Covid-19 e contrazione economica
La diffusione pandemica del virus SARS-CoV-2 ha sortito un rilevante impatto sulla nostra società: sia su di un piano strettamente esistenziale, incidendo negativamente sulla salute – fisica e psicologica – dell’uomo; sia su aspetti più squisitamente economici, ingenerando una forte crisi nel tessuto imprenditoriale e commerciale del nostro Paese.
In particolare, le misure restrittive (il cosiddetto “lockdown generalizzato”) imposte nei mesi di marzo e aprile su tutto il territorio nazionale, così come gli attuali interventi di contrasto al virus – che vedono l’Italia divisa in zone in base ai diversi indici di gravità di diffusione dello stesso –, hanno determinato la chiusura forzata di molte attività e la rimodulazione degli orari di apertura al pubblico di altre.
Inoltre, sebbene tutte le attività abbiano avuto l’opportunità nel periodo estivo di riaprire, così come avviene oggi per alcune di esse, si è determinata in capo alle stesse una contrazione economica senza precedenti se non, in taluni casi, un vero e proprio azzeramento del volume di affari.
Questo per due ordini di ragioni: in primo luogo, la minore affluenza di clientela dovuta alle restrizioni incidenti sulla libertà personale dei cittadini, alla paura del contagio e – non da ultimo – alla compressione della capacità di acquisto delle famiglie italiane; in seconda battuta, le ingenti spese sostenute per predisporre gli obbligatori presidi di sicurezza (mascherine, plexiglass, gel igienizzanti, ecc.) che vengono a sommarsi ai costi fissi connessi all’esercizio dell’attività d’impresa.
Di qui l’esigenza – sorta in capo ai conduttori di locali a uso commerciale – di ottenere una riduzione dei canoni di locazione, al fine di arginare i danni economici patiti in virtù della suddetta pandemia.
Tale pretesa si rivela, in effetti, legittima dal momento che in materia contrattuale si registra una costante tensione tra gli opposti principi di pacta sunt servanda e rebus sic stantibus sicché – sebbene quanto statuito nell’oggetto del contratto costituisca legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e vada, per questo, osservato – debbono, altresì, essere considerate quelle sopravvenienze che ne alterino significativamente l’equilibrio[1].
Per quanto ivi di interesse, il carattere di eccezionalità e imprevedibilità della pandemia impone – secondo logiche di equità – la ripartizione del rischio tra le parti coinvolte, nella specie locatori e conduttori[2].
Il principio costituzionale di solidarietà, che rinviene il suo fondamento nell’articolo 2 della Carta Fondamentale, suggerisce, invero, una soluzione che consideri la non imputabilità della pandemia ad alcuno dei paciscenti e che sia tale da allocare le conseguenze negative della vicenda in modo, appunto, solidaristico.
Altro principio di rango costituzionale che viene in rilievo è il principio lavorista, sancito dall’articolo 1 della Costituzione, poiché – si è evidenziato in dottrina – privilegiare il proprietario che pretende la corresponsione per intero del canone in danno del conduttore il quale – in virtù della contrazione economica subita – ne chiede invece la riduzione, significherebbe far prevalere la rendita al lavoro, di contro ai principi fondativi dell’ordinamento costituzionale.
Squilibrio contrattuale: quali tutele per il conduttore?
Tanto premesso, si rende opportuno procedere con ordine, passando in rassegna le diverse tesi prospettate in dottrina e – di recente – in giurisprudenza, in relazione ai rimedi esperibili a fronte dello squilibrio contrattuale ingeneratosi, per le ragioni sopra illustrate, in danno dei conduttori nei contratti di locazione a uso commerciale.
Si valuteranno, infine, le modifiche legislative intervenute – in modo non soddisfacente – in materia e le nuove prospettive de iure condendo.
Ebbene, tutte le teorie in rilievo sono unanimi nel ritenere che la clausola generale di buona fede contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.) e il principio solidaristico (art.2 Cost.) – di cui la stessa rappresenta un corollario – impongano una rinegoziazione spontanea delle parti al fine di rideterminare il canone dovuto dal conduttore[3].
Tale soluzione consentirebbe in modo agevole – senza il ricorso all’autorità giudiziaria – di ricondurre il contratto a equità, ridistribuendo nelle rispettive sfere dei paciscenti il peso della sopravvenienza.
A fronte di tale comune premessa, dottrina e giurisprudenza hanno tuttavia individuato diversi rimedi esperibili in caso di mancato adempimento del predetto obbligo di rinegoziazione.
Orbene, la dottrina maggioritaria[4] evidenzia come la rinegoziazione sia soluzione rimessa alla libera volontà delle parti coinvolte nel rapporto giuridico, di talché ove la parte – che non subisce la sopravvenienza – non intenda acconsentire alla rinegoziazione, non vi sarebbero rimedi percorribili eccetto quello risarcitorio conseguente all’inadempimento dell’obbligo de qua (violazione dell’obbligo di rinegoziazione ex bona fide)[5].
Inoltre, il conduttore dell’immobile a uso commerciale che – nonostante l’eccezionalità e imprevedibilità dell’evento – non riuscisse a ottenere dal locatore la rinegoziazione del canone potrebbe, in via alternativa o cumulativa alla richiesta risarcitoria, domandare in giudizio la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’art. 1467 c.c.
Il suesposto rimedio opera, infatti, quando la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa in seguito al verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili – caratteri che connotano l’evento pandemico – e la sopravvenienza non rientri nell’alea normale del contratto[6].
Nel caso di specie trattasi di onerosità indiretta, dal momento che la parte – ossia il conduttore – più che lamentare una prestazione divenuta in sé più difficile o costosa, si duole di dovere quella stessa prestazione in cambio di una controprestazione che ha imprevedibilmente perso parte del valore che aveva al tempo del contratto.
Il rimedio della risoluzione sortisce, però, un esito demolitorio e potrebbe rivelarsi – con buona probabilità – non soddisfacente per la parte che subisce la sopravvenienza, considerato che lo scioglimento del contratto potrebbe riverberare negativamente i suoi effetti sull’avviamento d’impresa e, conseguentemente, comportare la cessazione dell’attività economica.
Va del pari evidenziato che il canone di buona fede – così come esclude che il contratto resti intatto, addossando tutti gli effetti della sopravvenienza in capo al conduttore – osta altresì a un’indiscriminata facoltà di quest’ultimo di agire per la risoluzione del rapporto che – al contrario – porrebbe l’intero peso dell’evento pandemico a carico del locatore.
Si ricorda, per completezza espositiva, che la parte contro la quale è domandata la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Si tratta, tuttavia, di libera scelta della parte – difatti la littera legis utilizza l’espressione “può” – la quale soltanto è in grado di determinare un effetto conservativo del contratto ristabilendone l’equilibrio; laddove tale offerta non dovesse pervenire, si realizzerebbe inevitabilmente lo scioglimento del rapporto.
Secondo altra dottrina – minoritaria[7] – i rimedi esperibili a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione non si ridurrebbero a quello demolitorio per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) e risarcitorio da inadempimento (art. 1218 c.c.). Sarebbe infatti possibile agire in giudizio mediante il rimedio di cui all’articolo 2932 c.c., al fine di ottenere una pronuncia costitutiva del giudice che realizzi coattivamente la riduzione del canone dovuto dal conduttore.
La critica avanzata nei confronti del suesposto orientamento è quella di ingenerare confusione tra i differenti obblighi di contrarre e obblighi di contrattare.
Si ritiene infatti – in via pressoché unanime – che il rimedio di cui all’articolo 2932 c.c. sia di carattere eccezionale e vada riferito ai soli obblighi di contrarre, poiché volto esclusivamente ad attuare il programma negoziale così come voluto dalle parti, nel rispetto, dunque, dell’autonomia negoziale.
Diversamente, interpretando l’articolo 2932 c.c. come estendibile anche all’obbligo di contrattare – quale quello di rinegoziazione – si conferirebbe al giudice il potere di intervenire d’ufficio, mediante sentenza costitutiva, sul contenuto del contratto riequilibrandolo.
Si deve concludere, quindi, nel senso che quello disposto dall’articolo 2932 c.c. sia un rimedio non di carattere sostitutivo, conservativo, di adeguamento, bensì un rimedio meramente attuativo della volontà delle parti.
Ne consegue che, al più, sarà possibile far ricorso al rimedio in questione solo ove le parti, ancorché non abbiano raggiunto l’accordo di rinegoziazione, abbiano tuttavia stabilito nel contratto originario (cosiddette clausole di rinegoziazione), ovvero nel corso delle successive trattative, criteri chiari e puntuali cui deve ispirarsi il giudice per il suo intervento sull’oggetto contrattuale.
Non convincono – circa i poteri di intervento del giudice – gli approdi cui è giunta una recente giurisprudenza[8] che – pur in assenza dell’esperimento a opera della parte del rimedio di cui all’articolo 2932 c.c. – ha ritenuto che il giudice dovesse intervenire sul contenuto del contratto per ricondurlo a equità.
Nella suddetta pronuncia il giudice afferma che può essere esperita in via autonoma e principale un’azione di riduzione in via equitativa dei canoni di locazione, senza che sia previamente esperita domanda di risoluzione per eccessiva onerosità.
Si evidenzia come la buona fede possa essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti e imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che “sospingano lo squilibrio negoziale oltre l’alea normale del contratto”.
Si conclude affermando che, in ragione della mancata ottemperanza della parte resistente –ossia il locatore – ai doveri di rinegoziazione derivanti dai principi di buona fede e solidarietà, è necessario per il giudice fare ricorso alla buona fede integrativa per riportare in equilibrio il contratto.
Trattasi di conclusioni per nulla ovvie e, sin qui, sostanzialmente sconosciute alla giurisprudenza italiana che di rado si spinge sino a esercitare poteri che la legge non le conferisce, specie quando si tratta di interferire nella sfera di autonomia negoziale delle parti.
Per dottrina e giurisprudenza maggioritarie, invero, la buona fede in funzione integrativa (art. 1375 c.c.) non può determinare il tramonto dell’autonomia negoziale, in quanto il giudizio di convenienza ed equità deve – al netto di eccezioni previste ex lege – essere rimesso alla libera e volontaria determinazione delle parti. Sono queste ultime che stipulano i contratti, non i giudici. Diversamente, ove si legittimasse – in via giurisprudenziale – un potere assoluto dei giudici di intervenire sull’oggetto del contratto ogniqualvolta lo ritengano ingiusto e contrario a buona fede, si minerebbe la certezza dei rapporti giuridici[9].
Eppure, un più ampio potere di intervento è riconosciuto ai giudici dai principi UNIDROIT, che nel nostro ordinamento costituiscono soft law, esplicando mera forza persuasiva. Più precisamente, l’articolo 3.2.7 sancisce la possibilità del giudice, a fronte di un contratto squilibrato e su richiesta della parte che avrebbe diritto all’annullamento, di adattare il contratto o le sue clausole in modo da renderlo conforme ai criteri ordinari di correttezza nel commercio.
Tanto premesso, la pronuncia può essere apprezzabile, tuttavia, sotto altro profilo, ossia il tributo reso al principio di effettività della tutela, dal momento che non si limita ad acclamare in via astratta un diritto (quello del conduttore a ottenere una rinegoziazione del canone) ma predispone un rimedio concreto per attuarlo in via specifica.
In tale sede il giudice evoca, inoltre, un altro rimedio che conduce al medesimo risultato pratico, ossia quello della riduzione del canone, rappresentato dalla norma sulla impossibilità parziale sopravvenuta di cui all’articolo 1464 c.c.
Il predetto disposto normativo sancisce il diritto per la parte a ottenere una riduzione della prestazione da essa dovuta in seguito alla parziale impossibilità che affligge la prestazione di controparte.
Nella circostanza ivi di interesse, la parziale impossibilità sarebbe ravvisabile nella prestazione del locatore che – in ragione delle chiusure imposte dalle misure di contrasto alla pandemia – non consentirebbe al conduttore il pieno godimento dei locali commerciali.
Riassumendo, tale giurisprudenza ritiene che rientrino nella sfera di applicabilità dell’articolo 1464 c.c. tutti i casi in cui la prestazione sia divenuta parzialmente impossibile per causa non imputabile al locatore e che precludano la fruizione totale dell’immobile.
Trattandosi di impossibilità parziale di carattere temporaneo, la riduzione del canone sarà destinata a cessare nel momento in cui la prestazione del locatore potrà tornare a essere compiutamente eseguita.
Concludendo, i rimedi attualmente individuati da dottrina e giurisprudenza per far fronte alle conseguenze della pandemia riverberatesi in danno dei conduttori di locali commerciali sono i seguenti: la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, la riduzione della prestazione del conduttore in seguito alla parziale impossibilità della controprestazione e – infine – la rinegoziazione imposta dalla clausola generale di buona fede.
In relazione a tale ultimo rimedio, inteso all’unanimità come il più soddisfacente e sicuramente applicabile alla fattispecie de qua, si dibatte circa la possibilità di ottenerne in giudizio la specifica attuazione, allorché le parti non siano pervenute – spontaneamente – alla rinegoziazione del canone.
La tesi prevalente considera inattuabile – nel caso di specie – il rimedio di cui all’articolo 2932 c.c., così come esclude che il giudice possa utilizzare lo strumento della buona fede integrativa per intervenire sull’oggetto del contratto al fine di ricondurlo a equità.
Novità legislative e prospettive de iure condendo
A oggi, non esiste nell’ordinamento un disposto normativo che introduca, in via esplicita, un diritto delle parti – attuabile anche coattivamente in via giudiziale – di pretendere la rinegoziazione secondo buona fede di contratti divenuti squilibrati per cause eccezionali e imprevedibili.
Ne è riprova il fatto che il legislatore, impegnato nel progetto di riforma del codice civile, stia valutando l’opportunità di introdurre un siffatto diritto in via positiva, secondo l’indicazione di cui all’articolo 1 comma 1 lettera i) del d.d.l. recante delega al governo per la revisione del codice civile (legge delega n. 1151/2019).
Tale essendo la prospettiva de iure condendo, va rilevata la critica addotta da parte della dottrina che ritiene la suddetta previsione normativa viziata sia per difetto che per eccesso, in quanto: da un lato manterrebbe il limite della eccezionalità e imprevedibilità e, dall’altro, imporrebbe il dovere – attuabile in giudizio – di rinegoziazione, anche ove lo stesso producesse dei costi, a carico della parte non affetta dalla sopravvenienza, tali da porla a rischio fallimento.
Ciò nonostante, la rinegoziazione è lo strumento di tutela più soddisfacente a fronte di eventi di tal fatta e, per tali ragioni, il legislatore dovrebbe attivarsi, altresì, nella predisposizione di incentivi fiscali per quegli accordi raggiunti spontaneamente tra le parti, di modo da favorirne la proliferazione.
Sin ora, gli interventi legislativi attuati per tutelare i conduttori in periodo di pandemia si concretano in: una misura volta a disporre un credito di imposta del 60% sui canoni di locazione pagati nel marzo 2020 (vedi d.l. n. 18, 17 marzo 2020, convertito in l. n. 27/2020); un nuovo modello per la richiesta di registrazione e adempimenti successivi dei contratti di locazione e affitto di immobili. Specificatamente, gli applicativi software collegati al modello RLI sono stati implementati per venire incontro alle esigenze degli utenti nel periodo emergenziale. Difatti, si agevola la comunicazione della rinegoziazione dei canoni di locazione poiché si consente di espletare l’adempimento tramite il modello RLI da parte dei soggetti abilitati ai servizi telematici dell’Agenzia. Inoltre, la registrazione dell’atto con cui le parti dispongono la riduzione del canone è esente dall’imposta di registro e di bollo[10].
Da ultimo, la previsione legislativa in apparenza più rilevante è quella introdotta dall’articolo 91 del d.l. n. 18/2020, per cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Ebbene, la suddetta norma esime da responsabilità il debitore, nella specie il conduttore, laddove lo stesso provi che l’inadempimento della prestazione – ossia il mancato pagamento dei canoni di locazione – sia maturato nel contesto dell’emergenza e in conseguenza del rispetto delle misure di contenimento.
Grava, dunque, sul conduttore la prova circa la sussistenza del nesso di causalità tra la misura di contrasto alla diffusione del virus e l’impossibilità di adempiere, dovendosi dimostrare che si tratta di impedimento all’adempimento non superabile con l’ordinaria diligenza[11].
All’uopo, va affermato che la chiusura di molte delle attività commerciali – disposta per contrastare la pandemia – è senz’altro da considerarsi come una “misura di contenimento di cui al presente decreto” che potrebbe aver impedito l’adempimento, nonostante l’ordinaria diligenza, poiché comporta una forte contrazione del fatturato non prevedibile e, dunque, non arginabile.
In tale evenienza il mancato pagamento dei canoni esimerebbe il conduttore dalla responsabilità per inadempimento di cui all’articolo 1218 c.c.
Sarà poi il giudice a valutare secondo le circostanze e a decidere se il rispetto delle norme di contenimento escluda la responsabilità del debitore, oppure, nel caso in cui non la escluda, a stabilire anche il quantum da risarcire tenendo conto del disposto dell’articolo 1223 c.c. (richiamato dal comma 6-bis dell’art. 91). Inoltre, benché il comma 6-bis affermi che il debitore inadempiente in ragione del rispetto delle misure di contenimento venga escluso anche da “decadenze e penali”, si presume che la regola debba essere estesa anche ad alcuni rimedi normalmente utilizzabili dalla controparte per far valere il proprio diritto a conseguire la prestazione, in particolare all’azione di risoluzione per inadempimento di cui all’articolo 1453 c.c., salvo che l’impossibilità sia sopravvenuta durante la mora del debitore ex articolo 1221 c.c.
Fiorenza Beninato per Policlic.it
Note
[1] Le sopravvenienze rilevanti sono quelle che pregiudicano l’interesse della parte, aggravando il sacrificio che il contratto le impone o diminuendo l’utilità che il contratto le reca: sono quelle che configurano un rischio inteso come possibilità di un pregiudizio.
[2] Viene evocata la teoria – di matrice tedesca – della presupposizione, secondo la quale i contratti, specie quelli a lungo termine, debbono continuare a essere rispettati e applicati dai contraenti sino a quando rimangano intatti le condizioni e i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Ne consegue che: se nelle locazioni commerciali il contratto è stato stipulato sul presupposto di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva, la chiusura forzata delle attività incide sul presupposto della convenzione negoziale che, dunque, deve subire delle modifiche.
[3] Crf. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, pp. 209 s. e 212 ss.
[4] Crf. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e impresa, 2003, p. 667.
[5] Si avrà inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata a essa o si limita a intavolare delle trattive di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell’accordo. Va rilevato che la parte non può dirsi inadempiente sol perché non acconsenta a ogni pretesa della parte svantaggiata e dunque non si addivenga alla conclusione del contratto. I canoni di buona fede e solidarietà contrattuale, fondati sulla buona fede, prescrivono di salvaguardare l’interesse altrui ma non fino al punto di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico.
[6] Il diritto comune dei contratti vede la risoluzione – ossia la soluzione estintiva del vincolo – come rimedio eccezionale. Per questo le sopravvenienze che conducono alla risoluzione devono presentare i caratteri di eccezionalità, devono comportare una grave sproporzione e configurare un’anomalia rispetto al rischio contrattuale.
[7] Secondo Vincenzo Roppo (Vedi V. Roppo, Il Contratto, II edizione, Giuffrè Editore, Milano 2011, p. 973) benché la soluzione di invocare il rimedio di cui all’articolo 2932 c.c. possa sembrare molto audace, il risultato di essa non è così eversivo. Equivale, invero, a dare alla parte gravata dalla sopravvenienza quello stesso potere di invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato che già le spetta nei contratti gratuiti (art. 1468 c.c.) e che nei contratti onerosi spetta a controparte (art. 1467 c.c.). Sicché non si tratterebbe di rimedio nuovo ma si configurerebbe un semplice allargamento della legittimazione a un rimedio già previsto.
[8] Tribunale ordinario di Roma, VI Sez. civile, 18 luglio 2020, ordinanza n. 29683.
[9] Cfr. F. Caringella, Manuale ragionato di diritto civile, Dike Giuridica Editrice, Roma 2020.
[10] La nuova versione del modello RLI è disponibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate, dove si trovano anche le istruzioni per la compilazione del modello RLI. Fino al 31 agosto 2020 è previsto un periodo transitorio per agevolare i contribuenti e gli operatori nel cambiamento delle procedure. In questa fase gli utenti possono scegliere se comunicare la rinegoziazione del canone con il modello RLI oppure tramite il modello 69, mentre dal 1° settembre 2020 dovrà essere utilizzato esclusivamente il modello RLI.
[11] Lasciare al creditore l’incombenza di provare che l’adempimento sarebbe stato possibile nonostante la necessità di rispettare le prescrizioni anti-contagio significherebbe addossargli la dimostrazione di circostanze avulse rispetto alla sua sfera di azione e rientranti, viceversa, entro quella del debitore, che conosce i dettagli della propria organizzazione interna e gli ostacoli che vi impattano.