Il caos provocato dalla COVID-19 ha fatto riemergere la preoccupazione per un famelico male, forse più perverso ma sicuramente più resistente del coronavirus: la mafia. Le organizzazioni criminali sono pronte a dare il loro “sostegno” alle imprese in difficoltà e alle persone indigenti. Così, gli episodi di usura e riciclaggio rischiano di moltiplicarsi.
Policlic vi offre in esclusiva l’intervista realizzata da Gianpaolo Plini all’ex boss della ‘Ndrangheta Luigi Bonaventura. L’attuale collaboratore di giustizia ci racconta nel dettaglio i mezzi, le armi e le innovazioni che distinguono la prima organizzazione criminale al mondo.
Luigi Bonaventura è stato l’effigie vivente della figura mafiosa: appartenente alla storica famiglia dei Bonaventura-Vrenna-Corigliano di Crotone si è ritrovato ad indossare i panni del bambino soldato. La violenza percorre tutta la sua dolorosa infanzia: da giovane è già reggente dell’omonima cosca. Dall’apice della piramide mafiosa, Bonaventura comanda una falange della più potente organizzazione criminale operante nel mondo. Si interessa di Bitcoin e di informatica.
Le sue parole definiscono la ‘Ndrangheta come
un’organizzazione pensante che si muove insieme ai corruttibili, in una rete di potere che ormai ha pervaso tutta l’Italia. Quando parliamo di ‘Ndrangheta ci riferiamo a un’organizzazione non solo europea ma mondiale.
Il 26 febbraio 2007 Luigi Bonaventura inizia a collaborare con la giustizia italiana, in particolare con la DDA di Catanzaro. Questa sua scelta causa l’immediata reazione della famiglia, che si mobilita per lavare via la macchia dell’infamia. Si registrano diversi attentati diretti alla sua persona e alla moglie. Proprio nell’amore per la consorte trova la forza per rompere il muro dell’occulto, aprendo così un altro importante squarcio nel pesante velo di omertà sotto cui la mafia vive.
Bonaventura ha collaborato con 14 procure e contribuito all’arresto e alla condanna di circa 500 appartenenti alla ‘Ndrangheta. Oggi, l’ex boss continua questa battaglia tramite il Comitato dei Collaboratori e dei Testimoni di Giustizia. Lo fa per i suoi figli e per tutti quei bambini ancora costretti nelle grinfie delle organizzazioni criminali. È per questo che la denuncia di Bonaventura riguardo al farraginoso funzionamento del programma di protezione deve essere ascoltata. In Italia si contano 6.246 persone protette: di queste, 1.319 sono collaboratori e testimoni di giustizia; circa 5.000 è invece il numero dei loro familiari.
Il problema principale è di nuovo quello culturale. Secondo Bonaventura “essere un denunciante è peggio che essere un mafioso”. Perché le persone non riconoscono ancora il ruolo di coloro che, avendo deciso di passare dalla parte dello Stato, raccontano nel dettaglio i movimenti, i progetti e le infiltrazioni delle mafie, mentre sulle loro teste pende inesorabile una condanna a morte. Per questo, è indispensabile cercare di affermare con forza l’esergo: “Chi abbraccia un pentito schiaffeggia la ‘Ndrangheta”.
Gianpaolo Plini per Policlic.it