La nazionalizzazione dell’industria elettrica in Italia ha rappresentato un campo di battaglia ideale per due visioni politiche storiche dello Stato e dell’economia, quella riformista e quella liberista. Due modi di concepire il ruolo della politica e delle istituzioni: da un lato i favorevoli a un intervento massiccio dello Stato nell’economia, dall’altro chi riteneva e ritiene che la libera iniziativa dei privati non debba essere sottoposta a vincoli. Ma la nazionalizzazione è stata anche un luogo di discussione sul concetto di monopolio e su quello di sviluppo economico, legato a doppio filo alla produzione energetica.
Policlic ha dunque voluto proporre ai propri lettori questo approfondimento “a puntate”, incentrato su quella che è stata una riforma così importante e dirimente per lo scenario politico degli anni Sessanta e per tutta la successiva parabola della Prima Repubblica. In questi appuntamenti si cercherà di analizzare gli eventi storicamente più rilevanti che hanno portato all’approvazione della riforma nel 1962, attraverso le idee politiche tanto dei favorevoli quanto dei contrari alla nazionalizzazione.
La “guerriglia della sinistra liberale”[1]: gli “Amici del Mondo” scendono in campo per la nazionalizzazione
Nel dicembre 1955 venne fondato il Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici Italiani. A dare vita alla nuova formazione politica fu un gruppo di intellettuali legati alla rivista di Mario Pannunzio “Il Mondo”.
Tale gruppo uscì dal Partito Liberale per dare vita a una forza politica di opinione, la prima di questa tipologia a comparire nel sistema politico italiano: un partito senza radicamento subculturale, che guardava a un elettorato privo di un apparato valoriale ideologico o religioso, e che usciva quindi dalla dicotomia caratterizzante i primi anni della Repubblica italiana tra comunisti e cattolici.
Questi intellettuali liberali decisero di abbandonare il partito in quanto contrari alla prosecuzione dell’alleanza di governo con i democristiani, che contraddiceva l’ideale di Stato laico che li caratterizzava. Erano inoltre avversi al dirigismo economico di Fanfani, in quanto credevano che esso avrebbe potuto permettere alla DC di compiere un’occupazione dei vari livelli dell’amministrazione statale[2].
Eugenio Scalfari, uno dei protagonisti, racconta la vicenda nel suo libro autobiografico La sera andavamo in via Veneto:
Ho già detto che fu una decisione sofferta e contrastata. Fu presa definitivamente nel maggio del ’55, nella casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta, dove eravamo appositamente convenuti Pannunzio, Paggi, Libonati ed io. In questa stessa occasione si decise la fondazione del partito radicale, che avrebbe avuto per simbolo una testa di giovane con berretto frigio. E poiché si voleva che il nuovo partito si arricchisse con apporti di varia provenienza, l’invito a farne parte fin dall’inizio fu esteso, oltreché al vecchio gruppo della sinistra liberale, anche a Piccardi, a Valiani, a Parri e a quell’ala dell’ex partito d’azione che aveva ancora in “Maurizio” il suo punto di riferimento. Parri, dopo molti tentennamenti, non accettò, ma molti dei suoi amici si unirono a noi. In luglio Carandini ne dette il preannuncio con un articolo sul “Mondo”. Tra l’ottobre e il dicembre furono portati a termine gli adempimenti formali. Fu costituito un comitato promotore nazionale. Il 6 dicembre, sul “Taccuino”, Pannunzio, annunciando la nascita del partito radicale scrisse: “In questo campo, i padroni del vapore non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vender le idee per un assegno mensile. Dirà l’avvenire se i promotori del nuovo partito hanno avuto torto a non disperare[3].
Il riferimento ai “padroni del vapore” esprime in maniera netta quella che sarà la linea del nuovo partito. Con la nascita del Partito Radicale, di fatto, scende in campo una nuova forza politica in favore della nazionalizzazione dell’industria elettrica. Ed è uno schieramento laico, caratterizzato da posizioni politiche liberali ma sensibili alla necessità di lottare contro i monopoli elettrici. Caratteristiche uniche rispetto a quelle che avevano dominato nel dibattito per la nazionalizzazione fino a quel momento. Una discesa in campo che in seguito si rivelerà determinante, togliendo allo schieramento industriale lo spazio per una critica basata sulla paura della collettivizzazione economica. Perché ora non era più soltanto la sinistra dei socialisti o dei comunisti, che poteva essere etichettata come “marxista rivoluzionaria”, a schierarsi apertamente in favore dell’abolizione dei monopoli privati elettrici.
Negli anni successivi alla formazione del partito, i radicali organizzarono diversi convegni per esporre le proprie idee e la propria piattaforma programmatica. Uno di questi, tenutosi all’interno di Palazzo Barberini a Roma, ebbe come titolo emblematico quello de “La lotta contro i monopoli”.
Le relazioni del convegno sono state poi raccolte in un volume pubblicato da Laterza e una di esse (“Il mezzo estremo delle nazionalizzazioni”) venne pronunciata da Ernesto Rossi, che si espresse chiaramente in merito all’industria elettrica:
La nazionalizzazione dell’industria elettrica è oggi imposta da motivi di interesse pubblico ancor più evidenti di quelli che convinsero, nel 1906, il governo del giolittiano Fortis a nazionalizzare le ferrovie. Infatti, oltre al suo carattere evidentemente monopolistico, esistono almeno cinque buone ragioni che consigliano tale misura radicale[4].
La prima di tali ragioni era che l’industria elettrica sfruttava un bene pubblico. Secondo Rossi, infatti, grazie all’ordinamento vigente in quegli anni le acque, che avrebbero dovuto considerarsi patrimonio della collettività nazionale, venivano gestite con criteri legati alla necessità di realizzare un profitto. Così venivano costruiti soltanto gli impianti che potevano garantire la massimizzazione del profitto delle società concessionarie, anche quando la ricerca di tale massimizzazione fosse in contraddizione con la pubblica utilità.
Inoltre, Rossi osservava come avesse luogo una sorta di commercio delle concessioni di acque pubbliche, il quale permetteva agli speculatori di avere accesso a rilevanti somme di denaro, senza fornire alcun servizio utile alla società. Per non parlare dei ritardi nella costruzione di impianti. Da questo punto di vista, infatti, il sistema amministrativo non portava a risultati virtuosi:
In pratica accade, invece, che le domande – le quali, scaduti i trenta giorni dalla pubblicazione, diventano un vero e proprio diritto di esclusiva alla concessione – giacciono per anni presso il Genio Civile o presso gli uffici ministeriali. Se il richiedente ha interesse alla esecuzione immediata dell’impianto può ottenere una autorizzazione provvisoria ad iniziare i lavori. Altrimenti lascia che l’inerzia burocratica gli conservi a tempo indeterminato il diritto, senza in alcun modo preoccuparsi della scadenza dei termini. L’inerzia della burocrazia arriva al punto che non è raro il caso d’impianti, costruiti con semplici autorizzazioni provvisorie, regolarmente entrati in esercizio – dopo solenne inaugurazione alla presenza del ministro dei Lavori Pubblici – per i quali il decreto e il disciplinare di concessione sono ancora di là da venire…[5].
Risultano di particolare interesse le parole di Rossi, soprattutto quelle relative al concetto di nazionalizzazione in generale, nelle quali emergono elementi di polemica che caratterizzeranno fino ai giorni nostri il dibattito tra chi sostiene l’opportunità di un maggior intervento dello Stato nell’economia e chi invece ne è contrario.
Da questo punto di vista Rossi ammetteva come il “partito” contrario alla nazionalizzazione potesse contare su un argomento polemico efficace, sottolineando quelle che erano le inefficienze degli interventi dello Stato nella vita economica italiana:
Come si può affidare allo Stato il controllo sulle attività industriali, per impedire gli sfruttamenti monopolistici ed i concentramenti del potere economico, contrari al benessere della popolazione e pericolosi per la vita delle istituzioni democratiche, se lo Stato non riesce più neppure a fare il suo mestiere nei campi che tutti riconoscono suoi propri: amministrazione della giustizia, istruzione dei giovani, tutela della vita e della libertà dei cittadini? È vero: con la burocrazia e con le leggi ed i regolamenti che abbiamo, ogni politica che voglia realizzare l’indirizzo indicato nella mia relazione molto facilmente si risolverebbe in un aumento delle pratiche camorristiche, ed in uno spostamento di privilegi da certi gruppi privati a certi gruppi di pubblici funzionari[6].
Riconoscere le criticità dell’amministrazione statale non significava per Rossi tornare a soluzioni vecchie ed evidentemente altrettanto inidonee, ma bensì dare applicazione a una visione riformista dell’amministrazione e dello Stato:
[…] non possiamo rinunciare ad affidare allo Stato quei compiti che lo Stato deve oggi necessariamente assumere, per la difesa del benessere e della libertà dei cittadini, solo perché non disponiamo di strumenti burocratici idonei. Se non li abbiamo, dobbiamo fabbricarceli. Questo è il problema numero uno per tutti coloro che veramente vogliono ricostruire (meglio forse si dovrebbe dire costruire) lo Stato democratico in Italia[7].
Nella fase decisiva del dibattito sull’industria elettrica, tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il Partito Radicale diede un contributo fondamentale alla causa della nazionalizzazione. Una visione, quella dei vari Rossi, Scalfari e altri, tutt’affatto originale, che avrà il ruolo determinante di far comprendere all’opinione pubblica che la nazionalizzazione non era soltanto “farina del sacco” degli ambienti marxisti.
Federico Paolini per Policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Così Eugenio Scalfari titola il terzo capitolo della seconda parte del suo libro La sera andavamo in via Veneto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, p. 93.
[2] S. Colarizi, Storia politica della Repubblica: Partiti, movimenti e istituzioni. 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 67.
[3] E. Scalfari, La sera andavamo in via Veneto, cit., p. 95.
[4] L. Piccardi, G. Ascarelli, U. La Malfa et al., La lotta contro i monopoli, Bari, Laterza, 1955, p. 245.
[5] Ivi, p. 246.
[6] Ivi, p. 265.
[7] Ivi, p. 266.