A un anno di distanza dalla bruciante sconfitta del 4 marzo 2018, il PD si trova nella difficile condizione di dover riabilitare la propria immagine presso un elettorato sempre più critico e distante, presentandosi come una valida alternativa a quell’asse Lega-MoVimento 5 Stelle che ha polarizzato la scena politica nazionale. Nel corso di un incontro tenutosi presso la libreria Mondadori di Frascati, l’Onorevole Marco Minniti ha risposto alle nostre domande su temi di grande attualità come le elezioni regionali del 24 febbraio, le primarie interne al Partito Democratico e il rebus dell’immigrazione.
Onorevole Minniti, vorrei aprire l’intervista chiedendole un parere sulle elezioni sarde del 24 febbraio scorso. Alla luce dei risultati incoraggianti ottenuti dal centro-sinistra nel confronto con la coalizione guidata da Solinas, specie se si tiene conto della debolezza in cui il Partito Democratico versa a livello nazionale, quanto ritiene che abbia influito la popolarità goduta dal sindaco di Cagliari, Massimo Zedda?
Sicuramente ha influito, come ha influito il lavoro importante, certosino e paziente che è stato svolto da Giovanni Legnini in Abruzzo. Ora, naturalmente, è chiaro che non vincere le elezioni ed essere entusiasti è una cosa un pochino difficile. Tuttavia, l’elemento che viene fuori da entrambe le elezioni è che l’idea sulla quale si era costruita questa collaborazione di governo tra la Lega e il MoVimento 5 Stelle, quella di avere un contratto su alcune questioni da fare per l’Italia, e tuttavia pensare di poter costruire un nuovo bipolarismo in cui ci fossero due forze principali su schieramenti alternativi, da una parte la Lega e dall’altra il MoVimento 5 Stelle… Questa idea – se mai c’è stata – oggi mi pare abbastanza evidentemente in crisi. Non ci può essere un progetto bipolare senza che ci sia il centro-sinistra.
Ora, naturalmente, tutto questo comporta che il centro-sinistra deve avere l’ambizione di essere maggioritario. Deve farlo attraverso la capacità di comporre alleanze politiche, alleanze sociali, alleanze nel rapporto con quello che, secondo me, rappresenta la nuova frontiera della costruzione di una coalizione: il rapporto con pezzi di società che si auto-organizzano. Chiamiamoli cittadinanza attiva, mi pare il termine più giusto, cioè cittadini che si organizzano indipendentemente dai partiti, esprimendo un punto di vista che può essere traguardato con un riferimento molto forte dentro il centro-sinistra. Se pensiamo al movimento pro-TAV che si è manifestato a Torino, se pensiamo il movimento di opposizione che si è manifestato a Roma contro la giunta Raggi, noi vediamo in maniera evidente che questi due movimenti, pur molto forti, non sono espressione di un partito. E penso che questo debba portare il Partito Democratico ad avere il senso del limite di un partito, cioè un partito che costruisce una grande alleanza democratica e, contemporaneamente, si rapporta a questi movimenti della società con rispetto dell’autonomia, di una progettualità che non può essere inglobata tutta quanta dentro un partito. Questo è il futuro sul quale lavorare. Ora, naturalmente, sappiamo soltanto che siamo al primo passo: aver tirato un sospiro di sollievo non significa aver risolto i problemi.
Il prossimo 3 marzo, si terranno le primarie del Partito Democratico, chiamato alla riscossa dopo la sconfitta patita nel corso delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Quali sono le sue previsioni circa l’esito del voto? Inoltre, condivide l’ottimismo dei suoi compagni circa la possibilità di scavalcare il MoVimento 5 Stelle, in vista delle elezioni europee del 26 maggio?
Io non faccio previsioni, faccio auspici. L’auspicio è che ci sia una forte partecipazione, domenica prossima. Che appunto sia, come è stata in altre circostanze, una grande festa della democrazia. È molto importante che questo avvenga. È molto importante nella linea della risposta precedente, se noi vogliamo costruire un progetto alternativo, se vogliamo costruire un’alternativa politica a questo governo che ha manifestato evidenti limiti e sta producendo guasti notevoli che, a mio avviso, in alcuni casi rischiano di essere addirittura permanenti per l’Italia.
Se vogliamo costruire un’altra via, abbiamo bisogno che questa alternativa parta attraverso una partecipazione molto ampia, molto forte, molto radicata, diffusa sul territorio in riferimento alle primarie. Mi auguro anche che il candidato che vince le primarie lo faccia vincendole, cioè superando il 50%. Perché è fondamentale che chi sarà chiamato a guidare questa fase storica e politica del Partito Democratico abbia una fortissima legittimazione che deriva dalla partecipazione in assoluto alle primarie. Una fortissima legittimazione che deriva dal fatto di essere votato dalla maggioranza assoluta di coloro che partecipano alle nostre primarie. Sono due sfide molto importanti che, in qualche modo, alludono anche a una prospettiva di rapporto fra questa sfida e la prospettiva della democrazia italiana. Mai come adesso il destino di un singolo partito, il Partito Democratico, è stato fortemente intrecciato al destino e alla prospettiva della democrazia italiana. Quindi bisogna affrontare le primarie con questo spirito e, se possiamo aggiungere, con questa passione politica. E cioè di comprendere che non è una conta interna al Partito Democratico, non è una conta interna a un singolo partito, ma una cosa che riguarda le prospettive e il futuro della democrazia italiana.
Negli ultimi mesi, il Partito Democratico si è scagliato contro le politiche del governo giallo-verde sul tema dell’immigrazione, in particolar modo la chiusura dei porti e il divieto di attracco per le navi ONG. Eppure, nel luglio del 2017, ossia durante l’amministrazione Gentiloni, l’ex segretario Matteo Renzi ha affermato che l’Italia non aveva il dovere morale di accogliere le persone in difficoltà, tutt’al più di aiutarle “a casa loro“. Inoltre, durante il suo dicastero, a fronte di una sensibile riduzione del numero degli sbarchi, il problema dei campi di raccolta libici ha assunto proporzioni sempre più inquietanti. Come giustifica una simile discrepanza rispetto al recente passato?
Sempre più inquietanti no, per una ragione semplicissima. Perché, forse lei non lo sa, ma i centri di accoglienza in Libia sono in Libia da vent’anni. Non sono stati fatti negli ultimi sei mesi, purtroppo. Sono lì da vent’anni. E da vent’anni, le Nazioni Unite non si occupavano della Libia. Perché forse, come lei sa, la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra. La Convenzione di Ginevra è del 1951, sessantotto anni fa. In Libia prima c’è stato un re, poi un dittatore e poi ci sono stati vari governi riconosciuti dalla comunità internazionale. La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra. La Comunità internazionale non ha mai costretto la Libia a firmare la Convenzione di Ginevra. Per questa ragione le Nazioni Unite si occupavano della Libia, ma non stavano in Libia. Si occupavano della Libia stando a Tunisi. Oggi si occupano della Libia stando in Libia, perché c’è qualcuno che li ha portati in Libia. C’è qualcuno che ha convinto il governo libico ad accettare che le Nazioni Unite potessero operare in Libia. In Libia le Nazioni Unite, l’UNHCR e l’OIM [Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, ndr] hanno costruito, insieme con il governo italiano, i primi corridoi umanitari della storia dalla Libia verso l’Europa – in questo caso verso Roma. L’abbiamo fatto insieme con la Conferenza Episcopale Italiana. Perché se c’è qualcuno che scappa da una guerra e sono mamme e bambini, in Europa e in Italia li portano i governi con gli aerei dell’Aeronautica Militare, come abbiamo fatto noi. Non li portano gli scafisti. Secondo, l’Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione, che adesso opera in Libia, ha fatto più di 25.000 rimpatri volontari assistiti dalla Libia verso i Paesi di provenienza.
Basta soltanto guardare i dati dei rimpatri volontari assistiti fatti dai vari Paesi europei, per capire che 25.000 è una cifra notevolissima. Volontari vuol dire che sono fatti di spontanea volontà. Assistiti vuol dire che a ciascuno dei migranti che ritorna nei Paesi di provenienza viene offerto un budget per potersi rifare una vita. In sostanza, pur nelle condizioni drammatiche e difficilissime della Libia, si è costruito un minimo di modello. Il modello aveva l’idea di sconfiggere l’illegalità e costruire percorsi di legalità. Se qualcuno mi dicesse adesso: “ma abbiamo risolto totalmente il problema dei centri di accoglienza in Libia?”, la risposta sarebbe no, nonostante oggi le Nazioni Unite abbiano un potere di ispezione sulla Libia. E tuttavia io sono riformista.
Non posso limitarmi soltanto a denunciare le cose che non vanno. Devo cercare di cambiarle. Questo era il senso dell’impegno che si è messo in campo, che non ha nulla a che vedere con quello che sta facendo l’attuale governo. Ricordo soltanto che nel 2017, a giugno, noi abbiamo avuto 13.500 migranti che sono arrivati in 36 ore nel nostro Paese. Con 26 navi, non 26 barconi. Non abbiamo chiuso nessun porto. Abbiamo fatto un’operazione straordinaria di accoglienza e abbiamo sempre tenuto insieme due principi che, secondo me, sono fondamentali: il principio di sicurezza e il principio di umanità. Questo governo invece mette in contrapposizione sicurezza e umanità. In qualche modo trasmette un messaggio: “io ti garantisco un pochino più di sicurezza se tu rinunci a un pezzo della tua umanità”. Tutto questo significa che l’Italia rischia di perdere se stessa e di perdere un pezzo fondamentale della propria democrazia. Questo è il senso della sfida che in questo momento c’è. Questo è il senso di un impegno che abbiamo costruito con l’Africa, non soltanto con la Libia, ma con l’Africa, e che rimane il cuore della questione. Perché nei prossimi vent’anni il futuro dell’Europa si giocherà in Africa. Se l’Europa investirà in Africa, non li aiuterà a casa loro – perché non è un elemento di carità, ma investirà in Africa – l’Europa starà meglio. Se l’Africa invece non sarà aiutata, l’Europa starà male. Perché i destini di questi due continenti separati dal Mediterraneo sono sempre più intrecciati. Nei prossimi vent’anni, la partita si giocherà sulla capacità di rapportarsi all’Africa. Ed è questa la spinta che l’Europa deve fare. Non dividere l’Europa e spesso, com’è capitato all’Italia, rimanere isolati in Europa —come sta avvenendo in queste ore e in questi giorni. Ma lavorare dentro l’Europa perché l’Europa capisca che l’Africa è il vero specchio dell’Europa nei prossimi anni.
Nel dicembre del 2018, ha maturato la decisione di ritirare la sua candidatura per la Segreteria del partito; un fatto insolito, soprattutto alla luce dell’imprimatur inizialmente ottenuto dalla componente renziana. Tale colpo di scena è stato giustificato dalla necessità di scongiurare ulteriori secessioni. Lei ritiene che, allo stato attuale delle cose, l’elezione di una personalità come Nicola Zingaretti possa conferire al PD la stabilità necessaria per portare la propria sfida alla Lega e al MoVimento?
Io penso di sì. Ho votato nelle primarie interne e voterò domenica per Nicola Zingaretti. Ho fatto un ragionamento semplicissimo, che è collegato alla risposta alla prima domanda. Per me è fondamentale che domenica ci sia un Segretario eletto con la maggioranza assoluta, e per una ragione semplicissima: noi abbiamo bisogno di una leadership che abbia una forte autorevolezza e una forte legittimazione. Si fanno le primarie un anno dopo una sconfitta elettorale drammatica. Per me, le primarie e il Congresso andavano fatti a giugno dello scorso anno, abbiamo colpevolmente ritardato tutto. Se dopo un anno facciamo un Congresso e nessuno raggiunge la maggioranza assoluta, Lei comprende che sarebbe di un scacco politico senza precedenti per un partito che, appunto, è il cuore vitale di una politica di opposizione a un Governo che è un pericolo molto serio per l’Italia.
In questo quadro, non ci sono discussioni che tengano. Se uno ha un principio di elementare responsabilità, lavora perché si possa ottenere quel risultato. Nel momento in cui ho valutato che c’era questo discorso – e io l’ho valutato fin dal primo momento – ho messo in discussione la mia candidatura come era giusto che fosse. Perché io vengo da una storia in cui era più importante l’interesse collettivo che l’affermazione di carattere personale. Penso anche che questo possa servire. Mi auguro che possa servire, mi auguro che sia servito per richiamare il fatto che l’unica cosa di cui il Partito Democratico non ha bisogno è un eccesso di personalismo. Su questo abbiamo già dato. Quindi il segnale è molto evidente: di fronte a un interesse generale, di fronte a un interesse collettivo di un partito, della democrazia italiana, ognuno è capace di mettersi da parte. E penso che questo debba essere considerato, può essere considerato. Ognuno lo valuterà come vuole: un atto di responsabilità, qualcuno magari più enfatico lo può valutare come un atto di amore verso un partito. L’ho fatto in tutta coscienza. Sinceramente, a due giorni dalle primarie, non sono pentito della scelta. Anzi, penso di aver fatto la scelta più giusta.
Niccolo Meta per www.policlic.it