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Dall’inizio della pandemia scatenata dalla COVID-19, molto è stato scritto sull’effetto che il virus ha avuto sui media mondiali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha parlato apertamente di infodemia, utilizzando il termine per descrivere le teorie del complotto e le cure “miracolose” diffuse in Cina dall’esplosione della crisi. Su StatNews, John Gregory ha spiegato come l’infodemia abbia generato risultati assolutamente rilevanti, come l’engagement di 2.1 milioni di utenti generato dall’ipotesi che COVID-19 fosse un’arma biologica. Nello stesso periodo, gli americani Centers for Disease Control (CDC) contavano solo 175mila engagement. Il sito dell’OMS, solo 25mila.
Questa reazione dell’infosfera non risulta affatto anomala, considerando l’allineamento delle fonti di informazione sulla COVID. La galassia della disinformazione non ha fatto altro che inserirsi nel monolite offerto da media e istituzioni. D’altra parte, però, è anche vero che l’epidemia opera il suo esercizio di pressione lungo numerose linee di faglia della società, alimentando le tensioni che la convivenza tendeva a sopire.
Diverse sono le fonti dell’incertezza epidemica:
- Liquidità: dove troverò il denaro per vivere?
- Beni/servizi: dove troverò ciò di cui ho bisogno?
- Normativa: cosa posso e non posso fare?
L’incertezza di questi tre fattori opera inoltre in una comunità frastagliata e permeata continuamente da almeno quattro linee di faglia:
- Il nemico esterno: perché gli altri Stati non ci aiutano?
- Il nemico interno: perché le altre persone non rispettano le regole?
- Il nemico sé: sarò infetto/a?
- Il nemico invisibile: il virus è intorno a me?
Sembra chiaro come le fonti di incertezza siano affrontate con maggiore difficoltà, tanto sono profonde le prime tre linee di faglia; altrettanto fondato sembra il ragionamento che vuole l’ultima faglia – il nemico invisibile – come l’innesco delle prime tre. Se nemici e incertezze sono gli esplosivi dell’estraneazione sociale, il virus è dunque la carica che li fa esplodere.
Si entra qui in un mondo perfetto per ospitare metafore. Scrive Battistelli:
Di fronte a fenomeni che non si conoscono, o si conoscono soltanto in parte, questa razionalità limitata si sforza di colmare il divario tra ciò che si sa e ciò che si ignora attivando strumenti tecnicamente definiti “euristici”, cioè di avanscoperta … il più comune di essi è la metafora. Se devo relazionarmi a uno sconosciuto, per capire che tipo è chiedo un parere a un amico […]. La risposta dell’amico “quell’uomo è un lupo” […] è un elemento di giudizio. Fornisce un’approssimazione, imperfetta ma immediatamente disponibile, circa la natura di quell’uomo che non conosco.
I giornali divengono qui un elemento estremamente sensibile, perché sono creatori di metafore politiche proprie o portatori di quelle delle istituzioni. Non solo, però. Nella limitazione del diritto di circolare e riunirsi della cittadinanza, sono anche gli unici veri detentori del controllo democratico del territorio altrimenti liberamente esercitato dai cittadini. Se gli analisti possono delineare i fenomeni di larga scala, i cronisti possono battere città e paesi e riportare alla società eventi che sono altrimenti esclusi dall’occhio pubblico.
Lo stato di guerra
I giornali, di converso, sono stati per diverse settimane oggetto di una precisa metafora del virus, quella della guerra. Una metafora individuata da Daniele Cassandro nel linguaggio della “trincea negli ospedali, … fronte del virus, … economia di guerra”. Con lui concorda di nuovo Battistelli, trovando in questa metafora la più ovvia:
Pochi altri fenomeni come la guerra, infatti, includono significati […] evocati da un fenomeno grave come la pandemia generata dal Corona virus. Dal punto di vista sociologico la metafora bellica emergeva già in riferimento a un’emergenza sanitaria che presenta impressionanti analogie con quella attuale: l’epidemia di Sars del 2003 (Galantino 2000). Era solo questione di tempo […].
Di guerra parlano politici come Zaia, Toti e Gallera, Salvini, Crimi, Meloni e Casini, ma anche gli imprenditori Preziosa e Pasini e il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) Walter Ricciardi. Ne parlano scienziati come Burioni, ma anche la politica internazionale, da Draghi a Tajani, da Boris Johnson a Emmanuel Macron.
La terminologia militare era in fondo già endemica nel mondo clinico (spesso utilizzata per malattie come il cancro). Il suo scopo è la mobilitazione sia di medici, pazienti, famiglie, sia di cittadini e amministratori. Questo potere solidaristico, però, si scontra pesantemente con i suoi effetti collaterali, in primis, quello di legare strettamente il destino del paziente alle sue “virtù di guerriero”, invece che alla qualità delle cure. Inoltre, la metafora della guerra, dopando la reazione psicologica al virus, ne diminuisce la lucidità. La metafora ci dice chi è il nemico, riconnettendoci tramite gli esempi di eroismo al fronte e alla storia nazionale, ma ci porta a non valutare i costi e i risultati. In una guerra
niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni sfumatura perde di significato e tutto diventa bianco o nero […]. Persino nella quotidianità delle nostre nuove vite non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina marziale.
Risulta innegabile, dunque, quanto affermato da Matteo Pascoletti: “la guerra è uno stato di eccezionalità che incide sul tessuto democratico”. Questo è un punto chiave che giova ripetere: mantenere alta la pressione sulla tenuta degli istituti democratici, di fronte alla parziale sospensione di diritti centrali nella nostra Costituzione, non è solo necessario, ma sarà uno degli elementi fondanti dell’Italia post-coronavirus. Il rischio, dall’altra parte, è quella che è stata definita “isteresi sociale e politica”, una deformazione scatenata dalle tensioni causate dal virus e non più riassorbita. La mancanza di flessibilità nel ritorno alla normalità, viene da pensare, deriverà da quanto saremo capaci di riconoscere il coronavirus come un problema safety, derivato da fattori naturali solo parzialmente influenzati dall’uomo, e non security, un effetto della volontà di qualcuno. Quello epidemico è infatti un pericolo, non una minaccia.
Information overload e il nemico alle porte
L’isteresi di cui si accennava si mescola con quanto spiegato in un recente studio di Harvard proprio relativo al coronavirus in Italia. Lo studio parla di information overload, spiegando l’inutilità di ulteriori informazioni nel modificare i comportamenti di cittadini già coscienti delle norme da seguire. Infatti, la COVID è stata l’unica tematica capace, negli ultimi trent’anni, di monopolizzare giornali, telegiornali, radio e social network. Risulta molto difficile, dunque, valutarne gli effetti in termini psicologici, navigando “in acque sconosciute”. La percepibile ansia collettiva arriva in seguito alla volontà di negare il cambiamento già in corso.
Da questa situazione di tensione, l’ansia sfoga dove riesce a trovare terreno fertile. Non è casuale, dunque, che in prima battuta essa abbia seguito la consolidata via del “nemico straniero” o della “Big Pharma”. Sappiamo della lotta ideologica portata avanti dal governo americano nel voler ridefinire il virus come “virus cinese” o “virus di Wuhan”. Non diversa l’ipotesi molto ripresa in Italia che voleva la COVID come arma biologica o la paura russa – non totalmente infondata – in occasione della presenza militare di Mosca in Italia. Storicamente, l’epidemia è sempre un morbo che proviene da altrove. Non sorprende dunque che si cerchi l’untore anche internamente.
L’untore è in fondo un disertore dell’epidemia e, dunque, mentre si serrano i ranghi, la guerra alla COVID ha già puntato a forme di nemico interno. È tramite questi veicoli di contagio che sulla malattia si invoca lo stigma: “come un marchio d’infamia, il contagio svela e castiga la trasgressione, l’indecenza, l’immoralità”. Se il nemico è invisibile, bisogna individuarlo e renderlo riconoscibile. Dunque, se non posso trovare il virus, posso trovare gli untori, e per individuarli facilmente devo trovare indicatori inequivocabili: vestiario da runner e buste della spesa troppo vuote (o troppo piene). Entrare in conflitto necessità di strumenti di certezza. Quindi gli indicatori rispondono alla necessità di rendere riconoscibile il male. Inoltre viene minimizzato il rischio che il moralizzatore, dichiarando in pubblico un individuo come untore, finisca per sbagliare bersaglio, danneggiandosi.
Il risultato è quello spaventoso della ulteriore deflagrazione di un tessuto sociale già costretto alla separazione dei corpi. Si perde la consapevolezza degli obiettivi comuni, per dare campo alla delazione di massa. I cittadini possono così scaricare tra di loro le paure e la rabbia dell’isolamento, causando focolai di violenza e certamente alimentando l’umiliazione pubblica che accompagna l’epidemia. La lotta per il controllo paritario da parte dei cittadini può così agire dove non arriva l’ospedalizzazione, già di per sé strumento classico di massimo controllo dei corpi e oggi frontiera della lotta alla COVID. Mentre alcuni cittadini ottengono i distintivi degli untori, altri il passaporto di malati. Un esempio di studio è quello offerto da Lodovico Poletto in un articolo che non potrebbe far peggio nel rappresentare l’Italia già eccitata all’idea di un governo militare: “Ecco questa è la Torino a due velocità: rigorosa e sfrontata nel trasgredire. Attenta e menefreghista”. Bisognerebbe aiutare le persone a capire, invece di umiliarle come stiamo spesso facendo. Ma piace troppo l’idea di vedere gli altri manganellati.
La tenuta istituzionale, le politiche di Governo e le Regioni
Visto quanto detto, il Governo deve muoversi in uno scenario estremamente delicato. Innanzitutto, sappiamo che il Governo deve agire all’interno dell’ordinamento, tenendo conto del diritto vigente. Ma come rispondere, quando l’eccezione ha fatto saltare ogni regola?
Sappiamo oggi, da dichiarazioni del Governo, che l’excursus normativo nasce nel Nord Italia, con la dichiarazione dell’emergenza nazionale il 31 gennaio, qualche settimana dopo il primo caso identificato a Codogno. Le prime misure nazionali prendono il via con il DPCM 1 marzo 2020. Le dichiarazioni alla stampa sono però ancora estemporanee, in alcuni casi “di volata”, segno della difficoltà del momento, ma anche di problematiche emerse più tardi. È il caso del DPCM 4 marzo 2020, il decreto con il quale iniziano le prime vere norme di distanziamento sociale. La situazione però accelera, ed ecco che l’8 marzo le zone rosse sono estese a livello regionale. È in questo frangente che si inceppa il meccanismo tra emanazione dei decreti e comunicati stampa. Un testo di bozza viene passato ai giornali e quindi Conte è costretto a spiegare: parla di due zone, una con misure restrittive più rigorose dell’altra. La “zona rossa”, di fatto, non esiste più.
Qui la comunicazione politica è studiata nei dettagli, introducendo alcuni elementi politici chiave della gestione di questa emergenza. Conte sottolinea la volontà del governo di agire in maniera trasparente, chiedendo ai cittadini di avere fiducia, sottolineando al contempo che alcune libertà non è più possibile permettercele. Da parte sua, il Governo afferma le proprie prerogative: “lavoriamo con tutte le cognizioni scientifiche che ci forniscono i nostri esperti […] e da lì noi maturiamo la base per assumere le decisioni. Ci assumiamo tutta la responsabilità politica di queste decisioni”. Potrà sembrare una dichiarazione di poco conto, ma è un’indicazione precisa del ruolo del potere politico all’interno di una democrazia: essere supportato da evidenze tecniche e scientifiche, ma mantenere su di sé la responsabilità e il diritto di prendere decisioni.
Nel frattempo, però, il danno è già fatto. A Milano si è consumata la storica “fuga dalla Stazione Centrale”. Soprattutto, il contagio non è ormai solo regionale: con il DPCM 9 marzo 2020, le misure ormai testate al Nord vengono estese in tutta l’Italia. L’urgenza è anch’essa nella comunicazione del Governo: tempo non ce n’è, dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa, perché se non lo faremo, non ce la faremo. Nasce #iorestoacasa. L’Italia – anche qui le parole sono essenziali – è “zona protetta”. Per la prima volta, Conte usa un termine bellico: i medici sono in trincea.
Le limitazioni alla libertà personale sono così arrivate in tutto il Paese. Manca però l’economia. E infatti l’11 marzo viene emanato un nuovo decreto, con lo scopo di sospendere le attività di vendita al dettaglio e di ristorazione. Di nuovo, Conte interviene con una dichiarazione: non servono corse agli alimenti. Usa di nuovo un termine bellico, parlando di “battaglia contro la pandemia”, ma sottolinea: i risultati non si possono vedere già da subito, quindi dobbiamo evitare “corse verso il baratro”, aumentando necessariamente le misure. È un altro passaggio importante, perché mirato a stabilizzare: un’epidemia non si risolve brutalizzando i diritti e uccidendo il Paese assieme al virus.
Il Paese, però, se non morto, inizia ad annaspare. Arriva così il decreto “Cura Italia”, la prima iniezione di liquidità nel sistema economico. Emergono tuttavia altri elementi. Con DL 17 marzo 2020, il commissario straordinario all’emergenza è autorizzato alla requisizione in uso di immobili, mentre l’esercito è autorizzato all’arruolamento eccezionale volontario di un anno, e le strutture di sanità militare sono potenziate. Nei giorni seguenti, con DPCM 22 Marzo 2020, vengono chiuse le attività produttive non essenziali, in quello che Conte definisce un rallentamento del motore produttivo del Paese. È una misura estremamente rilevante, perché colpisce in maniera ancora più capillare l’economia italiana. L’emergenza sanitaria, ammette Conte, si sta trasformando in emergenza economica, ma “non abbiamo alternative”.
Emergono in questi giorni tre altri attori: prefetture, Parlamento e sindaci. I prefetti, rispondendo direttamente al Governo, sono chiamati a vigilare sull’effettiva ottemperanza delle attività produttive. Il Parlamento, d’altra parte, è coinvolto con informativa alle Camere, realizzando un primo dialogo, pur limitato.
Il Presidente del Consiglio rivendica qui la mancanza di una disciplina per la trattazione di crisi tanto profonde, spiegando l’uso del DPCM come strumento garante della collaborazione con Regioni, associazioni di categoria e sindacati. Conte indica di voler inviare immediatamente i futuri provvedimenti ai presidenti delle Camere e riferire al Parlamento ogni due settimane. Infine, dato che la situazione economica rischia di esplodere, il 29 marzo ai sindaci viene concessa liquidità per 400 milioni, per provvedere con buoni spesa, mentre 4,3 miliardi vengono immessi sul fondo di solidarietà comunale.
È così che si chiude l’excursus, sulla linea economica. Mentre Conte estende le misure parlando di nuovo di “nemico invisibile”, con il DL 6 aprile 2020 il Governo offre garanzia di stato su 200 miliardi concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti; intanto ulteriori misure vengono dichiarate per la continuità aziendale e vengono sospesi IVA, ritenute e contributi.
Nell’excursus, però, si apre un problema: le Regioni?
Queste, infatti, non sono state ferme, dando vita a una massiccia produzione di misure e chiarimenti. Le Regioni rimangono in gran parte esecutrici delle normative disposte dal Governo, ma se quelle del Nord, per motivi di urgenza, seguono la stessa falsariga, si notano già difformità con la diffusione del virus nel Centro-Sud. Se si scende al livello comunale, l’enorme complessità normativa risulta ancora più evidente. Al di là di questo, però, la complessità lascia spazio anche ad altro. L’apertura concessa alle Regioni sull’imposizione di misure ancora più restrittive, seppur sotto il coordinamento del Governo, non apre solo a quello che è stato definito il “caos mascherine”, ma anche a pressioni affinché la gestione della salute pubblica e dell’ordine pubblico venga presa in mano dalle Regioni, in particolare quelle a statuto speciale. Tra i vari scogli di questa navigazione, dovremo far attenzione non solo ai colonnelli, ma anche agli sceriffi.
Le politiche emergenziali
Le difficoltà governative nell’affrontare l’emergenza sono spiegate bene da Raffaele Alberto Ventura: “la Costituzione non è in grado di regolamentare con precisione il ricorso alla decretazione d’urgenza: non può definire le condizioni di straordinarietà perché non può prevederle”. È, in fondo, ciò che distingue la normale amministrazione dalla gestione delle crisi: il saltare degli schemi preposti al normale funzionamento di un sistema, in favore di una gestione estemporanea, creativa, ma imprecisa. L’Italia è poi culturalmente abituata alla trasformazione di tutto in emergenza; ma è proprio questo ad aver eroso le risorse infrastrutturali, finanziarie, etiche e politiche affinché l’arrivo della “vera emergenza” non finisse per spazzare via ogni cosa. In mancanza di solide barriere contro la marea, lo tsunami ha inondato la terraferma.
Non sorprende che, in uno scenario normativo e strutturale già deficitario, siano intervenute prima una comprensibile iperproduzione normativa, poi una pericolosa corsa a punizioni più severe. Lo stesso governo ha incrementato le sanzioni da 400 a 3000 euro, creando lo scenario perfetto per il fallimento di ogni prevenzione: punire più duramente, perché si ha la sensazione di perdere il controllo. Non a caso, proprio nella volontà di controllo è convogliata l’invocazione del modello cinese, nonostante questo sia incasellato in una struttura istituzionale lesiva dei diritti. Il modello più vicino alla “via europea alla privacy” è incardinato sulla potenza computazionale di Google e Apple, che però non manca di presentare un conto. L’autoritarismo, spiega Joseph Cannataci, nasce spesso per far fronte a una minaccia.
Sistemi fuori controllo
È così che si manifesta l’isteresi, nella generazione del rischio zero: “la generazione del Vietato Vietare e della guerra al patriarcato si consegna con zelo militare ai professionisti del divieto […] pronta a sacrificare ogni pensiero critico alla promessa (impossibile) dell’eliminazione del rischio”. Con precise conseguenze. I sistemi possono caratterizzarsi come autostabilizzanti o instabili: si stabilizzano se portano alla concatenazione di eventi che si mitigano a vicenda.
Una scarsa comprensione della nostra necessità di convivere con il rischio, bilanciando diritti e libertà, non fa altro che creare un sistema profondamente instabile, modellabile come segue:
- I cittadini chiedono misure più restrittive;
- Aumenta la sicurezza percepita, diminuisce la libertà;
- Le misure non portano a una diminuzione sostanziale del contagio;
- Diminuisce la sicurezza percepita e aumenta il disagio economico;
- I cittadini chiedono misure più restrittive.
È così che ci ritroviamo senza una fase di collegamento tra l’entusiasmo dei balconi e la via di diminuzione delle restrizioni. Dove dovrebbe persistere una comunicazione volta a rendere la quarantena più vivibile, si crea invece un vuoto dove l’effetto depressivo dell’isolamento si trasforma in una pericolosa oscillazione tra violenza autoinflitta e conflitto sociale. Piombiamo in uno stato che molto somiglia all’autolesionismo sanguinario degli animali in cattività.
“Mandate l’esercito”
Se il conflitto sociale è imbevuto nella narrativa della guerra, non è troppo strano che molti cittadini abbiano richiesto l’intervento dell’esercito, finendo per allineare l’intera vita del Paese sulla scelta tra vita e libertà. È l’emergenza di una cultura totalitaria diffusa, anche se non equamente tra destra e sinistra, come sostenuto da Flavia Perina. Da questo punto di vista, il Governo si è mosso in maniera eccellente, offrendo garanzie contro un pericolo reale e terribile. Conte stesso ha delineato perfettamente la differenza tra ordine pubblico e difesa militare:
Quindi assolutamente ben venga anche l’aiuto dell’esercito, però i cittadini non devono pensare che la tenuta dell’ordine pubblico debba essere solo ed esclusivamente affidata a un’immagine di militarizzazione dei centri abitati.
Permane però l’infatuazione per l’autoritarismo, ancor più oggi che servono misure rapide ed efficaci. Termometro ne può essere l’ennesima dichiarazione fuori luogo dell’ex comandante Alfa.
In un post, si spingeva alle ovvie conseguenze dello stato di guerra: “i decreti non servono più a nulla”, “chiudete tutto, lasciando aperti i servizi essenziali per la sopravvivenza… Schierate l’esercito, istituite il coprifuoco, chiudete i confini, i porti, sigillate il nostro paese”.
Il post, che ha ricevuto 11mila mi piace, è stato ripreso da schiere di giornali. Che il tono fosse vagamente eversivo non sembra però una semplice considerazione dell’autore. A rispondere è stato infatti proprio il Ministro della Difesa Guerini:
[Sono parole] gravissime e inaudite e che condanno con tutta forza, pur se pronunciate da chi è in congedo da anni. Le Forze Armate sono presidio a servizio del Paese e delle sue istituzioni democratiche.
Sono parole che rappresentano un’inquietudine diffusa, ma è importante che le più alte cariche governative rigettino tale narrativa, perché attori chiave di eventuali tentativi golpisti.
L’esercito è solo un effetto placebo? Forse, ma di fatto è già nelle strade di città come Bari, Milano, Palermo, Roma e Torino, nonché in Regioni come la Campania e la Sicilia. Se non si vuole parlare di placebo, sicuramente si dovrebbe capire quanto pericolosa sia una narrazione come quella offerta, di nuovo, da Poletto: “se al Valentino c’è gente che corre in maglietta e cuffiette […] È zona off limits. Anzi, sarebbe, perché a mezzogiorno ci sono gli incoscienti, gli imprudenti che si allenano lo stesso […] Perché ormai questa è una guerra, e la sola sicurezza che puoi avere è restare in casa”. Da qui alle richieste istituzionali di “segnalazione dell’untore”, il passo è breve, arrivando a vette distopiche come la promessa del sindaco di Messina di droni che possano utilizzare la sua voce per intimare ai passanti di stare a casa. I media non si sono fatti lasciare indietro, seguendo i sindaci alla ricerca degli untori, perché potessero essere sottoposti in diretta al tribunale dell’opinione pubblica.
Le zone d’ombra
Nel frattempo, oltre a osservare con molta attenzione le dinamiche descritte, sarà il caso di tenere l’attenzione alta sulle zone d’ombra, cioè quelle aree sociali dove il modello italiano ha finora sfogato i propri fallimenti. Ogni sistema politico, anche democratico, giova di ambienti dove l’irrisolvibile enigma della convivenza umana possa accatastare i propri sacrificati. Questi sacrificati, però, hanno e avranno diritto di sentirsi ascoltati, specialmente adesso, perché sono gli ultimi degli inclusi nella catena di protezione o, peggio, sono i primi degli esclusi. E dobbiamo rendere loro conto. Sono in molti a operare su quelle che il ministro Peppe Provenzano definisce “linee di faglia”.
Il gruppo più massiccio è sicuramente quello dei lavoratori in nero. Sappiamo che sarebbe difficile per uno stato agire per supportare chi di fatto lavora in maniera irregolare. Sappiamo però anche che la perdita di ogni forma di sussistenza non bada alle leggi, che dalla fame dobbiamo togliere chiunque e che chi ha fame non guarda in faccia a nessuno. L’impatto, tanto sulla dignità di una Repubblica che punisca con la fame, quanto sul mero ordine pubblico, può essere devastante. È tutto fuorché casuale che le forze dell’ordine monitorino attentamente i supermercati.
Il problema è poi che il lavoro nero colpisce molte fasce di persone, a volte le più fragili, come i senzatetto, ma anche figure come badanti e babysitter. A volte, colpisce ancora più a fondo nelle contraddizioni del sistema Italia, rischiando di compromettere uno degli elementi chiave per la tenuta civile di questi mesi: l’approvvigionamento di cibo. Ricordiamo la questione dei braccianti sfruttati? Forse no, ma ricorderemo certamente la più recente tendenza del Governo a garantire la presenza di cibo nei supermercati. Se provassimo a combinare le due cose, otterremmo, da una parte, che neanche la paura del padrone sovrasta la paura della morte, dall’altra, che il padrone è padrone perché ti scarica appena non gli sei più conveniente. Viene da sé che la tenuta del settore primario dovrebbe essere osservata con grandissima attenzione. Sia perché dovremmo chiederci chi si sta prendendo cura degli sfruttati dei campi, sia perché se il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti si trova a spiegare che “il coronavirus rischia anche di mettere in crisi il settore agricolo per mancanza di manodopera”, allora dovremmo avere tutti molta paura.
La preoccupazione, infine, non può non escludere chi oggi è particolarmente esposto agli effetti fisici e psicologici del virus. Zone d’ombra esistono nell’ormai nota bolla delle case di riposo, una vera e propria linea di faglia a se stante, dove la delicatezza della cura degli anziani si è scontrata frontalmente con la loro particolare fragilità di fronte al virus e con il rischio che operino da innesco per focolai più estesi. Sono esposti poi psicologicamente i pazienti psichiatrici, più vulnerabili alle ricadute del virus. Un mix dei due rischi, infine, va riconosciuto a questioni difficili e delicate come le priorità di difendere i senzatetto e i carcerati, i primi perché abbandonati alla strada, i secondi perché sepolti in focolai pronti a esplodere.
Solo capaci di resistere
Molto si è detto sul fatto che le società contemporanee non siano capaci di resistere all’idea della morte. Se fame e morte non hanno politica né partito, ma solo azione e violenza, questo è forse ancor più certo in collettività in cui il potere è valutato in base alla sua efficacia nel garantirci l’immortalità.
Ognuno trarrà da questo virus la propria riflessione, ma gioverebbe dare risposta alla domanda posta dalla professoressa Nadia Urbinati: “Dobbiamo per caso attendere il vaccino prima di uscire di casa? E dobbiamo sentirci in colpa per la resilienza di questo virus o subire reprimende da parte di chi ci governa per sollevare questi dubbi?”. Dobbiamo, in sintesi, esclusivamente subire?
Forse no. Però dobbiamo chiedere, nel nostro piccolo, che le misure siano necessarie, non semplicemente utili. Le politiche richiedono pianificazione, comunicazione, risorse, sacrifici. La massima repressione e il massimo sforzo non possono e non devono essere il metro di giudizio di qualsiasi risposta alla COVID. Di certo dovremo cambiare, ma possiamo provare a scegliere come ricostruire i frammenti della nostra esistenza. Questi “non sono tempi normali”.
Possiamo certamente fare nostro il concetto medico della cura in ogni gesto, così come possiamo ripensare almeno una parte delle nostre vite attuali verso un paradigma solidaristico. Sicuramente, possiamo vedere la COVID come un’enorme prova di cittadinanza, rifiutando qualsiasi semplificazione del rapporto tra libertà e salute. Potremmo, sicuramente, ritrovare umiltà nel nostro rapporto con la natura, che comunque resta più potente di qualsiasi sovrastruttura economica o politica. Forse l’unica cosa in cui Renzi abbia visto giusto, prima di dichiarare guerra al Governo, è l’idea che “noi dobbiamo convivere con il COVID”. Le conseguenze dureranno anni. Peggio: l’attuale ciclo potrebbe ripetersi anche dopo la fine delle misure. La scelta, allora, sarà se ognuno di noi vorrà attaccarsi al proprio pezzettino di stato di eccezione, sperando di poterlo tenere per sé quando la crisi sarà passata, oppure se decideremo di agire da cittadini, cioè da esseri umani qualunque, ma consapevoli che “se davvero di emergenza si tratta, ognuno dovrebbe poter avere il necessario”.
In questo, l’epidemia è una potente tempesta: esercita una forza invisibile, un magnetismo globale di riassesto e rigerarchizzazione delle priorità, generando nuovi bisogni e desideri. Tale riassestamento deriva i propri criteri di analisi dalla biologia, ma anche da pratiche sociali, normative, etiche individuali e collettive. La solidarietà non ne è l’unico e inevitabile risultato, ma neanche lo è lo spirito di sopravvivenza a scapito degli altri. Le società umane, in una forma o nell’altra, hanno continuato a vivere in forma di comunità, società e civiltà negli ultimi diecimila anni. Questo non cambierà. Quello che cambierà, in meglio o in peggio, saranno le nostre piccole, banali e potentissime scelte individuali, quanto le nostre piccole, banali e potentissime scelte collettive. Come esseri umani non abbiamo il potere di creare, ma certamente di scegliere come trasformare le immense risorse a nostra disposizione. È la sottile linea tra subire il coronavirus e scegliere di tenere saldo il testimone per chi verrà dopo. Abbiamo il potere di resistere. E lo faremo.
Francesco Finucci per Policlic.it