L’Iri, lo Stato, le banche, l’industria

L’Iri, lo Stato, le banche, l’industria

Dalla “fratellanza siamese” alla nascita dello Stato imprenditore

Il 23 gennaio 1933, con il regio decreto legge n. 5, venne istituito l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri)[1]. La costituzione dell’Iri prese le mosse dall’urgenza “di completare l’organizzazione creditizia mediante la creazione di un nuovo Istituto di diritto pubblico, la cui azione si rivolga più particolarmente alla riorganizzazione tecnica economica e finanziaria delle attività industriali del Paese”[2]. Insomma, l’istituzione dell’Iri fu – in ordine temporale – l’ultima e più decisa risposta del regime fascista alla crisi economica che era partita negli Stati Uniti nel 1929, e che aveva impattato la già fragile economia italiana a partire dal 1930[3].

Per capire perché si rese necessaria la creazione di un nuovo istituto, che sicuramente presentava importanti novità rispetto alle modalità con le quali erano state affrontate le crisi economiche precedenti, e che cambiò in modo considerevole i rapporti tra lo Stato e il sistema industriale e finanziario italiano, occorre considerare le caratteristiche dell’economia italiana dalla fine della Prima guerra mondiale e per tutti gli anni Venti del Novecento.


L‘economia italiana degli anni Venti

L’Italia si era presentata all’appuntamento della Prima guerra mondiale dopo venti anni in cui la sua economia era cresciuta a buonissimi ritmi, soprattutto grazie a una crescita industriale che, sia pur non consentì al settore secondario di superare l’agricoltura come principale settore economico, fu comunque di buona entità[4]. Un ruolo importante nella crescita industriale italiana nell’età giolittiana ebbero le banche miste, che univano all’attività di credito ordinario[5], quella di credito mobiliare[6] a medio e a lungo termine[7].

Sin da questo periodo si erano creati legami molto stretti tra il sistema bancario – capitanato dai due maggiori istituti, la Banca Commerciale Italiana (Comit) e il Credito Italiano (Credit) – e il sistema industriale italiano. Questo rapporto, che alla vigilia della Prima guerra mondiale era in equilibrio, cambiò di segno due volte nel giro di pochi anni. Durante il conflitto, infatti, furono le industrie e prendere il sopravvento sulle banche, mentre all’inizio degli anni Venti tale situazione si era già ribaltata a favore degli istituti di credito[8].

Ciò che però fu più evidente in quegli anni fu che il rapporto tra banche e industrie divenne strettissimo, e la cosa cominciò a destare la preoccupazione della classe politica italiana[9]. C’erano stati, infatti, tra la fine della guerra e i primi anni Venti, alcuni campanelli d’allarme non trascurabili, che resero evidente come “la fisiologica simbiosi” tra banche e industria si stava trasformando in una “mostruosa fratellanza siamese[10].

I primi segnali che evidenziarono un rapporto poco costruttivo tra banche e industria furono i tentativi di scalata che alcuni gruppi industriali tentarono nei confronti sia della Comit che del Credit, tra la fine della Prima guerra mondiale e l’inizio degli anni Venti, e che riflettevano la posizione dominante assunta dall’industria rispetto al sistema bancario. Alla fine del 1917, e poi soprattutto nella prima metà del 1918, infatti, sia la Banca Commerciale che il Credito Italiano si ritrovarono sotto l’attacco rispettivamente del gruppo Ansaldo dei fratelli Perrone[11] e della Fiat di Agnelli e Gualino[12]. A complicare ulteriormente la situazione, basti pensare che, mentre i due gruppi industriali tentavano la scalata di Comit e Credit, i Perrone stavano cercando di acquisire il controllo della Fiat, Agnelli era riuscito a ottenere posizioni di rilievo all’interno dell’Ilva e la Edison si stava avvicinando alla Banca Italiana di Sconto (BIS), una dei grandi istituti bancari protagonisti prima del conflitto mondiale[13].

“Pubblicità dell’Ansaldo del 1918” (Giuseppe Palanti/Wikimedia Commons, licenza pubblico dominio), link: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Giuseppe_Palanti_-_Pubblicit%C3%A0_Ansaldo_1918.jpg.

Questi primi tentativi di scalata degli istituti di credito si conclusero con una relativa vittoria degli industriali. La scalata del Credit da parte di Agnelli e Gualino si concluse con una netta vittoria del gruppo Fiat[14], mentre i Perrone, pur non ottenendo il controllo della Comit, riuscirono a raggiungere un aumento di capitale dell’Ansaldo e delle posizioni importanti all’interno del consiglio della banca[15].

L’equilibrio raggiunto in questa prima fase di lotta tra banche e industria era destinato a rompersi rapidamente, dopo la fine del primo conflitto mondiale, che vide le industrie impegnate in onerose esigenze di riconversione dalla produzione bellica a produzione civile, senza che, allo stesso tempo, volessero rinunciare a disegni industriali particolarmente ambiziosi[16]. Con la fine della guerra, però, era già cambiato il rapporto tra banche e gruppi industriali, a favore delle prime, e infatti il secondo tentativo di scalata della Comit, da parte dei Perrone, prese le mosse dal tentativo della Commerciale di liberarsi definitivamente della loro presenza ingombrante[17]. Senza seguire tutte le vicende del secondo atto dei tentativi di scalata delle banche, che esulano dagli obiettivi dell’articolo, basti qui evidenziare come si concluse la vicenda: tramite un interessamento della BIS – sempre più in sofferenza – Comit e Credit riuscirono a liberarsi della presenza rispettivamente dei Perrone (che detenevano 200mila azioni dell’Istituto) e del gruppo Fiat (che possedeva 133mila azioni del Credito Italiano, contando anche quelle in mano all’Ilva)[18], creando due consorzi – il Consorzio mobiliare finanziario per la Comit e la Compagnia finanziaria nazionale per il Credit – a cui vennero cedute le azioni delle banche in mano agli industriali. Tali consorzi erano controllati dagli stessi amministratori degli istituti di credito che quindi, di fatto, ripresero pieno possesso delle loro azioni[19], pur pagandole a un costo decisamente superiore rispetto al loro valore[20]. Con questa opera finanziaria abbastanza spericolata, si chiuse il periodo di contrasto tra banche e industria, con una netta vittoria delle prime[21].

L’altro grande campanello d’allarme squillò appena si chiusero i tentativi di scalata appena descritti, e si concretizzò nelle difficoltà della Banca Italiana di Sconto e del Banco di Roma – la quarta grande banca mista del periodo. Come detto, la BIS era particolarmente legata all’Ansaldo, ed esposta per molti milioni nei confronti dell’azienda dei Perrone, che all’inizio degli anni Venti cominciò a soffrire i problemi di riconversione dalla produzione bellica a quella civile[22]. Nel 1920 la situazione della BIS preoccupò anche la Banca d’Italia, il maggiore istituto di emissione di allora, che inviò degli ispettori[23], la cui azione evidenziò una situazione particolarmente grave per la cosiddetta “banca italianissima”, tra immobilizzi verso l’Ansaldo, tentativi di sostenere il prezzo delle proprie azioni con acquisti massicci e onerosi, e una crescita, in termini di filiali, decisamente esagerata rispetto alle proprie capacità[24].

Il 29 dicembre 1921 la Banca Italiana di Sconto fu messa in liquidazione, mentre la Banca d’Italia costituì un consorzio interbancario (di cui facevano parte anche Comit e Credit), che acquisì il controllo dell’Ansaldo, dopo aver costretto i Perrone alle dimissioni[25].

Il fallimento della BIS mise in difficoltà il Banco di Roma, tra il 1922 e il 1923, ma rispetto alla BIS, lo Stato decise di non poter far fallire il Banco (anche a causa delle pressioni che il mondo cattolico esercitò sui governi liberali prima e fascista dopo[26]). Il salvataggio del Banco di Roma avvenne per mezzo della Sezione speciale autonoma[27] del Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali[28], a cui furono cedute le partecipazioni del disastrate del Banco. Fu di fatto lo Stato, quindi, a salvare l’istituto di credito romano, sia pur per mezzo del CSVI e della Banca d’Italia[29].

La Sezione speciale autonoma del CSVI, che non aveva una personalità giuridica propria, divenne, nel 1926, l’Istituto di liquidazione, a cui furono cedute le partecipazioni industriali della BIS dai suoi liquidatori. Il suo compito era quello di liquidare, appunto, tali partecipazioni, facendole tornare alla gestione di privati, anche se la sua opera fu poco impattante e poco chiara[30].

Nel resto degli anni Venti, che furono meno tumultuosi rispetto agli inizi – se si esclude il crack borsistico del 1925, che però non ebbe immediate conseguenze disastrose[31]le grandi banche miste, soprattutto Comit e Credit, assunsero sempre più partecipazioni industriali, ed “erano in larga parte diventate società finanziarie [holding] senza sapere e volere adottare tecniche e strutture delle società finanziarie”[32], con la conseguenza che “La fratellanza siamese portava al catoblepismo[33]. Abyssus vocat abyssum”[34]. Insomma, pur conservando le strutture e l’organizzazione propria di un istituto bancario, le varie banche miste divennero, di fatto, delle finanziarie a causa delle ingentissime partecipazioni industriali assunte. Fu questa una delle cause principali del disastro che colpì i sistemi bancario e industriale italiani non appena la situazione economica generale peggiorò in modo rilevante.


La crisi del ’29 e le prime misure anticrisi in Italia

Alla fine di ottobre del 1929, alla Borsa di New York, due giornate terribili videro scoppiare una delle più grandi crisi – prima finanziaria ed economica poi – della storia[35]. La crisi del ’29, passata alla storia come Grande depressione, cominciò negli Stati Uniti. ma si diffuse negli anni successivi in tutta Europa. La diffusione fu facilitata dal fatto che tutti i Paesi occidentali erano oramai economicamente interconnessi, e quindi il crollo degli Stati Uniti non poteva non avere conseguenze anche in Europa e in Italia[36].

La crisi, in realtà, non colpì immediatamente l’Italia, e anzi, ancora nel 1930, il settore che aveva più sofferto era stato l’agricoltura, mentre l’industria e il sistema bancario non avevano subìto conseguenze particolarmente gravi[37]. Fu con l’avanzare del 1930 che la crisi cominciò a dispiegare i suoi effetti peggiori anche in Italia. Il governo fascista di Mussolini decise immediatamente di intervenire pesantemente per fronteggiare la crisi[38], ma lo fece, in questa prima fase, con modalità e strumenti tradizionali. In particolare, Mussolini decise da un lato di alzare i dazi doganali, scegliendo una via protezionista e tentando in questo modo di sostenere i settori primario e secondario, dall’altro di applicare una politica deflattiva di contenimento dei salari. Entrambe queste misure non sortirono gli effetti sperati, anzi, il contenimento dei salari finì per far subire le conseguenze della crisi soprattutto ai lavoratori agricoli e agli operai[39].

Accanto a questi provvedimenti, restava operativo l’Istituto di liquidazione. Tra il 1927 e il 1930 l’Istituto aveva condotto un’attività decisamente prudente, con una concentrazione sull’attività di liquidazione, e sconfinando raramente in operazioni di gestione aziendale che andassero oltre la semplice gestione corrente delle società finite sotto il suo controllo[40]. Alla fine del 1930, con l’aggravarsi della crisi, il governo con una serie di provvedimenti aumentò i compiti dell’Istituto di liquidazione, allungandone contestualmente il periodo di attività, aumentando il capitale fornitogli dalla Banca d’Italia e coinvolgendolo in una serie di salvataggi – principalmente di alcune banche cattoliche e della Banca Agricola Italiana – senza però che l’Istituto avesse particolare autonomia. Di fatto, l’Istituto fu, in questa fase, un mero strumento di decisioni prese altrove[41].

La crisi, nel 1931, però, si aggravò. In particolare, a partire proprio dal 1931 vennero al pettine quei nodi che erano insiti nella mostruosa fratellanza siamese che si era creata tra il settore bancario e quello industriale. Le banche miste, e in particolar modo la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, possedevano pacchetti azionari di tantissime imprese, controllandone varie, comportandosi, come detto, come delle finanziarie senza esserlo davvero[42]. La crisi del comparto industriale dovuto alla Grande depressione mise dunque in seria difficoltà le banche miste, che si ritrovarono con una serie di immobilizzi[43] dovuti all’incapacità, da parte delle aziende controllate e finanziate, di ripagare i loro debiti verso Comit e Credit[44]. Soprattutto verso questi due istituti, inoltre, si era esposto per diversi miliardi il principale istituto di emissione italiano, la Banca d’Italia[45].

Per cercare di evitare il fallimento delle due banche, che avrebbe travolto tutta l’economia italiana, sia Comit e Credit che il Governo agirono verso due direzioni. I due istituti bancari crearono, tra il 1930 e il 1931, due istituti finanziari – la Società Finanziaria Italiana (SFI) per il Credit, la Società Finanziaria Industriale Italiana (Sofindit) per la Comit – a cui cedettero le loro partecipazioni industriali, nel tentativo di poterle smobilizzare. Le due finanziarie erano sotto il diretto controllo del Ministero delle Finanze, ma, nonostante ciò, lo Stato non aveva comunque assunto il controllo delle imprese possedute da SFI e Sofindit[46].

L’altro provvedimento importante, questo di impronta totalmente governativa, fu la creazione dell’Istituto Mobiliare Italiano (Imi), voluto dal Governo e da Mussolini, e organizzato da Alberto Beneduce[47]. Compito dell’Imi, secondo l’idea iniziale, sarebbe stato quello di occuparsi del credito mobiliare a medio e lungo termine, e tale compito avrebbe dovuto avere due effetti: consentire alle imprese di continuare a ottenere finanziamenti dopo che le banche miste li avevano ridotti e, allo stesso tempo, sgravare la Banca d’Italia dalla necessità di sostenere gli istituti bancari oramai stremati[48]. A questi due effetti immediati, con la creazione dell’Imi si cercava anche di raggiungere un terzo obiettivo più a lungo termine, e cioè la separazione tra il credito mobiliare a lungo termine e l’attività bancaria ordinaria e di deposito[49]. I fondi per svolgere tutte queste attività sarebbero stati reperiti dall’Imi inizialmente attraverso il sostegno degli enti sottoscrittori – la Cassa depositi e prestiti, gli istituti di assicurazione, le banche pubbliche e le casse di risparmio – poi emettendo proprie obbligazioni[50]

Per raggiungere quanto descritto, considerando la pesante situazione di crisi economica, l’azione dell’Imi sarebbe dovuta essere ambiziosa ed energica, ma ciò non avvenne, anzi: poco tempo dopo la fondazione dell’istituto, i suoi dirigenti precisarono di “voler escludere dal proprio campo di attività l’assunzione di partecipazioni e l’effettuazione di salvataggi”[51].

La poca incisiva azione dell’Imi non valse a risolvere i problemi causati dalla Grande depressione, così come non ebbe particolari effetti benefici sulle banche e le industrie la creazione di SFI e Sofindit. Il perdurare dello stato di crisi, allora, convinse Mussolini a prendere un ulteriore provvedimento ancora più incisivo: la fondazione dell’Iri.


La nascita e i primi anni dell’Iri: da provvisorio a permanente

Col il R.d.l. 5/1933, come visto, venne fondato l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri). La decisione di istituire dell’Iri, dovuta alla necessità di affrontare la gravissima situazione economica causata dalla Grande depressione, non venne però presa negli organi teoricamente deputati a prendere una tale decisione: Consiglio dei Ministri, Parlamento, Corporazioni, Gran Consiglio del Fascismo e lo stesso Partito fascista non solo non parteciparono alla decisione, ma di fatto la subirono. L’Iri venne ideato e pensato “nelle nicchie riservate degli enti pubblici economici, in parte nelle stanze ovattate della Banca d’Italia, molto negli ambienti esclusivi frequentati dalle élite tecnocratiche del regime”[52].

Mussolini, in realtà, non aveva in mente un istituto come l’Iri, ma avrebbe voluto un unico ente che unisse tutti i precedenti e finanziasse l’economia in crisi[53]. A convincere Mussolini della necessità di un ente autonomo, che fosse dedicato espressamente al salvataggio e al risanamento industriale fu Alberto Beneduce[54].

“Alberto Beneduce” (Il primato nazionale/Wikimedia Commons, licenza pubblico dominio), link: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Alberto_Beneduce.jpg?uselang=it.

La figura di Beneduce, che negli anni Trenta divenne il principale e molto ascoltato consigliere di Mussolini in materia economica[55], merita un breve approfondimento[56]. Figlio di socialista, Beneduce si fece strada negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale nell’amministrazione del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, legandosi a Francesco Saverio Nitti e contribuendo in modo rilevante alla fondazione dell’Istituto Nazionale di Assicurazioni nel 1912. Volontario nella Prima guerra mondiale, nel Dopoguerra venne eletto alla Camera tra le fila dei socialriformisti, fu due volte deputato e fu ministro del Lavoro nel governo Bonomi. Nel 1924 non si ricandidò alle elezioni, ma non rinnegò mai il suo passato politico. Non solo: massone, non prese mai la tessera del Partito Nazionale Fascista, ottenendone una onoraria solo nel 1939, contestualmente alla nomina a senatore[57]. Mussolini, quindi, oltre a coinvolgere Beneduce già nella fondazione dell’Imi, diede a una personalità non fascista, la Presidenza di quello che era destinato a divenire il più importante ente economico italiano, l’Iri appunto, senza peraltro che il potere di Beneduce portasse a notabili proteste dell’apparato fascista del Partito o di governo, nemmeno da parte del molto polemico Farinacci[58].

Fu dunque Beneduce a convincere Mussolini della necessità di un nuovo ente come l’Iri. L’Iri venne organizzato – da Beneduce e dal suo più stretto collaboratore, Donato Menichella – come un ente provvisorio (destinato inizialmente a restare attivo dal 1933 al 1937) una sorta di ospedale delle aziende malate[59]. L’Iri era organizzato in due sezioni: una Sezione finanziamenti, che avrebbe affiancato l’Imi nell’opera di finanziamento del comparto industriale, e una Sezione smobilizzi, che, rilevando le funzioni dell’Istituto di liquidazione (abrogato contestualmente alla fondazione dell’Iri), doveva acquistare le partecipazioni industriale degli istituti di credito, risanare le imprese e rivenderle ai privati[60]. L’Iri si sarebbe finanziato inizialmente con il supporto di altri enti, in particolare la Cassa Depositi e Prestiti, l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale e l’Ina, ma, come l’Imi, avrebbe poi esso stesso emesso obbligazioni[61].

L’Iri dunque, appena nato, acquisì immediatamente le partecipazioni azionarie di Comit, Credit e del Banco di Roma, finendo dunque per controllare, oltre che gli stessi istituti di credito, anche oltre il 20% del capitale delle Spa italiane[62]. In particolare, l’Iri controllava l’80% della navigazione di linea, il 90% delle costruzioni navali, il 100% della siderurgia bellica e il 40% della siderurgia comune, tutta la costruzione delle artiglierie, l’80% della costruzione di locomotori e locomotive, tutta l’estrazione di carbone, oltre il 60% della produzione di energia elettrica, il 20% della produzione del rayon e il 13% di quella del cotone[63].

Della prima fase dell’attività dell’Iri, di salvataggio delle banche e finanziamento delle industrie, venne pubblicato un resoconto il 3 ottobre 1934, con il quale veniva reso noto che “l’ammontare dell’intervento si [fissava] in 12.128 milioni”[64]. Tra gli istituto di credito, ad aver il maggior numero di debiti era “la Banca Commerciale, con 5 miliardi; seguivano il Banco di Roma con 1.656 milioni, il Credito Italiano con 1.309 milioni”[65].

Contestualmente ai salvataggi e ai finanziamenti, cominciò la sua opera la Sezione smobilizzi, che doveva risanare le aziende e rivenderle ai privati. Nei primi anni le vendite erano state effettuate con buon ritmo e con discreti risultati – riportando in mano privata, tra le altre, l’Italgas, la Bastogi e la Edison – ma esse furono più che controbilanciate dalle nuove acquisizioni[66], anche per come Beneduce e Menichella intendevano procedere agli smobilizzi: l’interesse che guidava l’azione di vendita da parte dell’Iri era quello dello Stato, insieme a quello dei nuovi risparmiatori, e dunque Beneduce non accettò mai di svendere le partecipazioni detenute dal suo Istituto[67], e anzi, su questo punto fu egli stesso chiarissimo, affermando che “non si cede, non si vende senza assumere la gravissima responsabilità della valutazione dell’azienda che si cede”[68]. D’altra parte, secondo una nota dell’Iri “per conservare l’ambiente favorevole l’Iri avrebbe dovuto in ogni occasione mollare; avremmo avuto banchieri e industriali contenti e sui giornali soffietti di incensamento ai dirigenti dell’Iri”[69], ma non era questa, come detto, l’intenzione del suo Presidente.

L’Iri, quindi, tra mancate vendite e nuove acquisizioni si ritrovò a dover concretamente gestire un patrimonio industriale rilevante. Un indizio che l’Iri stesse diventando qualcosa che, probabilmente, né Mussolini né lo stesso Beneduce avevano preventivato, arrivò con la sistemazione della Società idroelettrica piemontese (Sip). La Sip comprendeva, nel 1932, ben 28 aziende diverse, sia elettriche che telefoniche, e, con la Grande depressione, si era trovata in pesante difficoltà, anche a causa del suo intreccio con la Comit. Non essendo stati trovati dei privati disposti a intervenire sulla Sip, all’Iri si fece una scelta che avrebbe avuto conseguenze importanti negli anni a venire: le aziende telefoniche della Sip vennero scorporate da quelle elettriche, l’Iri ne rilevò le azioni e le conferì a una nuova finanziaria creata ad hoc, la STET, di cui era proprietario lo stesso Istituto[70]. Il finanziamento della STET fu attuato anche con l’emissione, da parte dell’Iri, di obbligazioni per il valore totale di 400 milioni[71].

La manovra della STET fu un successo, e quindi fu replicata, con caratteri simili, negli anni a venire: tra il 1936 e il 1937 vennero fondate le finanziarie Finmare e Finsider[72], rispettivamente per il settore delle navigazioni marittime e della siderurgia.

Con l’avvicinarsi del 1937, anno in cui l’Iri avrebbe dovuto cessare la sua attività, sempre più ci si rese conto che la cosa non era così semplice: l’Istituto deteneva ancora rilevantissime partecipazioni industriali, non essendo riuscito a trovare compratori privati soprattutto in quei settori industriali a più alto capitale, come la siderurgia o la meccanica pesante[73]. Tale situazione, però, non obbligava a rendere l’Iri un ente permanente: la scelta in questo senso fu una scelta di Mussolini, che ebbe due motivi principali, entrambi relativi alla politica estera. Da un lato, nel 1937 l’Italia fascista aveva imboccato con decisione la via dell’autarchia, a seguito delle sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni in risposta all’invasione dell’Etiopia; dall’altro lato, Mussolini era sempre più convinto che si stesse preparando una grande guerra europea. Entrambi questi elementi fecero propendere il Duce verso la scelta della trasformazione dell’Iri in ente permanente, così da poter controllare direttamente larghi pezzi dell’industria italiana, con particolare attenzione a quei settori industriali considerati strategici per l’interesse nazionale autarchico, oppure importanti a fini bellici[74].

Con la resa dell’Iri a ente permanente, nacque in Italia lo Stato imprenditore[75].


L’Iri: rottura o continuità

La costituzione dell’Iri e la decisione di renderlo ente permanente furono atti gravidi di conseguenze per la storia italiana. Basti pensare che l’Istituto non solo sopravvisse al fascismo e alla guerra, ma restò attivo sino al 1° dicembre del 2002 – pur essendo iniziata l’opera di smantellamento negli anni Novanta[76].

La grande rilevanza che ebbe l’Iri dopo il fascismo, però, non deve significare che la sua fondazione fu un’operazione di rottura netta con la storia precedente. Se è infatti vero che la principale dottrina economica di riferimento nell’Italia liberale fu il liberismo, non è vero che lo Stato fu assente dall’economia, anzi: soprattutto a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, lo Stato italiano divenne sempre più interventista, sia con l’adozione di tariffe doganali, sia sostenendo le industrie riservando le commesse statali esclusivamente ad aziende italiane[77].

Non mancarono inoltre, sempre in età liberale, dei veri e propri salvataggi. Nel 1887, ad esempio, lo Stato intervenne per salvare la Terni, allora in gravissima difficoltà, sia anticipando il pagamento di una nuova fornitura, sia attraverso un consorzio di sovvenzione, per tramite della Banca Nazionale[78].

Questi interventi, effettivamente poco comuni fino alla Prima guerra mondiale, divennero più frequenti negli anni Venti, a partire dal salvataggio del Banco di Roma per continuare con l’azione della Sezione autonoma del Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali e dell’Istituto di liquidazione, come ampiamente illustrato in precedenza.

L’intervento statale a soccorso di imprese, quindi, non era una novità nel 1933. La vera rottura dell’Iri si ebbe su un fondamentale aspetto: mentre prima dell’Iri, i salvataggi industriali erano visti come un espediente temporaneo ed emergenziale, e la priorità assoluta, effettuato il salvataggio, era riconsegnare le aziende in mano privata[79], con l’Iri lo Stato si ritrovò per la prima volta a controllare una serie di industrie[80]. Inoltre, sia pur attraverso l’Iri, nel 1933 lo Stato intervenne direttamente nei salvataggi, mentre in precedenza essi solitamente avvenivano per mezzo della Banca d’Italia – che infatti si era ritrovata pericolosamente esposta[81].

Fu il controllo diretto da parte dello Stato di varie industrie a costituire dunque la più grande novità dell’Iri, che fu anche la più gravida di conseguenze. Lo Stato, nel Dopoguerra, divenne, anche grazie all’Iri, il principale attore economico italiano[82]. Tale elemento, peraltro, non è cambiato con la dismissione dell’Iri. Le varie privatizzazioni avvenute in Italia a partire dagli anni Novanta non hanno intaccato il ruolo centrale che lo Stato ha nel sistema economico: basti pensare che nel 2021, delle prime 20 aziende italiane per fatturato 7 erano sotto controllo pubblico[83].

L’onda lunga della fondazione dell’Iri e della sua trasformazione a ente permanente, insomma, è visibile ancora oggi nell’economia italiana.

 

Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it


Riferimenti bibliografici

[1] R.D.L. 23 gennaio 1933, n. 5, “Costituzione dell’’Istituto per la Ricostruzione Industriale’, con sede in Roma”, link: https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto (ultima consultazione 29/04/2023).

[2] Ivi, art. 1.

[3] V. Castronovo, Storia economica d’Italia: Dall’Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2006, p. 286.

[4] E. Del Ferraro, Il “take off” industriale italiano”, in “Policlic”, V(2020), link: https://www.policlic.it/il-take-off-industriale-italiano/ (ultima consultazione 01/05/2023).

[5] Il credito ordinario è un finanziamento, che può essere concesso sia a imprese che a persone fisiche private, a breve termine.

[6] Per credito mobiliare si intende il credito a “medio-lungo termine necessario alle imprese di varie tipologie per ampliamento e rinnovo di impianti e altri investimenti non recuperabili in un solo ciclo produttivo”. V.  voce Mobiliare, in Dizionario di Economia e Finanza, 2012, link: https://www.treccani.it/enciclopedia/mobiliare_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/#:~:text=Per%20credito%20m.,in%20un%20solo%20ciclo%20produttivo (ultima consultazione 04/06/2023).

[7] E. Del Ferraro, op. cit.

[8] V. Zamagni, Dalla periferia al centro: La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), Il Mulino, Bologna 1993, p. 381.

[9] V. Castronovo, Uno sguardo d’insieme, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI: dalle origini al dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 31.

[10] V. Zamagni, op. cit., p. 381.

[11] I Perrone, tra l’altro, avevano anche una posizione egemone all’interno dell’altra grande banca mista, la Banca Italiana di Sconto, completamente subordinata alle esigenze finanziarie dell’Ansaldo. Il tentativo di scalata della Comit serviva, all’Ansaldo, per reperire una quota maggiore di capitali, che la BIS non era più in grado di fornire. Ivi, pp. 299-300.

[12] A. M. Falchero, Stato e mercato, i precedenti: dall’interventismo ai salvataggi degli anni Venti, in V. Castronovo, Storia dell’IRI, cit., p. 108.

[13] V. Zamagni, op. cit., p. 300.

[14] A. M. Falchero, Stato e mercato, cit., p. 120.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 122.

[17] Ivi, p. 125.

[18] Ivi, p. 127.

[19] V. Zamagni, op. cit., p. 302.

[20] A. M. Falchero, Stato e mercato, cit., p. 127.

[21]V. Zamagni, op. cit., p. 302.

[22] A. M. Falchero, Stato e mercato, cit., p. 130.

[23] Ivi, p. 129.

[24] Ivi, pp. 128-130.

[25] Ivi, p. 132.

[26] F. Amatori e A. Colli, Impresa e industria in Italia: Dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 2014, pp. 137-138.

[27] La Sezione speciale autonoma del Consorzio era nata nel 1922 per finanziare le rate del concordato che la Banca Italiana di Sconto aveva stipulato con i creditori, non potendo lo Stato far fallire tutte le attività che afferivano alla BIS. La Sezione speciale autonoma era finanziata dalla Banca d’Italia attraverso l’emissione di nuove banconote. Ibidem.

[28] Il Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali era stato costituito nel 1914 da Bonaldo Stringher attraverso la partecipazione di istituiti di emissione, banche di diritto pubblico e casse di risparmio. Ibidem.

[29] Ibidem.

[30] Ivi, pp. 139-140.

[31] V. Zamagni, op. cit., p. 377.

[32] Ivi, p. 382.

[33] “Catoblepismo” è un termine coniato da Raffaele Mattioli, nel 1962, per indicare proprio la situazione di eccessiva compenetrazione tra il mondo imprenditoriale e quello bancario venutasi a creare in Italia alla vigilia della crisi degli anni Trenta. Link: https://www.bankpedia.org/index_voce.php?lingua=it&i_id=90&i_alias=c&c_id=23908-catoblepismo (ultima consultazione 04/06/2023).

[34] V. Zamagni, op. cit., p. 382.

[35] E. De Simone, Storia economia: Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, FrancoAngeli, Milano 2006, pp. 188-189.

[36] Ivi, p. 188.

[37] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 280.

[38] V. Castronovo, Uno sguardo d’insieme, cit., p. 22.

[39] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 283.

[40] A. M. Falchero, Crisi del «grande capitale» e crisi dell’economia italiana da «quota ’90» ai primi anni Trenta, in V. Castronovo, Uno sguardo d’insieme, cit. p. 176.

[41] Ivi, pp. 178-179.

[42] V. Zamagni, op. cit., p. 382.

[43] Si parla di immobilizzi quando “in seguito a decisioni strategiche, si assume l’impegno di investire risorse monetarie per un periodo medio-lungo. I capitali impiegati sono così destinati a rimanere immobilizzati durevolmente e l’eventuale loro smobilizzo non avviene di regola né prontamente né in modo conveniente”. Voce Immobilizzo, in Dizionario di Economia e Finanza, cit., link: https://www.treccani.it/enciclopedia/immobilizzo_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/ (ultima consultazione 04/06/2023).

[44] V. Zamagni, op. cit., p. 382.

[45] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 287.

[46] F. Amatori e A. Colli, op. cit., p. 183.

[47] L. Tedoldi, Storia dello Stato italiano: Dall’Unità al XXI secolo, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 143.

[48] Ivi, p. 144.

[49] Ibidem.

[50] Ivi, p. 143.

[51] V. Zamagni, op. cit., p. 384.

[52] G. Melis, La macchina imperfetta: Immagine e realtà dello Stato fascista, Il Mulino, Bologna 2018, p. 470.

[53] Ivi, p. 477.

[54] Ibidem.

[55] G. L. Podestà, Nell’economia fascista: autarchia, colonie, riarmo, in V. Castronovo, Storia dell’Iri, cit., p. 514.

[56] Per un quadro completo sulla vita di Beneduce, si veda F. Bonelli, voce BENEDUCE, Alberto, in “Dizionario biografico degli Italiani”, VIII (1966), link: https://www.treccani.it/enciclopedia/alberto-beneduce_(Dizionario-Biografico) (ultima consultazione 12/05/2023).

[57] P. Mieli, F. Cundari, L’Italia di Mussolini in 50 ritratti, Centauria, Milano 2020, p. 75.

[58] G. L. Podestà, op. cit., p. 528.

[59] G. Melis, op. cit., p. 477.

[60] F. Amatori e A. Colli, op. cit., p. 184.

[61] L. Tedoldi, op. cit., p. 145.

[62] V. Zamagni, op. cit., p. 385.

[63] L. D’Antone, Da ente transitorio a ente permanente, in V. Castronovo, Storia dell’Iri, cit., p. 250.

[64] Ivi, p. 235.

[65] Ibidem.

[66] V. Zamagni, op. cit., p. 386.

[67] L. D’Antone, op. cit., p. 252.

[68] Ibidem.

[69] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 296.

[70] L. D’Antone, op. cit., p. 241.

[71] Ivi, p. 242.

[72] Per approfondire si veda sulle due finanziarie si veda M. Doria, I trasporti marittimi, la siderurgia, in V. Castronovo, Storia dell’Iri, cit., pp. 397-510.

[73] F. Amatori, A. Colli, op. cit., p. 187.

[74] V. Castronovo, Uno sguardo d’insieme, cit., pp. 45-48.

[75] F. Amatori, A. Colli, op. cit., p. 185.

[76] Link: http://www.archiviostoricoiri.it/index/pagina-85.html (ultima consultazione 12/05/2023).

[77] F. Amatori, A. Colli, op. cit., pp. 44-45.

[78] Ivi, p. 47.

[79] J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano: 1820 – 1960, Il Mulino, Bologna 2001, p. 82.

[80] F. Amatori, A. Colli, op. cit., p. 182.

[81] J. Cohen, G. Federico, op. cit., p. 82.

[82] Per il ruolo dell’Iri nel Dopoguerra e nel boom economico si veda F. Amatori (a cura di), Storia dell’Iri: Il “miracolo” economico e il ruolo dell’Iri, Laterza, Bari-Roma 2013.

[83] C. De Blasi, Cos’è il neoliberismo… in Italia?, in “Liberioltreleillusioni”, 6/12/2022, link: https://www.liberioltreleillusioni.it/news/articolo/cose-il-neoliberismo-in-italia (ultima consultazione 13/05/2023).

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