La guerra al crocevia

La guerra al crocevia

Le transizioni nei rapporti di genere tra conflitto violento e peacebuilding

Introduzione

Una questione contemporanea pressante nei circoli accademici e professionali[1] che si occupano di sviluppo, sicurezza e peacebuilding è la relazione tra genere e conflitto, una relazione che attraversa temi, discipline e attori. Perciò, lo studio degli elementi di giunzione tra genere, conflitto e pace ha legato professionisti, policymaker e mondo accademico nella necessità di affrontare una gamma di questioni critiche e pratiche, incentrate su come il conflitto impatti uomini e donne in maniera differente, su come il peacebuilding possa essere maggiormente inclusivo e partecipato attraverso le pratiche di sensibilità di genere (dove le differenze di genere e il loro ruolo nel produrre norme e dinamiche sociali informano approcci diversi a una pace sostenibile), nonché sulle altre problematiche critiche legate all’esclusione strutturale delle donne dai programmi di pace e sviluppo e sulla denuncia delle pratiche di pace come patriarcali e neoliberali. In questo senso, il genere diventa un crocevia di guerra e pace.

Le questioni di genere possono infatti unire varie problematiche critiche e pratiche[2] riguardanti l’inclusione, la partecipazione e la differenziazione, nel momento in cui si discute il modo in cui la costruzione sociale delle mascolinità e delle femminilità influenzino le prospettive tanto nel modo in cui vengono affrontati la violenza e le sue conseguenze, quanto nella ricerca di una pace sostenibile negli scenari post-bellici. Questo testo cerca di evidenziare i differenti modi in cui il genere è utilizzato come lente per capire il conflitto, come indicatore per un peacebuilding inclusivo e sostenibile e come uno strumento critico che aiuti a identificare le contraddizioni e gli ostacoli per vittime e sopravvissuti. Inizieremo guardando ai crocevia tra genere e conflitto, offrendo alcune definizioni e connessioni con i dibattiti psicosociali e sulle cure post-traumatiche e legando tutto ciò con gli spunti che emergono dal dibattito sulla giustizia transizionale.

Una volta che questa congiunzione sarà stata presentata, la discussione muoverà verso una riflessione pratica su cosa possa essere fatto con il genere nella pratica dello sviluppo, del peacebuilding e dei diritti umani. Nel presentare le idee riguardo il gender mainstreaming e la sensibilità di genere, porremo l’attenzione sui framework internazionali per l’inclusione di genere e sulle proposte nei campi della psicologia sociale e della giustizia transizionale, capaci non solo di portare con sé delle possibilità pratiche, ma anche dei quesiti critici riguardo il tipo di coinvolgimento nelle questioni di genere nei diversi campi di attività.


Genere e conflitto al crocevia: le intersezioni tra definizioni, aree di studio e possibilità critiche

Nel contesto dei conflitti violenti, il genere emerge quale concetto relazionale, dedicato a osservare “i ruoli e le relazioni, i tratti delle personalità, gli atteggiamenti, i comportamenti, i valori, i relativi poteri e le relative influenze che la società assegna ai due sessi su di una base differenziale e costruita socialmente”[3]. Ciò richiede una comprensione dei rapporti di potere tra generi e di come questi rapporti di potere fondati sul genere si colleghino ai conflitti esistenti[4]. A causa della sua enfasi sulle relazioni, la teoria di genere esplora i processi di negoziazione, trattativa e scambio tra uomini e donne in diversi contesti e si interessa di come la costruzione delle mascolinità e delle femminilità determini l’accesso al potere e alle risorse in una società[5].

I contributi dai campi della psicologia e della sociologia allo studio dei conflitti hanno anche evidenziato l’importanza delle connessioni fra trauma, salute mentale e genere. Seguin[6] ha trattato le diverse forme di trauma e di strategie di coping atte a superarlo, includendo una analisi di genere del conflitto:

  1. Come lo sfollamento e la perdita di proprietà abbia spesso un impatto su più livelli sulle altre risorse a disposizione delle donne, in particolare sui mezzi di sostentamento, sulle reti sociali e sulla salute mentale e fisica;
  2. Come la povertà derivata da circostanze legate alla guerra sia riconosciuta quale fonte di costante stress per molte donne, trasformate a forza nelle uniche persone capaci di mantenere la famiglia;
  3. L’adozione e l’espansione da parte delle donne di nuovi ruoli e nuove responsabilità quali la ricerca di un impiego, il lavoro, la gestione del bilancio familiare;
  4. La ristrutturazione cognitiva positiva espressa in un empowerment che nasce con l’affrontare le sfide che emergono dal conflitto, dall’essere maggiormente focalizzate sul futuro e dallo sviluppo di forme differenti di agency[7] (politica, sociale, economica e culturale).

Il genere costituisce, in una varietà di modi, un indicatore per gli Stati in guerra e per i fragile state: l’uguaglianza di genere è riconosciuta a livello normativo sia come una condizione per il raggiungimento dei diritti umani, sia come strumentale alla prevenzione e la trasformazione dei conflitti, al peacebuilding e alle attività volte a sostenere lo sviluppo. Secondo la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, una prospettiva di genere richiede di affrontare i bisogni specifici delle donne, supportando le iniziative di pace delle donne locali e garantendo una protezione dei loro diritti, andando oltre la semplice garanzia della loro presenza nei negoziati di pace[8]. Tali framework non sono andati esenti da critiche, dato che l’emergenza di risoluzioni come la 1325, delle leggi e dei piani di azione che ne derivano sono stati criticati perché dipingevano le donne costantemente come vittime e gli uomini come carnefici, minando l’agency delle donne, fallendo nel riflettere sulla varietà delle loro esperienze e dei loro ruoli nei conflitti armati[9]. Questa schematizzazione delle donne come vittime ha portato a dedicare una enfasi eccessiva alla protezione, mettendo spesso in ombra aree come la partecipazione, la prevenzione e il peacebuilding[10].

Nella giustizia transizionale[11] sono arrivati diversi contributi, grazie all’attenzione dedicata alla relazione tra conflitto e genere: il riconoscimento di come le donne siano state escluse dal contribuire alle attività di ricostruzione sociale durante le attività post-belliche; il bisogno di discutere delle riparazioni attraverso l’analisi delle specifiche forme di vittimizzazione delle donne, per poterne capire il bisogno di rimedi; il riconoscimento della violenza come una pratica sociale radicata nella mascolinità; una costante attenzione al modo in cui le strutture di governance patriarcali e neoliberali possano perpetuare tensioni e conflitti[12].

Fischer[13] ha spiegato come il genere costituisca un punto di connessione tra la giustizia transizionale e il peacebuilding, attraverso il riconoscimento di crimini di guerra propriamente di genere e la promozione della necessità per i professionisti di capire meglio le strutture di genere, culturali e di potere che informano il proprio lavoro. Haider[14] invece ha presentato diversi temi legati al genere dal punto di vista di una pratica di giustizia transizionale in evoluzione: il riconoscimento della violenza sistematica contro le donne quale crimine contro l’umanità nei tribunali penali già a metà degli anni 90; l’estensione del dibattito interno alla creazione della Corte Penale Internazionale riguardo cosa considerare violenza sessuale e di genere (lo stupro, le gravidanze forzate, la sterilizzazione e i relativi effetti sulla salute mentale); il messaggio implicito, da parte dei professionisti che si occupano delle riparazioni, riguardo il bisogno di capire le diverse forme di danno esperito dalle donne, come modo per affrontare il patriarcato e le diseguaglianze di genere.


Genere, sviluppo e peacebuilding: prospettive da un punto di vista pratico

L’uso del genere come indicatore nell’analisi dei conflitti e come concetto capace di mettere assieme diverse discipline volte all’identificazione delle cause strutturali della violenza è anche presente nell’elaborazione delle pratiche di peacebuilding e sviluppo. Due pratiche chiave meritano di essere evidenziate, quando si parla di descrivere i framework dell’inclusione di genere: la prima è il gender mainstreaming, la valutazione delle implicazioni per donne e uomini in ogni azione pianificata nell’attività di sviluppo e peacebuilding. L’analisi si focalizza su come le loro preoccupazioni e le loro esperienze siano considerate nell’elaborazione, nell’implementazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle attività[15]. L’altro concetto è la sensibilità di genere[16], cioè il riconoscimento delle differenze di genere e di come esse producano rapporti di potere e norme sociali, come discussione iniziale prima di adottare un approccio al conflitto e allo sviluppo[17].

Tali iniziative hanno permesso di mettere assieme diverse pratiche che insistono sulla necessità di prendere il genere sul serio, quando si tratta di impegnarsi in attività legate a sviluppo, sicurezza e peacebuilding. Esse richiedono una gender analysis, consentendo di analizzare in maniera sistematica i dati riguardanti le differenze di genere utili a identificare le diseguaglianze. Contribuiscono inoltre a definire le attività di gender empowerment, cioè i processi dal basso mirati a trasformare le relazioni di potere basate sul genere e agire sulla consapevolezza riguardo la subordinazione delle donne e le loro capacità di cambiare tali strutture. Tutto ciò è complementare all’attivismo per i diritti delle donne, l’insieme dei movimenti sociali che riconoscono l’esistenza di prerogative legali per le donne e che denunciano le esperienze di ingiustizia derivate dal proprio genere.

In questo contesto, il ruolo dei policy framework internazionali è notevole, dato che sia la Risoluzione 1325 che la Risoluzione 1820 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno stabilito delle proposte per questo tipo di empowerment e di protezione delle donne nei contesti caratterizzati da violenza e insicurezza. Come proposta pratica, la Risoluzione 1325 muove oltre, sviluppando dei riconoscimenti complessi dei problemi alla base della costruzione sociale della femminilità e della mascolinità: tra gli altri, si parla di supporto alle comunità LGBTQ affette da violenza, attività incentrata sui bisogni delle donne con disabilità e rese vedove dal conflitto, dinamiche intersezionali di etnia, razza e genere nei confitti armati [18]. Tale agenda stabilisce un framework che operazionalizza diversi processi: le prospettive per una leadership femminile; un’analisi genderizzata del conflitto e un gender mainstreaming; idee su come le operazioni di pace possano incorporare il genere nelle diverse attività, mettendo assieme attività di prevenzione, partecipazione, protezione, supporto e cura[19]. È degno di nota come tali framework abbiano permesso l’inclusione del genere nell’agenda relativa allo sviluppo post 2015, aiutando nell’inclusione degli obiettivi cinque (raggiungimento l’uguaglianza di genere e empowerment di tutte le donne e di tutte le ragazze) e sedici (promozione di una società pacifica e inclusiva per uno sviluppo sostenibile) nei Sustainable Development Goals.

Il riconoscimento di questi variegati framework e delle loro applicazioni nell’attività nello sviluppo e nel peacebuilding porta con sé anche dei lati negativi e delle considerazioni critiche. Moran[20] ha riconosciuto come la leadership e l’empowerment delle donne non siano tratti naturali, ma piuttosto derivino da esperienze traumatiche; di conseguenza, essi richiedono il dislocamento e la mobilitazione di risorse materiali e simboliche, le quali a loro volta richiedono un supporto costante e multilivello da tutti gli attori esterni, nazionali e locali (ricordandoci come gli sforzi delle donne contro la guerra derivino dall’impatto devastante delle guerre sui civili). Moran ha evidenziato inoltre il dilemma paradossale cui sono sottoposte le donne nei contesti di guerra nei quali l’estrema violenza abbia aperto delle finestre di opportunità per rapporti di genere progressivi ed egualitari in luoghi prima noti per le proprie solide strutture patriarcali (il riferimento è soprattutto relativo alle esperienze in Ruanda e Uganda), portando al riconoscimento di come il periodo post-bellico sia un’opportunità per una ricostruzione radicale (e positiva) dei rapporti di genere. Tali possibilità sono accompagnate da una raccomandazione implicita di supportare gli sforzi di genere e delle donne in particolare, allo scopo di evitare manipolazioni e una ulteriore vittimizzazione delle loro esperienze, durante le fasi di peacebuilding e sviluppo.

Altri esempi di queste possibilità e di avvertimenti critici appaiono anche nella letteratura scientifica sulla giustizia transizionale. Buckley-Zistel e Zolkos[21] vedono un dualismo nell’inclusione del genere nei meccanismi transizionali: da una parte, lo stabilimento dell’analisi di genere nella creazione di meccanismi atti ad affrontare la violenza può aiutare nella creazione tanto di posizioni sociali nuove e migliori per le donne, quanto di identità differenti nella società post-bellica emergente; dall’altra, può ridurre le donne a meri obiettivi dei crimini di stampo sessuale, costruendole quali vittime perpetue. L’attività di giustizia transizionale di genere può aiutare anche a rompere il silenzio che circonda gli abusi perpetrati pubblicamente dai combattenti contro le donne, ma può nascondere le forme di violenza più private (domestiche) che avvengono prima e durante i conflitti violenti. Ciò è particolarmente problematico per le proposte che riguardino restituzioni e riparazioni, perché il ritorno ai ruoli antecedenti il conflitto potrebbe non essere un risultato desiderabile per molti, all’interno della società colpita dalla guerra.


Conclusioni: il genere come concetto interdisciplinare, critico e pratico

Attraverso queste differenti aree di analisi, è facile percepire il genere come una lente interdisciplinare che permette il riconoscimento di diverse complessità, possibilità e dilemmi critici. La teoria di genere discute i rapporti di potere e, concentrandosi sugli impatti differenziati tra uomini e donne, scopre gli ostacoli nell’accesso al potere, ai ruoli decisionali e alle risorse derivate dalla costruzione sociale delle mascolinità e delle femminilità. I contributi della psicologia aiutano nell’identificare i traumi e la relativa cura come temi che attraversano i dilemmi della povertà, della trasformazione forzata delle donne attraverso il conflitto e delle prospettive di empowerment e di spostamento dalla vittimizzazione alla sopravvivenza come esperiti dalle donne in molti contesti di conflitto. Si tratta di un tema che non è privo di sfide, quali le preoccupazioni circa l’eterna definizione delle donne come vittime del conflitto, le barriere al riconoscimento della loro agency come sopravvissute, come dimostrato dalle partecipanti alla politica postbellica e all’opera di peacebuilding.

Quale area pratica, il genere ha la capacità di connettere diversi framework che mettono assieme sviluppo, peacebuilding e difesa dei diritti umani. Pratiche quali il gender mainstreaming e la sensibilità di genere mostrano quanto i dibattiti sull’inclusione, sulla partecipazione, la prevenzione e il peacebuilding abbiano incorporato tanto i bisogni e le paure delle donne quanto l’evoluzione del genere come concetto distintivo. Lo stabilimento di framework internazionali come la Risoluzione 1325 ha permesso nuovi sforzi, nuove architetture e nuovi modi di comprendere come lavorare con il genere nelle attività di sicurezza, peacebuilding e sviluppo. Lo stesso può dirsi riguardo i dibattiti concernenti la giustizia transizionale, che muovono dal riconoscimento della violenza sessuale e di genere verso proposte più olistiche e trasformative che richiedono framework riparativi e di riconciliazione migliori. In tali proposte, il genere può contribuire a espandere i meccanismi e le iniziative atte ad affrontare le violazioni dei diritti umani in tempo di guerra.

Traduzione a cura di Francesco Finucci


 

Bibliografia

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Note

[1] “Practitioners” nel testo originale. In mancanza di un corrispettivo adeguato, nella traduzione si è sempre utilizzato il termine “professionisti”, caratterizzato però da sfumature di significato diverse (NdT).

[2] “Problem-solving” nel testo originale. Per ragioni stilistiche, nella traduzione si è scelto di utilizzare il termine “pratico”, ovunque fosse presente tale concetto. È però importante sottolineare la differente sfumatura di significato (NdT).

[3] UN Women, Gender mainstreaming in development programming – guidance note, 2014, p. 42, link: https://unsdg.un.org/sites/default/files/gender-mainstreaming-issuesbrief-en-pdf.pdf.

[4] J. Cóbar, E. Bjertén-Günter e Y. Jung, Assessing gender perspectives in peace processes with application to the cases of Colombia and Mindana, SIPRI, 2018, link: https://www.sipri.org/publications/2018/sipri-insights-peace-and-security/assessing-gender-perspectives-peace-processes-application-cases-colombia-and-mindanao.

[5] J. True, Women, peace and security in post-conflict and peacebuilding contexts (Policy Brief), NOREF, 2013, link: http://peacewomen.org/system/files/global_study_submissions/Jacqui%20True_NOREF%20policy%20brief.pdf.

[6] M. Seguin, Aspects of loss and coping among internally displaced populations: Towards a psychosocial approach, in E. Fiddian-Qasmiyeh (a cura di), Refuge in a Moving World: Tracing refugee and migrant journeys across disciplines, UCL Press, Londra 2020, pp. 289-305.

[7] Il termine inglese “agency”, in mancanza di corrispettivi soddisfacenti in italiano, è stato lasciato nell’originale inglese (NdT).

[8] A. L. Strachan e H. Haider, Gender and conflict: Topic guide, GSDRC, Birmingham 2015, link: https://gsdrc.org/wp-content/uploads/2015/07/gender_conflict.pdf.

[9] A. Barrow, UN Security Resolutions 1325 and 1820: Constructing gender in armed conflict and international humanitarian law, in “International Review of the Red Cross”, XCII, 877.

[10] J. Cóbar, E. Bjertén-Günter e Y. Jung, Assessing gender perspectives in peace processes with application to the cases of Colombia and Mindana, SIPRI, 2018, link: https://www.sipri.org/publications/2018/sipri-insights-peace-and-security/assessing-gender-perspectives-peace-processes-application-cases-colombia-and-mindanao.

[11] Lo studio di diversi meccanismi volti ad affrontare le atrocità violente dei conflitti armati.

[12] S. Buckley-Zistel e M. Zolkos, Introduction: Gender in Transitional Justice, in “Gender in Transitional Justice”, Palgrave, 2012, link: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2267777.

[13] M. Fischer, Transitional Justice and Reconciliation: Theory and Practice, in B. Austin e J. Giessmann (a cura di), Advancing Conflict Transformation: The Berghof Handbook II, Barbara Budrich Publishers, New York 2011, pp. 406-430.

[14] H. Heider, Transitional justice: Topic guide, GSDRC, Birmingham 2016, link: http://www.gsdrc.org/wp-content/uploads/2016/08/TransitionalJustice_GSDRC.pdf.

[15] UN Women, Gender mainstreaming in development programming – guidance note, 2014, p. 42, link: https://unsdg.un.org/sites/default/files/gender-mainstreaming-issuesbrief-en-pdf.pdf.

[16] “Gender sensitivity” nel testo originale (nota del traduttore).

[17] N. Johnston-Coeterier, A gender sensitivity resource pack, Institute of Human Rights Communication Nepal, 2014, p. 6.

[18] IPI, Incorporating Gender into UN Senior Leadership Training, New York 2019, link: https://www.ipinst.org/wp-content/uploads/2019/04/1903_Incorporating-Gender.pdf.

[19] W. Avis, Incorporating Gender Perspectives in Peace Operations since 2018, GSDRC, Birmingham 2021, link: https://gsdrc.org/wp-content/uploads/2022/01/1068_Gender_Perspectives_in_Peace_Operations.pdf.

[20] M. Moran, Gender, Militarism, and Peace-Building: Projects of the Postconflict Moment, in “Annual Review of Anthropology”, XXXIX, pp. 261-274.

[21] S. Buckley-Zistel e M. Zolkos, Introduction: Gender in Transitional Justice, in “Gender in Transitional Justice”, Palgrave, 2012, link: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2267777.

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