L’arte del distacco in un’epoca di crisi
Il silenzio della solitudine rivela ai loro occhi
Il vuoto del loro essere, ed essi vorrebbero fuggirlo
(K. Gibran)
Premessa
La crisi economica che ha investito l’Europa e il mondo intero è divenuta occasione provvidenziale per interrogarsi sul malessere della mentalità contemporanea: smarrito l’orizzonte lavorativo, perduta una collocazione sociale stabile, erosa una quotidianità fatta di piccoli e grandi obiettivi, si sono moltiplicati tra i nostri connazionali i casi di disturbi psicologici imputabili a depressione, stati d’ansia o panico, sintomatologie psicosomatiche. La denuncia arriva direttamente da Anna Ancona, Presidente dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna: «una condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di ‘adolescenza sospesa’. I giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con conseguente frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando hanno un lavoro, sono comunque sottopagati».[1]
Se gli effetti del precariato e di un mondo del lavoro sempre più liquido e competitivo balzano agli occhi del buon senso collettivo, meno evidente è il fatto di essere giunti a questo punto in un regime di piena crisi spirituale. L’uomo contemporaneo si è scoperto fragile e impotente dinanzi l’avanzata inarrestabile dei propri inferni. Costretto a trascorrere in solitudine il tempo altrimenti destinato al proprio lavoro, egli ha sperimentato il vuoto d’essere che una società capitalistica, edonistica e narcisista nascondeva dietro il falso mito delle “magnifiche sorti e progressive”. Noia, disagio economico ed esistenziale, insignificanza del vivere quotidiano, avrebbero quantomeno dovuto ricongiungere l’uomo con una visione razionale e, nel migliore dei casi, soprannaturale, della vita stessa. La crisi economica è stata la grande occasione persa per ripensare il nostro vissuto, interiore ed esteriore, al di là dei parametri di Bruxelles, dello spread, della recessione e del debito pubblico.
Dal bisogno alla libertà di spirito
Mangiare, bere, vestirsi e possedere un tetto sotto il quale vivere: questi i bisogni primari. Tutto qui? Non dovremmo forse chiederci come vada affrontata, oggi, la lotta per la sopravvivenza? E ancora, quali dinamiche psicologiche si attivano in presenza di gravi problemi di salute o di sussistenza materiale? Quali patologie s’innestano nella mente di chi non vede un futuro dinanzi a sé ed è costretto a vivacchiare, per di più senza avere mai fatto intima esperienza di sé? Quando il destino di un’epoca fagocita persone ed eventi, attanagliando nella gelida morsa di una contingenza esasperata, come destare le energie migliori del proprio essere per superare quel senso di inutilità e quell’angoscia che, attraverso l’inesorabile scorrere del tempo, tolgono il sonno e la quiete?
In gioco v’è il rapporto dell’anima con la realtà, il che a sua volta rinvia alla contorta gestione dell’umana libertà di spirito. Di spirito, appunto, l’illustre assente dalle odierne città d’Occidente: «Crescere spiritualmente è rinunciare al desiderio di ottenere, ad ogni livello».[2] In che modo si debba interpretare questa rinuncia – se come una fuga dal mondo verso luoghi sacri, sperduti e inaccessibili ai profani, cambi repentini di residenza, ovvero una consapevole presa di distanza dalle forme, gli stilemi, i meccanismi dell’attuale vivere sociale – è decisione che spetta alla libera volontà di ciascuno. È certo, tuttavia, che occorra individuare contrafforti efficaci affinché possiamo imparare a convivere con la quotidianità, serbando uno spirito forte.
Era questo il ruolo della filosofia nell’antichità: una maniera di vivere, di agire e di trascendere, nella buona come nella cattiva sorte. A tale riguardo scriveva Seneca:
Sia che il destino ci incateni con la sua legge inesorabile, sia che un dio, signore dell’universo, abbia predisposto tutte le cose, sia che il caso spinga e agiti confusamente gli umani eventi, nella filosofia noi dobbiamo cercare la nostra difesa.[3]
Noi crediamo che il recupero di un atteggiamento filosofico nei confronti della quotidianità possa aiutare l’uomo moderno a familiarizzare con i propri malesseri, attraverso lo sviluppo di un’autonomia intellettuale e di un’indipendenza emotiva – dalle circostanze mondane – che gli consentano di affrontare la sofferenza in termini radicalmente nuovi:
Sarete liberi, infatti, non quando i vostri giorni saranno privi di ansie e le vostre notti senza bisogno o affanno, ma quando queste cose cingeranno la vostra vita e saprete levarvi al di sopra di esse nudi e senza vincoli.[4]
Non si tratta, evidentemente, dell’insegnamento della filosofia quale disciplina scolastico-accademica, quanto piuttosto di un autentico atto d’amore per la sapienza, cui la parola “filosofia” etimologicamente rinvia. Parliamo di un’esperienza corale, che abbraccia l’intera storia dell’Umanità e affonda le proprie radici nella Tradizione universale.
Sempre più di rado ci soffermiamo a meditare un qualsiasi accadimento della vita senza resistere alla tentazione di riferirlo, istintivamente, alla sfera dei nostri bisogni, qualsiasi sia la loro natura o il movente subconscio che eccita la foga della richiesta. Sforziamoci, invece, di accogliere qualsiasi evento quale dono gratuito e incondizionato, manifestato alla nostra coscienza da invisibili maestri custodi. Quando siamo intenti a leggere un libro può darsi che un aforisma, una massima, un versetto tratto da un testo sacro, meditati a dovere, possano lentamente ma efficacemente trasformare il nostro rapporto con la vita. La pratica della filosofia insegna a sostare nel giardino interiore, in quiete. Filosofia, nella penetrante visione di Pierre Hadot, è un esercizio spirituale che coinvolge tutti gli aspetti dell’esistenza[5] e che scandisce le tappe del cammino per il risveglio della coscienza. Ciò significa vivere, per quanto possibile, in uno stato di attenzione e di vigilanza spirituali: «L’uomo vigile è sempre perfettamente cosciente non solo di ciò che fa, ma anche di ciò che è, ossia della sua posizione nel cosmo e del suo rapporto con Dio».[6]
La generazione dei “Neet” e il problema culturale
Sono chiamati Neet, acronimo inglese che sta per “neither in employment nor in education or training” o “not in education, employment or training”, coloro che non studiano, non lavorano e non seguono una formazione professionale. Secondo l’ultimo report di Eurostat per l’anno 2018, i giovani Neet italiani tra i 20 e i 34 anni sono il 28,9%, quasi il doppio della media europea.[7] Sono dati allarmanti, poiché la mancanza di azioni quotidiane ritmate e dirette a un fine si riverbera, sempre più di frequente, nell’assenza di una scelta interiore, laddove la quotidianità costringe in una impasse radicale e psicologicamente destabilizzante.
Edith Hall, docente di Lettere classiche al King’s College di Londra, ha dedicato un intero volume a quella che lei stessa ha definito Aristotle’s Way:[8] la filosofia antica, nella fattispecie il pensiero aristotelico, possono aiutarci a mettere ordine nella nostra vita e a gettare le basi della felicità. Scrive la Hall:
L’asserzione più sintetica del nostro bisogno di trovare uno scopo nella vita si legge nell’Etica eudemia: “Chiunque sia in grado di vivere secondo la propria scelta deve porre un fine [skopos] del vivere bene – o l’onore o la fama o la ricchezza oppure la cultura – guardando al quale compirà tutte le sue azioni (e certo il non indirizzare la vita verso un fine [telos] è segno di grande stoltezza)”. Una vita priva di progettualità vale meno la pena di essere vissuta.[9]
Se il fine dei nostri giovani non può dirsi immediatamente quello della fama o della ricchezza, resta loro quello più importante: il fine culturale.
Dopo aver subito il medesimo rovesciamento di paradigma toccato in sorte all’accezione pratica del termine “filosofia”, anche la parola “cultura” avrebbe bisogno, oggi, di riconnettersi non tanto e non solo alla dimensione del pensiero ma anche e soprattutto alla sfera dell’azione. Ai tempi dell’ormai celebre comunicazione efficace, regina di corsi universitari, master di formazione aziendale, coaching e video tutorial su YouTube, bisognerebbe iniziare a parlare anche di cultura efficace, o del tentativo di trasformare l’erudizione personale in educazione, custodia del cuore. È ormai assodato, infatti, che la povertà del vocabolario impiegato nella vita di tutti i giorni si traduca in un’altrettanto povera considerazione della realtà esteriore, per non parlare della scarsa introspezione riguardante i nostri stati d’animo: non sapersi addentrare in essi tramite un lessico appropriato significa mancare la possibilità di decifrare il malessere che ci sta internamente parlando; significa perdere aderenza con i fatti e alimentare il flusso dell’immaginazione, dai cui fantasmi discende la rappresentazione dei nostri bisogni, dei nostri desideri, delle nostre speranze future, in una visione spesso e volentieri passionale, distorta e parziale, non più mediata dalla ragione.
Sulla scorta del pensiero di Epitteto, filosofo vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., Pierre Hadot ci ricorda che «il fine della filosofia non è indossare un mantello, ma avere una retta ragione. La filosofia non consiste nel dormire su di un duro giaciglio o nello scrivere dei dialoghi, ma nella capacità di correggere il proprio carattere. Essa non si riduce all’ampollosità sofistica, alle dissertazioni erudite, alle declamazioni pretenziose e nemmeno all’ostentazione, ma, al contrario, si risolve nella semplicità».[10]
Ecco ciò che intendiamo per cultura efficace: il sapersi districare nell’arido deserto delle nostre giornate senza scordare la possibilità – sempre attuale – di incarnare la migliore versione di noi stessi. La percezione del proprio vuoto esistenziale incattivisce l’animo, lo spinge ad abbracciare una vita di rimedio; con pericolosa facilità lo induce a rifugiarsi nel vizio e nelle cattive abitudini. Tutto ciò si traduce, di fatto, in un destinare il tempo a occupazioni vane piuttosto che all’ascolto di sé. Scrisse Marco Aurelio, imperatore filosofo:
È turpe che in una vita in cui il tuo corpo non getta la spugna, l’anima lo faccia prima […] Mantieniti semplice, buono, integro, grave, non ricercato, amico della giustizia, pio, benevolo, affettuoso, energico nel compiere le azioni che ti si addicono. Rispetta gli dei, proteggi gli uomini. Di breve durata è la vita; unico frutto della vita sulla terra, una disposizione mentale improntata a santità e azioni rivolte al bene della società.[11]
Rompere gli schemi: imparare a meditare
Caratteristica della sofferenza è la sua intrinseca, ciclica ripetitività. Al contrario la cifra dell’uomo di spirito è la sua quotidiana irripetibilità, la scoperta del proprio centro nella temporalità dei mutamenti; luce che irrompe nelle tenebre. Oggi più che mai si avverte il bisogno di infrangere la routine, verticalizzarne il senso, ricrearsi in ambienti idonei alla quiete dei sensi e alla disciplina dei desideri e dei pensieri. Per prima cosa occorre avanzare la seguente domanda: cos’è la meditazione? Partiremo da una considerazione molto semplice: la meditazione, da qualunque sapienza tradizionale essa discenda, non può ridursi a mera tecnica per il rilassamento del corpo e della mente. Essa si configura, piuttosto, come la lenta e graduale acquisizione di un abito esistenziale che disinnesca gli automatismi del carattere e le ferite della psiche, ponendo l’uomo in contatto con la sua realtà profonda. In tal senso un’attività qualsiasi, se vissuta consapevolmente, può contribuire allo sviluppo di un abito meditativo: una semplice passeggiata, il dialogare con qualcuno, fare visita ai malati, lo studio, la scrittura e la lettura, l’arte, la preghiera, il restare soli dentro una stanza oppure in un luogo di culto, osservando uno spirito di silenzio e di raccoglimento.
Senza volerci addentrare ulteriormente nel discorso, operazione che richiederebbe un approfondimento che esula dagli scopi del presente lavoro, ci limiteremo a segnalare una formula che riteniamo essere di pubblico interesse e pubblica utilità: non reagire, agire contro. Si tratta di un insegnamento cui siamo evidentemente poco avvezzi e che risulta di grande momento se, nell’oggi, le risposte al dolore e alla sofferenza si scontrano con le sirene di una civiltà terminale. Ciascuno di noi ha il compito di costruire una quotidianità alternativa, autentica, basata sul senso di azioni che non siano la conseguenza di una vita condizionata, ma siano frutto di una coscienza distaccata, rivelata, in grado di muoversi nel mondo forte di una mentalità non riducibile ai segni dei tempi. Osserva acutamente Main:
La meditazione ha a che fare col distacco […] Il distacco non è una dissociazione da noi stessi, o un’evasione dai nostri problemi o responsabilità […], è distacco dalla preoccupazione per sé, da quell’atteggiamento mentale, spesso inconscio, che pone me stesso al centro di tutta la creazione […]. La vita ci insegna che amare è essenzialmente perdersi nella più vasta realtà dell’altro, degli altri, e di Dio.[12]
Ecco ciò che noi intendiamo per arte del distacco: una vita vissuta filosoficamente, in una dimensione donativa del proprio sé, «nella quale si impara ad amare lottando contro tutti gli impulsi distruttivi della paura, della gelosia, del narcisismo, del tornaconto».[13] Una vita che non segua il flusso arrembante della modernità, che se ne affranca per un fine superiore alla congerie del suo tempo. Tutto ciò si traduce in un’autentica rottura di schema, in una discontinuità necessaria che in luogo dell’odierna vanità del vivere ponga un argine di eroismo e di bellezza. Non sarà ozioso concludere il nostro esame introducendo un’ultima distinzione: la vita è altro dalla vita in società. Dire “vita” significa includervi le nozioni di spirito, interiorità, eternità. Al contrario, “vita in società” dice, essenzialmente, relazione, caducità, necessità. Siamo allora chiamati a tentare una riconciliazione tra i due poli – la vita e la vita sociale – e a riconsiderare il nostro rapporto con gli eventi, penetrando sino al cuore di una solitudine spoglia e disadorna, di là dal falso mito dell’autoaffermazione e del successo. Il nostro deve essere un compito umile ma dalla profondità focale: «Ci occupiamo solo di essere, essere chi siamo, lì dove siamo».[14]
Pietro Chessa per Policlic.it
Fonti bibliografiche
[1] https://www.linkiesta.it/it/article/2018/04/28/il-precariato-minaccia-la-salute-mentale-dei-giovani-italiani-e-ora-ne/37903/
[2] J. Main, Il cuore della creazione. Insegnamenti per una meditazione cristiana, Appunti di Viaggio, Roma, 2006, p. 15.
[3] Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano, 2006, p. 139.
[4] K. Gibran, Il profeta, Piemme, Casale Monferrato, 2002, pp. 59-60.
[5] Rimandiamo alla celebre raccolta di testi del filosofo francese Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (Einaudi, Torino, 2005), in cui la filosofia è presentata come psicagogia, ovverosia l’itinerario spirituale proposto dalle diverse scuole filosofiche dell’Antichità per la cura di sé.
[6] P. Hadot, op. cit., p. 74.
[7] https://quifinanza.it/lavoro/chi-sono-neet-perche-sono-problema-italia/287070/
[8] E. Hall, Il metodo Aristotele. Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita, Einaudi, Torino, 2019.
[9] Ivi, p. 52.
[10] P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai «pensieri» di Marco Aurelio, Vita e Pensiero, Milano, 2017, p. 17.
[11] Marco Aurelio, Pensieri (VI, 29-30), Bompiani, Milano, 2017, pp. 252-253.
[12] J. Main, op. cit., pp. 132-133.
[13] E. Bianchi, Dono e perdono, Einaudi, Torino, 2014, p. 19.
[14] J. Main, op. cit., p. 102.