Policlic n.16
Il 17 marzo 1861 veniva proclamato il Regno d’Italia ma, per completare l’unità nazionale, mancavano ancora all’appello il Veneto, Roma e tutto il Lazio[1].
Per quanto concerne il Veneto, allora in mano all’Impero austriaco degli Asburgo, l’occasione per l’annessione si presentò nel 1865, quando la Prussia di Otto von Bismarck scese in guerra contro l’Austria. Il neonato Regno d’Italia strinse quindi un’alleanza con la Prussia, dando il via a quella che in Italia è nota come Terza guerra di indipendenza, mentre a livello europeo è conosciuta come guerra austro-prussiana. L’Italia non registrò successi sul campo di battaglia e fu sconfitta nelle battaglie di Custoza e di Lissa ma, grazie alle vittorie prussiane, riuscì lo stesso a ottenere il Veneto, sebbene in un modo abbastanza umiliante: l’Austria lo cedette alla Francia, la quale lo girò poi all’Italia[2].
Ad ogni modo, era stato fatto un passo in avanti verso il completamento dell’unità nazionale. All’appello mancava Roma, ma in questo caso le cose furono molto più complicate.
L’incontro di Teano
Per comprendere bene la questione romana è utile partire dagli avvenimenti finali della spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi, dopo essere sbarcato in Sicilia, risalì la penisola entrando a Napoli il 7 settembre 1860 e costringendo Francesco II di Borbone a scappare a Gaeta[3].
La rapida avanzata di Garibaldi allarmò, a Torino, il re Vittorio Emanuele II e l’allora Presidente del Consiglio, Camillo Benso conte di Cavour. La preoccupazione della corona e del governo era dovuta, oltre al timore che Garibaldi istaurasse una repubblica nel Sud Italia, all’eventualità che il generale invadesse lo Stato pontificio, causando di conseguenza la pronta reazione della Francia di Napoleone III[4].
Per impedire a Garibaldi di sconfinare, Vittorio Emanuele II partì da Torino e percorse l’Italia. Le truppe piemontesi invasero – previo un accordo tra Cavour e Napoleone III – lo Stato della Chiesa entrando in Umbria e nelle Marche, e sconfissero l’esercito papalino a Castelfidardo. Poco dopo, in entrambe le regioni citate si tennero dei plebisciti che sancirono l’annessione allo Stato sabaudo[5].
Il 25 ottobre 1860 Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi si incontrarono a Teano (presso Caserta). Il generale consegnò le regioni del Sud Italia al re di Sardegna, interrompendo la sua avanzata verso Roma[6].
In questo rapido resoconto degli eventi, ci si deve concentrare sull’atteggiamento della Francia imperiale di Napoleone III. Il sovrano francese, difatti, era stato sin dagli anni Cinquanta dell’Ottocento il protettore dello Stato della Chiesa per due motivi: il primo, nell’ambito della politica interna, consisteva nel non voler scontentare i cattolici francesi poiché costituivano un importante gruppo su cui si poggiava il potere imperiale[7]; il secondo motivo, nell’ambito della politica estera, era quello di impedire che si creasse un forte Stato nazionale – cioè l’Italia unita[8] – ai confini con la Francia. Dal momento che l’Unità d’Italia non era più aggirabile e dietro insistenza di Cavour, il quale voleva evitare un’Italia tagliata in due dallo Stato della Chiesa[9], Napoleone III consentì al Piemonte di annettere le Marche e l’Umbria, ma impose che il Lazio e Roma rimanessero al papa. A garanzia di ciò, erano presenti anche truppe francesi a protezione di Roma. D’altra parte, era necessario per la neonata nazione italiana mantenere buoni rapporti con la Francia, non solo per evitare la guerra, ma anche perché essa rimaneva l’alleato più sicuro e il principale partner economico dell’Italia[10].
Stando ai motivi di cui sopra, Vittorio Emanuele II e Cavour non permisero a Garibaldi di invadere lo Stato della Chiesa nel 1860 e, sempre a causa di tali motivazioni, Roma poté essere annessa solo nel decennio successivo.
“Garibaldi fu ferito”[11]
Affinché la questione romana esplodesse in tutta la sua drammaticità, si dovette aspettare soltanto un anno dopo l’Unità.
Nel giugno del 1862, infatti, Giuseppe Garibaldi tornò in Sicilia: erano trascorsi due anni dal celebre sbarco e dall’avvio dell’impresa dei Mille[12]. In realtà, non sono chiari i motivi del ritorno di Garibaldi in Sicilia, e pare che non li avesse chiari nemmeno il generale stesso, che avrebbe infatti detto ai suoi compagni – durante la traversata da Caprera a Palermo – “andiamo verso l’ignoto, sarà quel che sarà”[13].
Arrivato a Palermo, cominciò a tenere comizi davanti a folle entusiastiche e, durante uno dei bagni di folla a Marsala, si levò il grido “O Roma o morte”. A Garibaldi lo slogan piacque e decise di farlo suo[14], trovando così, di fatto, il nuovo obiettivo della propria impresa.
Garibaldi iniziò così a reclutare volontari per risalire a Roma e le autorità italiane lo lasciarono fare. Persino Vittorio Emanuele II e l’allora Presidente del Consiglio Urbano Rattazzi non si mossero per fermare Garibaldi[15]. Si inserisce qui il secondo mistero della vicenda: qual era il disegno del re e del Governo? Erano stati presi accordi anche con Garibaldi? L’atteggiamento ambiguo di Torino contribuì ad alimentare i dubbi e, soprattutto, convinse il generale ad agire. Probabilmente, il re e Urbano Rattazzi volevano replicare ciò che era successo in occasione della spedizione dei Mille, ovvero mettere l’Europa di fronte al fatto compiuto[16] e, allo stesso tempo, ribadire che, se l’Italia non si fosse unita sotto i Savoia, ci sarebbe stata una rivoluzione repubblicana, rivoluzione che era stata paventata dai sovrani europei[17]. Però Rattazzi non era Cavour e Roma non era il Regno delle Due Sicilie.
Ad ogni modo, Garibaldi, incoraggiato dall’atteggiamento torinese, si impadronì con i suoi volontari di due piroscafi, e tutti assieme sbarcarono in Calabria[18]. A fronte di ciò, Napoleone III fece intendere di non essere disposto a tollerare un attacco contro Roma senza reagire[19]. A questo punto, Vittorio Emanuele II e Rattazzi dovettero sconfessare l’azione di Garibaldi: il 3 agosto 1862 il re, a mezzo di proclama, attaccò l’iniziativa dell’eroe dei due mondi, e il governo decretò lo stato d’assedio per tutte le provincie meridionali[20].
Il 25 agosto i volontari di Garibaldi incrociarono, in Calabria, un reparto dell’esercito regolare, il quale sparò loro. Il generale, per evitare uno scontro tra italiani, dirottò i suoi uomini sull’Aspromonte[21]. Dopo quattro giorni di vagabondaggio tra le montagne calabresi, il 29 agosto i volontari si imbatterono in un corpo di bersaglieri che aprì il fuoco. Questo scontro costò dodici vite umane, e lo stesso Garibaldi venne ferito leggermente e poi arrestato dal colonnello Emilio Pallavicini[22].
L’eco di un tale episodio fu enorme. Manifestazioni di protesta si verificarono in Italia e in Europa – una, particolarmente grande, si tenne a Londra[23].
Rattazzi, a Torino, tentò di salvare il governo prendendo tempo, ma la pressione era troppo forte. Mentre proseguivano le manifestazioni per i fatti dell’Aspromonte, difatti, anche all’interno della Camera l’esecutivo era attaccato sia da Destra che da Sinistra[24]. Lo sfaldamento della maggioranza fu evidente nella discussione della interpellanza Bon Compagni sulle condizioni economiche del Regno e sulla posizione del governo nei confronti del tentativo garibaldino. Il 29 novembre 1862 Rattazzi rassegnò le dimissioni a Vittorio Emanuele II[25].
La Convenzione di settembre
Dopo un breve ed effimero governo presieduto da Luigi Carlo Farini, il 22 marzo 1863 Vittorio Emanuele II conferì l’incarico di formare un esecutivo a Marco Minghetti[26], bolognese, già ministro dell’Interno nei governi Cavour e Ricasoli, poi ministro delle Finanze nel governo Farini[27].
Tra i problemi che il nuovo governo si trovò ad affrontare, vi era la questione romana, la cui risoluzione doveva passare anche per una normalizzazione dei rapporti con la Francia di Napoleone III. L’idea di raggiungere un accordo per evitare la presenza di truppe francesi a Roma era già stata di Cavour, ma la morte dello statista piemontese aveva fatto arenare le trattative[28].
Nel 1863, però, i tempi sembrarono nuovamente maturi, a causa di una convergenza di vari interessi: da una parte l’Italia necessitava di ottenere un qualche successo nell’ambito della questione romana per calmare i sentimenti rivoluzionari che si agitavano al suo interno, dall’altro Napoleone III faceva maggiore fatica a spiegare la presenza di truppe francesi a Roma, senza che papa Pio IX attuasse quelle riforme che il governo francese chiedeva[29]. Inoltre, un peggioramento delle condizioni di salute del pontefice spinse l’Italia a cercare una soluzione per evitare un conclave alla presenza di soldati transalpini[30].
In realtà, per tutto il 1863 i tentativi di intavolare trattative con Napoleone III, tramite l’ambasciatore italiano a Parigi Costantino Nigra, furono infruttuosi[31]. La situazione cambiò nel 1864 e, in particolare, mutò la predisposizione dell’imperatore francese, secondo Montanelli per un isolamento internazionale della Francia che rendeva necessaria la normalizzazione dei rapporti con l’Italia[32].
Di fatto, le trattative, per lo più segrete, ripresero nel giugno del 1864, animate in particolar modo da Nigra e Gioacchino Pepoli da una parte, e dal ministro degli Esteri di Napoleone III Édouard Drouyn de Lhuys[33], e proseguirono spedite fino al raggiungimento dell’accordo.
La Convenzione fu firmata il 15 settembre 1864 a Parigi. La Convenzione[34] era composta da cinque articoli e comportava rilevanti novità sulla questione romana. In particolare, l’Italia “s’impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al papa e a impedire anche con la forza ogni attacco esteriore contro tale territorio”[35], dava il suo consenso all’organizzazione di un esercito dello Stato della Chiesa e si faceva carico di una parte proporzionale del debito del vecchio Stato pontificio (prima delle annessioni del 1860); in cambio, la Francia avrebbe ritirato le sue truppe da Roma via via che si organizzava l’esercito papalino, e comunque entro due anni[36]. Affiancato alla Convenzione, lo stesso giorno fu firmato un Protocollo, segreto anch’esso, con il quale l’Italia si impegnava a spostare la capitale da Torino in un’altra città[37]. Vittorio Emanuele II, tenuto all’oscuro, fu messo di fronte al fatto compiuto, e nominò poi una commissione militare che scelse Firenze come nuova capitale del Regno[38].
Con la Convenzione di settembre, dunque, si pose momentaneamente fine alla presenza delle truppe francesi a Roma, e si credette di aver dato una risoluzione alla questione romana. I contenuti della Convenzione e del Protocollo, che sarebbero dovuti restare segreti, non lo rimasero a lungo. Una fuga di notizie provocò una serie di manifestazioni e tumulti per due ordini di motivi: da un lato sembrò che l’Italia avesse definitivamente rinunciato a Roma; dall’altro i torinesi protestarono con veemenza per la perdita dello status di capitale della loro città[39]. In particolare, i disordini torinesi del 21 e del 22 settembre segnarono la fine del governo Minghetti, che fu costretto a dimettersi il 23 settembre, appena otto giorni dopo la firma della Convenzione.
La sconfitta di Mentana
Come le proteste avevano dimostrato, la Convenzione di settembre non era stata ritenuta la soluzione adeguata alla questione romana, ma diede anzi nuova linfa al movimento democratico, il quale riprese a sostenere che l’unico modo per annettere Roma all’Italia fosse quello di un colpo di mano insurrezionale. Peraltro, tale idea fu rafforzata dal fatto che la Terza guerra di indipendenza aveva avuto un umiliante epilogo (già citato nell’introduzione) e poiché le esigue vittorie ottenute erano state opera dei Cacciatori delle Alpi di Giuseppe Garibaldi[40].
Il generale non poteva non essere il protagonista di un nuovo tentativo di annessione dello Stato della Chiesa e di Roma, tentativo che avvenne nel 1867. Curiosamente, anche i coprotagonisti furono gli stessi del 1862: Vittorio Emanuele II e Napoleone III sedevano ancora sui rispettivi troni, e il Presidente del Consiglio italiano era Urbano Rattazzi.
Il disegno del Presidente italiano, tra l’altro, non differiva da quello di cinque anni prima: mentre da un lato ribadiva a Napoleone III che i comizi anticlericali di Garibaldi fossero soltanto “parole” e non recassero progetto alcuno per la conquista di Roma, dall’altro il suo governo non operò per fermare l’azione garibaldina; nel frattempo, l’eroe dei due mondi aveva iniziato la consueta raccolta di volontari[41].
Vi era però una novità rispetto al 1862: l’azione dei volontari, difatti, “avrebbe dovuto appoggiarsi su un’insurrezione preparata dagli stessi patrioti romani”[42]. Insomma, l’idea era quella di presentare l’invasione, davanti all’opinione pubblica italiana e internazionale (soprattutto francese), come risposta alla volontà del popolo di Roma e dello Stato della Chiesa[43].
In questo caso il comportamento del governo fu meno ambiguo, tant’è che, mentre l’azione era quasi pronta per scattare, fu dato ordine di arrestare Garibaldi, arresto che avvenne il 24 settembre 1867. Nonostante ciò, però, il progetto andò avanti. A metà ottobre le prime colonne dei volontari garibaldini, con a capo Menotti Garibaldi, Acerbi e Nicotera[44], penetravano nello Stato pontificio, convinti che, una volta arrivati a Roma, i romani sarebbero insorti contro il papa per mettersi al loro fianco. Il 20 ottobre Garibaldi veniva liberato grazie alle forti pressioni popolari, e subito partì alla volta di Livorno per partecipare alla spedizione.
Il 22 ottobre i garibaldini coadiuvati da un pugno di insorti romani tentarono il colpo di mano, occupando il Campidoglio e la caserma Serristori, ma furono pesantemente sconfitti dall’esercito pontificio, mentre dell’insurrezione che avrebbe dovuto accendere Roma non c’era traccia[45]. Che l’impresa fosse destinata a fallire era oramai chiaro a molti, e lo divenne ancor di più quando giunse la notizia che Napoleone III aveva inviato alcune truppe a difesa del papa[46]. Il re chiese le dimissioni di Rattazzi e conferì l’incarico di formare un nuovo governo a Luigi Federico Manbrea, sconfessando allo stesso tempo con un proclama il tentativo di Garibaldi.
Questi, nel frattempo, si era impadronito di Monterotondo, e da lì decise di raggiungere Tivoli per tentare di ritirarsi sull’Appennino. Lungo il tragitto, il 3 novembre, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia intercettarono Garibaldi e i suoi volontari a Mentana. Dopo un duro combattimento, i francesi ne uscirono vincitori, e il tentativo di colpo di mano poté dirsi concluso[47].
Alla fine del 1867, dunque, non solo Roma era ancora in mano a Pio IX, ma erano anche tornati i soldati francesi a protezione dello Stato della Chiesa. Di fatto, appariva evidente che la risoluzione della questione romana non potesse oramai passare né per la via diplomatica né per quella insurrezionale. Doveva accadere qualcosa che mischiasse le carte in tavola, e l’attesa non si rivelò particolarmente lunga.
La breccia di Porta Pia
La questione romana che tanto aveva impegnato l’Italia unita si risolse, difatti, nel 1870, nel giro di un mese. Come si era verificato per il Veneto e per la Terza guerra di indipendenza, anche in questo caso a favorire l’annessione di Roma e del Lazio furono gli eventi internazionali, i quali videro nuovamente protagonista la Prussia di Otto von Bismarck.
Nel 1870, infatti, il trono di Spagna era stato offerto a Leopoldo di Hohenzollern, cugino del re di Prussia Guglielmo I. Ciò preoccupò molto Napoleone III, che non voleva rischiare di ritrovarsi accerchiato da due Stati con a capo un sovrano tedesco. L’opposizione francese (e di altri sovrani) convinse Leopoldo a rinunciare all’offerta, ma Napoleone III inviò anche un telegramma a Guglielmo I – che allora si trovava a Ems – con cui chiedeva al re di Prussia di rinunciare a qualsiasi candidatura di un Hohenzollern al trono spagnolo. Il telegramma, finito nelle mani di Bismarck, fu manipolato dal cancelliere e fatto pubblicare dai giornali, facendo apparire esorbitanti le pretese di Napoleone III ai tedeschi e offensivo l’atteggiamento di Guglielmo I ai francesi. Scoppiò così il conflitto franco-prussiano. La guerra fu dichiarata dalla Francia il 19 luglio, ma si concluse già il 2 settembre: a Sedan i prussiani sbaragliarono i francesi e presero anche Napoleone III come prigioniero. In Francia, in seguito alla sconfitta, venne proclamata la repubblica[48].
Durante l’estate del 1870, Napoleone III aveva già ritirato il contingente francese a protezione di Roma, cercando di ingraziarsi l’Italia in vista della guerra contro la Prussia[49], ma la caduta dell’imperatore aveva fatto venire meno la protezione francese sul papa e sullo Stato della Chiesa[50].
A Firenze – allora capitale d’Italia – ci si rese subito conto che l’occasione per risolvere definitivamente la questione romana era grande. Mentre veniva allestito un corpo di spedizione importante comandato del generale Raffaele Cadorna[51], si aprirono anche delle trattative con papa Pio IX, nel tentativo di evitare un atto di forza contro la Santa Sede[52]. Pio IX, però, non ne volle sapere di cedere volontariamente la sua sovranità su Roma e sul Lazio, e non cedette nemmeno il 17 settembre, quando le truppe di Cadorna arrivarono alle porte di Roma dopo un’avanzata priva di difficoltà[53].
Il 20 settembre, dopo tre giorni di attesa nella speranza che Pio IX si arrendesse volontariamente, il contingente italiano aprì il fuoco dei cannoni contro Porta Pia, dischiudendo una breccia attraverso la quale i soldati italiani, con i bersaglieri in testa, poterono entrare a Roma, accolti festosamente dalla popolazione[54]. L’esercito pontificio, dopo una breve resistenza di facciata, evitò di combattere e, alla fine della giornata, si contarono appena sessantotto caduti, di cui quarantanove italiani e diciannove papalini[55].
Pio IX non aveva ordinato una resistenza strenua. Al generale Kanzler, infatti, il papa chiese di “limitare la difesa al tempo necessario per affermare la protesta della Santa Sede e di aprire le trattative di resa ai primi colpi di cannone”[56]. Insomma, Pio IX voleva una resistenza simbolica per poter affermare che Roma era stata presa con la forza, contro la sua volontà.
Pochi giorni dopo il 20 settembre e la breccia di Porta Pia, un plebiscito sanciva a schiacciante maggioranza l’annessione di Roma e del Lazio all’Italia[57]. Il 1° febbraio 1871 venne definitivamente approvata dalla Camera la legge 3 febbraio 1871, n. 33, Disposizioni per la traslocazione della capitale del Regno a Roma, con la quale Roma veniva proclamata capitale del Regno d’Italia[58].
Epilogo: una nuova questione romana
Con la presa di Roma del 20 settembre 1870 veniva finalmente risolta la questione romana che aveva animato i primi nove anni di vita dello Stato unitario. In realtà, però, l’annessione di Roma e la fine dello Stato della Chiesa avevano aperto il nuovo problema dei rapporti tra l’Italia e la Santa Sede.
Il Governo italiano tentò di regolare i rapporti con la Chiesa attraverso la Legge delle guarentigie. La legge, che fu approvata unilateralmente dall’Italia[59], tra le altre cose prevedeva che il Regno d’Italia garantisse al papa le condizioni per un pieno e libero svolgimento del suo magistero spirituale, e anche a questo fine gli venivano riconosciuti gli onori sovrani, la facoltà di tenere un corpo di guardie armate e il diritto a una rappresentanza diplomatica; veniva inoltre riconosciuta l’extraterritorialità ai palazzi del Vaticano e del Laterano, si garantiva al papa la libertà di comunicazioni postali e telegrafiche e, infine, l’Italia offriva al pontefice una dotazione annua pari a quella che il bilancio dello Stato della Chiesa impiegava per il mantenimento della corte papale[60].
Pio IX, però, non ne volle sapere: rifiutò tale legge – che l’Italia invece onorò – e si dichiarò prigioniero politico dello Stato italiano[61]. Nel 1874, poi, Pio IX vietò ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica attiva e passiva del Regno – una disposizione conosciuta come non expedit, “non è opportuno” – scomunicando anche il sovrano Vittorio Emanuele II[62].
Nasceva così una nuova questione romana. Se è vero che dopo il 1878 – anno in cui morirono sia Vittorio Emanuele II che Pio IX – i toni dei rapporti tra Italia e Chiesa si pianificarono, una conclusione definitiva della questione romana arrivò però solo nel 1929, quando l’allora capo del Governo italiano Benito Mussolini firmò con il cardinal Gasparri (segretario di Stato di papa Pio XI) i Patti lateranensi.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Per approfondire il processo che portò all’Unità d’Italia, si veda E. Del Ferraro, Come si è arrivati all’Unità d’Italia, in “Policlic”, 2021, e L. Battaglia, L’Italia dall’unificazione alla questione meridionale, in “Policlic”, n. 5, 2020 (ultima consultazione: 30/10/2021).
[2] Sulla Terza guerra di indipendenza si veda A. Brancati e T. Pagliarani, Il nuovo dialogo con la storia: Dalla metà del Seicento alla fine dell’Ottocento, La Nuova Italia, Milano 2007, pp. 519-521.
[3] G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea: l’Ottocento, Laterza, Bari 2012, p. 211.
[4] E. Del Ferraro, op. cit.
[5] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 212.
[6] Ibidem.
[7] A. Panella, L’Italia e la questione romana: Dal convegno di Plombières alla guerra contro l’Austria, in “Archivio Storico Italiano”, CXXX (1922), p. 217 (ultima consultazione: 4/11/2021).
[8] A. De Paulis, Il xx settembre e la questione romana, in “Bollettino dell’AFSU”, I (2018), p. 241 (ultima consultazione: 4/11/2021).
[9] A. Panella, op. cit., p. 217.
[10] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 298.
[11] Il verso riportato è quello di una popolare filastrocca basata sui fatti avvenuti nel 1862 sull’Aspromonte.
[12] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 299.
[13] C. Fruttero e M. Gramellini, La Patria, bene o male: Almanacco essenziale dell’Italia unita (in 150 date), Mondadori, Milano 2010, p. 11.
[14] I. Montanelli, L’Italia dei notabili: 1861-1900, RCS, Milano 2011, p. 51.
[15] C. Fruttero e M. Gramellini, op. cit., p. 11.
[16] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 299.
[17] I. Montanelli, op. cit., pp. 51-52.
[18] C. Fruttero e M. Gramellini, op. cit., p. 11.
[19] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 299.
[20] Ibidem.
[21] I. Montanelli, op. cit., p. 52.
[22] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 299.
[23] C. Fruttero e M. Gramellini, op. cit., p. 12.
[24] I. Montanelli, op. cit., p. 55.
[25] Ibidem.
[26] N. Raponi, voce Farini, Luigi Carlo, in Dizionario biografico degli italiani, XCV (1995), (ultima consultazione: 1/11/2021).
[27] R. Gherardi, voce Minghetti, Marco, in Dizionario biografico degli italiani, CXXIV (2010), (ultima consultazione: 1/11/2021).
[28] P. Silva, voce Settembre, convenzione di, in Enciclopedia Italiana, 1936, (ultima consultazione: 1/11/2021).
[29] Ibidem.
[30] E. Lantero, La Convenzione di settembre nelle carte del Senato del Regno, in “MemoriaWeb”, VII (2014), p. 1, (ultima consultazione: 1/11/2021).
[31] I. Montanelli, op. cit., p. 58.
[32] Ivi, p. 59.
[33] E. Lantero, op. cit., p. 1.
[34] Per il testo: http://www.terzaclasse.it/documenti/convenzione.htm (ultima consultazione: 1/11/2021).
[35] P Silva, op. cit.
[36] Ibidem.
[37] E. Lantero, op. cit., p. 1.
[38] I. Montanelli, op. cit., p. 60.
[39] P. Silva, op. cit.
[40] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 300.
[41] I. Montanelli, op. cit., p. 92.
[42] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 300.
[43] Ibidem.
[44] I. Montanelli, op. cit., p. 94.
[45] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 300.
[46] Ibidem.
[47] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 301.
[48] Per approfondire la guerra franco-prussiana e le sue conseguenze: A. Brancati e T. Pagliarani, op. cit., pp. 472-475.
[49] I. Montanelli, op. cit., p. 106.
[50] Ivi, p. 107.
[51] Ivi, p. 111.
[52] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 301.
[53] I. Montanelli, op. cit., p. 112.
[54] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 112.
[55] C. Fruttero e M. Gramellini, op. cit., p. 30.
[56] Voce Porta Pia, breccia di, in Dizionario di storia, 2011 (ultima consultazione: 5/11/2021).
[57] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 301.
[58] Per il testo della legge: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1871;33 (ultima consultazione: 5/11/2021).
[59] A. De Paulis, op. cit., p. 243.
[60] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 301.
[61] A. De Paulis, op. cit., p. 243.
[62] G. Sabbatucci e V. Vidotto, op. cit., p. 301.