un uomo adulto o dal proprio “guardiano” : nella fuga successiva all’alt dei talebani perde il borsello con il denaro.
Disperate, assetate, affamate e con una madre ed un bambino di cui prendersi cura, nella casa di Parwana la giovane figlia fa un gesto eclatante : si taglia i capelli ed indossa abiti da ragazzo , eredità del defunto (vittima di una mina anti-uomo) fratello maggiore Suleyman.
Nella nuova condizione di bambino, può provvedere ai bisogni della famiglia.
Ma ad un prezzo salato : il dover osservare inerme i soprusi e le atrocità dei talebani nei confronti delle altre donne.
L’incontro successivo con la sua compagna di scuola Shauzia, ora Delawar, l’aiuta a creare la propria identità maschile (Aatesh, fuoco in urdu) e a guadagnare un po’ di soldi.
Ma Parwana non si arrende alle leggi dei talebani, vuole portare via il padre dalla prigione. Tra varie peripezie, il matrimonio combinato di Soraya con un lontano cugino che rischia di tramutarsi in una strage e le bombe degli aerei statunitensi che annunciano l’inizio della guerra in Afghanistan, Parwana riuscirà a sconfiggere il Re Elefante, proprio come l’eroe della favola raccontata davanti al focolare domestico (ribattezzato Suleyman).
Gli scroscianti applausi, in un’ovazione durata per minuti, uniti alle lacrime di quei bambini e bambine presenti in sala hanno reso il giusto merito ed omaggio ad un film straordinario nella sua storia, nel suo messaggio sociale (peccato dover constatare sempre come delle giuste osservazioni, analisi e rivendicazioni, partano da un errore ab origine che ha una bandiera a stelle e strisce) e nello splendore della sua animazione.
Come ha detto giustamente Susanna Pellis “c’è ancora chi crede che l’animazione sia soltanto un discorso per bambini”. Mai frase fu più sbagliata di questa.
Guglielmo Vinci e Luigi Tallarico per www.policlic.it