L’Italia alla guida del prossimo summit del G20

L’Italia alla guida del prossimo summit del G20

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La necessità di affrontare crisi del tutto inaspettate ha contribuito non solo allo sviluppo di proposte innovative, ma soprattutto a pianificare soluzioni per le conflittualità che il mondo ha proposto agli attori presenti sul panorama internazionale quasi quotidianamente. La sfida al coronavirus è una di quelle in cui non è possibile utilizzare armi e metodologie non convenzionali. Contro il nemico invisibile, le armi sono cura, prevenzione e un accurato piano vaccinale di cui tutti i Paesi possano usufruire. In realtà, da circa un anno, si sta giocando una partita importante su questo tema, il cui esito rimane ancora incerto. Il dato certo è che la pandemia sarà il tema centrale dei due appuntamenti più attesi dell’anno: G7 e G20.

Il G7, composto da Regno Unito, Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Stati Uniti e Unione Europea, è l’unica sede in cui le società più influenti e aperte e le economie più avanzate al mondo si riuniscono per un confronto serrato e intenso su alcuni dei temi che dominano gli scenari internazionali. Nell’ultimo quarto di secolo, l’agenda dei temi in discussione al G7 si è allargata in misura significativa, per via dell’aumento delle sfide che le diplomazie europee e internazionali sono chiamate ad affrontare nel breve periodo.

Foto dei leader al 45º vertice del G7 svoltosi a Biarritz (Nuova Aquitania, Francia) dal 24 al 26 agosto 2019
Fonte: @Scavino45/ Twitter (fotografia di Dan Scavino Jr.)

Quest’anno il summit si terrà in condizioni del tutto diverse rispetto a quelle degli anni precedenti, dato che la pandemia ha costretto a ridurre drasticamente il numero degli incontri ufficiali tra i leader dei Paesi partecipanti. Il governo italiano si avvicina a uno degli eventi più importanti dell’anno dopo il cambio della guardia a Palazzo Chigi e l’arrivo dell’ex presidente della BCE Mario Draghi. Il nuovo premier ha deciso di improntare fin da subito il ruolo che il Paese intende ricoprire nella gestione dei lavori del G7, e di tessere il dialogo con i leader partecipanti in vista del G20 di Roma, forum in cui il tema dei vaccini sarà al centro del dibattito. Già nel corso del suo intervento al G7 virtuale di qualche settimana fa, il presidente del Consiglio italiano ha posto l’accento non solo sull’esigenza di riservare la massima attenzione ai cambiamenti climatici e alle biodiversità, la cui tutela è essenziale per prevenire future pandemie, ma soprattutto sulla proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres per istituire una task force di emergenza G20 volta a sviluppare un piano vaccinale globale. Per l’Italia, l’accesso equo, universale e di massa ai vaccini è un imperativo non negoziabile: la salute è un bene comune globale, un principio ispiratore anche dell’agenda della presidenza italiana del G20.

Del resto, come abbiamo visto nel periodo di piena pandemia, mai come oggi l’essere solidali vuol dire dimostrare una certa leadership anche nel dialogo con gli altri Paesi. La distribuzione dei vaccini fuori dai confini europei è inoltre una questione di influenza geopolitica sui partner strategici. L’impegno italiano nel G7 arriva in contemporanea a quello britannico, in un anno chiaramente cruciale per entrambi i Paesi. Vi è la necessità di riscrivere il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), ossia il documento che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia vuole realizzare con i fondi europei di Next Generation EU. Londra, invece, si dovrà gestire al meglio il primo anno dopo la Brexit, concretizzatasi definitivamente lo scorso 31 gennaio.

Il 2021 è un anno molto speciale per questi due attori internazionali: Italia e Regno Unito ospiteranno rispettivamente il prossimo G20 e G7. Due Paesi con voglia di rilancio che sono anche partner nell’organizzazione della COP26. È infatti il modello britannico quello a cui guarda l’Italia, e a cui fa riferimento quando prima Conte e poi Draghi invitano a imparare “da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate”. Del resto, secondo il premier italiano, la rapidità nella diffusione dei vaccini è essenziale anche per scongiurare l’eventualità che le varianti prendano il sopravvento proprio nel momento in cui si cerca di arginarle. Di certo, Draghi non si aspettava di dover fare i conti con la lentezza con cui l’UE si è mossa sul tema riguardante il reperimento delle dosi vaccinali, in virtù di accordi scricchiolanti con alcune case farmaceutiche, nonostante l’UE sia il più grande contributore netto del sistema COVAX. Il notevole sforzo economico – visto il finanziamento da 850 milioni di euro – non ha ottenuto per il momento i vantaggi desiderati, considerato che il piano di Bruxelles sta lentamente naufragando e con esso le sue ambizioni di diventare leader nella distribuzione dei vaccini nell’area extra-UE.


La prima volta di Mario Draghi e Joe Biden al G7: preludio alla creazione di una solida alleanza (non solo sui vaccini)

Il Primo Ministro italiano Mario Draghi
Fonte: Presidenza della Repubblica/Wikimedia Commons
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

L’incontro tra i leader politici del G7 era nato come una sorta di occasione di coordinamento informale per fare fronte alle prime grandi crisi che avevano colpito il sistema economico-finanziario internazionale. Tra le tappe fondamentali nella storia di questo meeting, possiamo citare il crollo del sistema di Bretton Woods nel 1971 e la crisi energetica del 1973. Il ruolo del G7 si è preservato nel tempo e i meeting sono rimasti un momento di incontro annuale tra i leader delle maggiori potenze occidentali. Negli anni, il G7 è divenuto il simbolo del momento di incontro delle maggiori potenze internazionali per prendere importanti decisioni e lanciare nuove proposte. Nel contesto attuale, la salute sarà al centro non solo dell’impegno internazionale ormai imminente, ma anche del prossimo Global Health Summit di Roma, votato alla definizione di una strategia comune mondiale per il reperimento delle dosi vaccinali. Quanto fatto sinora da tutti i Paesi, ovvero mitigare le conseguenze immediate della crisi sociale con politiche espansive, deve essere integrato con un’efficace campagna vaccinale, necessaria per stabilizzare l’attuale tendenza che sta assumendo la pandemia globale ed evitare ulteriori mutazioni del virus. Su questa linea si è mosso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha messo in piedi un maxi-piano di aiuti all’economia da 1.900 miliardi di dollari, con il quale dare ulteriori stimoli e accelerare la ripresa, cercando al contempo di sanare ferite e diseguaglianze sociali aggravate da una lunga crisi da pandemia.

L’American Rescue Plan prevede l’organizzazione di un programma di vaccinazione nazionale, il contenimento della COVID-19 e la riapertura delle scuole in modo sicuro. L’idea è quella di istituire siti di vaccinazione a livello nazionale, aumentando i test e la tracciabilità, investendo in trattamenti di alta qualità e fornendo congedi per malattia retribuiti per contenere la diffusione del virus. Il modo in cui il piano del governo americano si è sviluppato nei punti evidenziati si differenzia ben poco – in termini di interventi – dal nuovo piano vaccinale che Mario Draghi ha presentato nel corso della visita all’hub vaccinale di Fiumicino. In tale occasione, Draghi ha ricordato che soltanto con una vaccinazione diffusa si potrà fare a meno delle restrizioni adottate finora. Oltre alle premesse enunciate nel corso del suo intervento, Draghi ha sottolineato la necessità che le aziende produttrici di vaccini facciano la loro parte, dato che l’Unione Europea ha preso degli impegni chiari con le case farmaceutiche ed è necessario assumere delle decisioni forti in caso di ritardi nelle consegne.

All’ex premier Giuseppe Conte va riconosciuto il successo nel negoziato con le istituzioni europee riguardo al Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), lo stop al Patto di Stabilità, la flessibilità sugli aiuti statali, il piano della BEI e la possibilità di accedere al MES fino al 2% del PIL senza ricorrere a un programma di rigorose correzioni macroeconomiche. Al premier Mario Draghi, d’altra parte, andrebbe riconosciuta l’incisività della sua azione nel comunicare al presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen l’immotivato ritardo dell’Europa nella ricezione e nella somministrazione delle dosi vaccinali, che sta rallentando la vaccinazione di massa a cui quasi tutti i Paesi membri aspirano. Un tasto dolente che Draghi sta affrontando sin dal suo insediamento e che ha portato alla rimozione del commissario Arcuri, reo di aver fallito su più fronti e in particolare sul piano delle vaccinazioni.

Draghi e la presidente della Commissione europea hanno mostrato una convergenza d’interessi circa l’urgenza di fornire una risposta sanitaria concreta ai cittadini europei, cercando di accelerare sull’acquisto di dosi, sulla distribuzione e sulle somministrazioni delle stesse. Il richiamo di Draghi alla Commissione europea ha prodotto i suoi effetti qualche giorno fa. Infatti, lEuropean Medicines Agency (EMA) ha approvato il vaccino anti COVID a singola dose della multinazionale farmaceutica statunitense Johnson & Johnson, ritenendo il suo impiego efficace e sicuro per tutte le persone al di sopra dei diciotto anni. La decisione dell’EMA spiana la strada al via libera della Commissione europea per la commercializzazione del farmaco, che sarebbe il quarto approvato dall’Unione Europea, dopo quelli di Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca. Il G7 potrebbe dunque costituire l’opportunità, per i due “esordienti” Biden e Draghi, di gettare le basi per l’apertura dei confini UE all’acquisizione di dosi vaccinali da altri colossi farmaceutici.

Oltre al reperimento e alla distribuzione di vaccini, è chiaro che entrambi i Paesi cercheranno delle sponde per altri temi al centro delle loro agende politiche. Fin dalle prime battute, il presidente Biden è parso chiaramente intenzionato a ripristinare i rapporti con l’UE e altri Paesi membri del G7, con cui Trump aveva imbastito una serie di querelle al limite dell’incedente diplomatico. Per capire le reali intenzioni di un Paese, bisogna partire quasi sempre dalle strategie in politica estera che esso vuole mettere in atto. In questo senso, sembra che gli Stati Uniti vogliano tornare a giocare un ruolo di primo piano sia nei contesti geopolitici da cui si sono temporaneamente assentati (Libia e Siria in primis) sia in altri ambiti in cui Trump ha manifestato tutta la sua debolezza – in particolare il rapporto con Pechino e Mosca, su cui Joe Biden, invece, non vuole farsi cogliere impreparato.


Il G7 per riscoprire democrazia e multilateralismo

Logo G7 UK 2021. Fonte: G7/Facebook

Nel G7 virtuale svoltosi nelle scorse settimane sono state gettate le basi per un confronto sul momento critico per le democrazie occidentali. Nei giorni scorsi, si è parlato dell’ipotesi che dietro alla decisione del premier britannico Boris Johnson di coinvolgere India, Corea del Sud e Australia nel forum del progetto Democracies 10, previsto per il prossimo 11-13 giugno a Carbis Bay, ci sia la volontà di creare un’alleanza in chiave anti-cinese.

Già dal suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, il presidente Biden ha fatto intendere la sua volontà di indire un vertice internazionale per la democrazia con l’obiettivo di rimettere in discussione la questione democratica mondiale, in un anno in cui la maggior parte dei leader è impegnata nella gestione della pandemia e della recessione economica globale. Nel frattempo, a poche settimane dal G7, a tenere banco è l’iniziativa del governo britannico, che ha raccolto il placet dello stesso Biden. Il presidente americano non ha intenzione di rinunciare alla sfida lanciata dalla Cina riguardo alla distribuzione dei vaccini in quei Paesi ancora privi di dosi, riservandosi anche l’occasione di stuzzicare il rivale asiatico accogliendo nei tavoli del G7 India, Corea del Sud e Australia.

Biden è intenzionato a contrastare l’ennesimo tentativo della Cina di estendere il proprio soft power anche sulla corsa ai vaccini. La Cina, infatti, ha colto l’occasione per espandere la sua già imponente influenza sull’Africa e sul Sud-Est asiatico, consegnando i farmaci di sua produzione a nazioni che diversamente non avrebbero avuto alternative immediate. È chiaro che si sia entrati in una fase in cui la cosiddetta “diplomazia dei vaccini” (così battezzata dai media italiani, come “Internazionale” e “Il Sole 24 Ore”) ha dei chiari riflessi anche su questioni di natura politica e geopolitica: nelle ultime settimane, infatti, l’amministrazione Biden ha condannato a più riprese l’oppressione di chi promuove i valori democratici e difende i diritti e le libertà a Hong Kong.

Mentre in Europa si continua a discutere dell’efficacia della somministrazione del vaccino AstraZeneca, che ha da poco ricevuto il via libera dell’EMA, la Cina, con il vaccino prodotto dalla Sinopharm, ha da tempo iniziato a effettuare test in Pakistan e in Perù. Ha inoltre deciso di autorizzare la somministrazione nei Paesi del Golfo Persico, tra i principali fornitori di petrolio alla Cina, per i quali Pechino ha dimostrato di essere un alleato credibile. L’influenza cinese ha trovato terreno fertile in Brasile, Cile, Peru, Argentina, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Turchia, rischiando di ottenere grossi vantaggi in termini di competizione economica e geopolitica in alcune zone del mondo. Vi è la possibilità che i leader del G7 possano replicare alla diplomazia dei vaccini mettendo sul tavolo la vicenda di Hong Kong, nonché la morsa di Pechino sulla comunità uigura dello Xinjang; recentemente, infatti, il parlamento canadese ha presentato una mozione con cui il governo di Justin Trudeau condanna il genocidio che Pechino ha perpetrato in questo territorio con l’alibi della lotta al terrorismo.

Tutto questo è in atto, mentre Paesi come l’Italia, che più di tutti si fanno difensori e promotori dei princìpi legati alle libertà inalienabili dell’essere umano, “si muovono timidi nei confronti di un gigante economico che si sta sempre di più aprendo ai mercati d’Occidente”. La sensazione è che la questione dovrà prima o poi essere affrontata apertamente da Pechino, perché le pressioni della società civile verso i singoli governi in Occidente sono forti. Come sottolinea Jane Kinninmont, del think-tank European Leadership Network, “ci sarà una linea sottile da percorrere tra la difesa della democrazia e la necessità di trovare modi per trattare con le grandi potenze governate da leader autoritari, in particolare Cina e Russia, su questioni che vanno dalla risposta alla pandemia al controllo degli armamenti nucleari”.

Il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.
Fonte: Kremlin.ru/Wikimedia Commons

A tal proposito, sembra scontata l’assenza della Russia: a differenza degli anni dell’amministrazione Trump, in cui l’ex presidente aveva manifestato la volontà di invitare Putin al G7, coinvolgendo anche gli altri alleati, Biden rimane fermo nella decisione di non coinvolgere la Russia nel forum.

A giudicare dal botta e risposta degli scorsi giorni, la presidenza Biden sembra intenzionata a riproporre il caro vecchio “pugno di ferro”, che ha contraddistinto il difficile rapporto tra le due superpotenze dalla fine della Seconda guerra mondiale. Clima da Guerra fredda a parte, è chiaro che il dualismo tra USA e Russia scriverà altre pagine di storia già nelle prossime settimane e avrà delle ripercussioni nei rapporti tra Biden e Putin. Il parere espresso da Joe Biden sulla figura di Vladimir Putin ha come riferimento i diversi casi di personaggi scomodi assassinati in Russia, dalla giornalista Anna Politkovskaja al leader dell’opposizione Boris Nemtsov, fino ad Aleksej Navalny, tra i più noti critici del presidente russo e vittima di un tentativo di avvelenamento lo scorso 20 agosto 2020.

Nonostante lo stesso Putin abbia teso la mano a Biden per discutere delle relazioni bilaterali e delle costanti e – secondo lui – infondate accuse lanciate contro la Russia, il presidente americano sembra deciso a seguire la linea tracciata nel corso di queste settimane. Ciò segna una profonda spaccatura nel rapporto tra i due leader, la quale arriva con preoccupante anticipo, considerando che l’amministrazione Biden sta muovendo i suoi primi passi sulla scena politica internazionale. Dietro le frasi accusatorie pronunciate da Biden, vi è un chiaro messaggio agli alleati europei che in passato hanno manifestato interesse verso la possibilità di un maggior dialogo con la Russia.

Tuttavia, la possibilità che gli europei possano modificare la propria linea politica su Mosca deriva dal fatto che ci sono molti temi su cui UE e Russia condividono interessi e preoccupazioni: la Russia ha giocato un ruolo decisivo nei negoziati per l’accordo sul nucleare con l’Iran; sia Mosca che Bruxelles auspicano la soluzione del conflitto israelo-palestinese ed entrambe sono firmatarie dell’accordo di Parigi sul clima; infine, l’UE è ancora il maggior partner commerciale e di investimento per Mosca.

È però anche importante sottolineare come alla prima accusa di Biden sul caso Navalny, il Parlamento europeo abbia risposto con il rafforzamento delle sanzioni contro la Russia, oltre a richiedere il rilascio immediato e incondizionato dell’oppositore russo e di tutte le persone fermate in occasione del suo rientro a Mosca. La forte presa di posizione di Biden è un’ulteriore conferma del fatto che il presidente americano vuole ripartire dagli errori commessi dalla precedente amministrazione, la quale ha lasciato ampio raggio d’azione a Mosca sul versante mediorientale e nordafricano. In questo scenario, gli Stati Uniti sono stati considerati assenti ingiustificati da molti analisti. Per l’Italia, sarà essenziale uscire dalle ambiguità e dalle difficoltà di prendere posizione su temi così importanti. L’insediamento di una figura di spessore internazionale come Mario Draghi lascia presagire che ci siano tutti i presupposti per un cambio di direzione, anche su questioni in cui la politica e la diplomazia italiana si sono spesso astenute dall’esprimere messaggi incisivi.


Buoni propositi per il G20 di Roma: porre l’accento sul passato per definire il proprio ruolo nello scacchiere internazionale

Un passaggio della sessione di lavoro dei leader del G7 nell’incontro organizzato a La Malbaie (Canada) dall’8 al 9 Giugno 2018
Fonte: Trump White House Archived/Flickr (fotografia di Shealah Craighead)

Durante la sua presidenza, Donald Trump ha invitato i membri del G7 a reintegrare la Russia nel gruppo e ha incolpato il suo predecessore, in parte, dell’aggressione del presidente russo Vladimir Putin in Crimea e Ucraina. Motivo per cui il forum era stato ridotto a G7 nel 2014 ed erano state introdotte una serie di sanzioni contro Mosca. La presenza di Joe Biden cambia radicalmente il volto degli USA e può essere una sponda importante per il governo italiano, il quale dovrà utilizzare al meglio gli spunti forniti dal G7 a trazione britannica per delineare l’agenda che porterà al G20 di Roma.

Oltre alla volontà statunitense di tornare protagonista in alcuni scenari internazionali, l’Italia deve sfruttare al meglio l’immagine e le capacità che il capo del nuovo esecutivo può mettere a disposizione del tavolo negoziale in cui sono riuniti i maggiori leader mondiali. La crisi politica in Italia è stata risolta con la decisione del presidente della Repubblica di affidare a Mario Draghi il posto di Giuseppe Conte alla guida del Paese. Tale iniziativa ha un duplice significato: da un lato la necessità di istituire un nuovo piano vaccinale per trainare il Paese fuori da una drammatica situazione sanitaria ed economica; dall’altra parte, la storia di Mario Draghi è di per sé garanzia di successo e attribuisce una caratura diversa al Paese nei diversi ambiti politici ed economici in cui sarà impegnato nel breve periodo. Nei prossimi quattro mesi, l’Italia dovrà necessariamente trovare la sua collocazione nella nuova conformazione multilaterale che sta iniziando a palesarsi con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden.

Sul piano internazionale, il governo italiano può far breccia nell’agenda del presidente degli Stati Uniti, visti i discreti risultati ottenuti nelle sue brevi ma intense campagne in Libia, in cui gli Stati Uniti di Trump non sono pervenuti. Da questo punto, Roma può svestire i panni dell’outsider in una sfida che ha come comune denominatore la ripartizione delle risorse petrolifere attualmente controllate dal generale Haftar – oltre al dialogo con il nuovo governo libico – e cercare di contribuire proficuamente a una soluzione compatibile con le ambizioni di tutti gli altri attori chiamati al tavolo dei negoziati. Questa è una sfida che il governo italiano non deve assolutamente trascurare, visto che gli Stati Uniti torneranno sicuramente protagonisti anche in Medio Oriente. In breve, non deve pregiudicare ciò che di buono è stato fatto di recente in alcune aree geografiche: questo è e deve essere uno degli assi che il governo italiano può portare al tavolo del G7, in previsione dell’appuntamento più importante, ovvero il G20 del prossimo giugno nella capitale d’Italia.

Kevin Gerry Cafà per www.policlic.it

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