“Nato e cresciuto a Roma, provengo da una famiglia molto stanziale. Per questo, forse, ho sempre avuto la curiosità di viaggiare e conoscere realtà diverse, posti lontanissimi e affascinanti. Sono d’altronde cresciuto in mezzo a cartine analogiche e atlanti, essendo figlio di una professoressa di geografia. Non sapevo leggere e scrivere, ma a cinque anni sapevo più o meno dove fosse il Sudamerica ed ero già in grado di disegnare una bozza del Nordamerica. È stato tutto questo a portarmi, inconsciamente, verso la vocazione della diplomazia.”
Lorenzo Solinas, Console d’Italia a Montreal, ha le idee chiare. Persona preparata e colta, capace di unire aplomb diplomatico a convivialità, è riuscito a trasformare il suo più grande sogno in realtà. Quello della diplomazia è un mondo in fibrillazione e, nonostante i retaggi storici e i consolidati codici di comportamento, in continuo adattamento alle contingenze. L’esponenziale progresso tecnologico e la rivoluzione digitale affermatasi nell’ultima decade sta trasformando radicalmente una delle professioni più tradizionali e meno permeabili ai cambiamenti, storicamente votata alla riservatezza e alla discrezione. Una sfida ineludibile: i diplomatici non possono, infatti, ignorare strumenti innovativi che consentono loro di decifrare in maniera più efficace il mondo interconnesso nel quale operano. Policlic.it ha intervistato in esclusiva il Console Solinas, un funzionario giovane, consapevole della centralità del ruolo che ricopre e delle pressanti sfide che l’affascinante dimensione cui appartiene ha dinnanzi a sé.
Console, perché ha scelto di addentrarsi in una realtà particolare come quella della diplomazia?
Ho sempre avuto l’aspirazione di intraprendere la carriera diplomatica, sin da quando ero al Liceo scientifico. Forse anche prima. Sono abbastanza patriottico e ho sempre nutrito un forte interesse per le cariche pubbliche che permettessero di lavorare per il Paese. Decisi di studiare scienze politiche a Roma Tre e, presso la stessa università, mi specializzai in Relazioni internazionali con ottimi risultati. Paradossalmente, fu proprio nel corso del mio percorso accademico che, scoraggiato dalla difficoltà del concorso di accesso, decisi di accantonare il grande sogno di rappresentare l’Italia per concentrarmi su cose che pensavo fossero più alla portata. Terminai però il mio ciclo di studi nel 2009, in concomitanza con l’acme della crisi economica abbattutasi sull’Occidente che contrasse fortemente il mercato del lavoro. Visto che alla portata non c’era nulla, mi sono detto: puntiamo in alto. Proviamoci. Mi iscrissi a una scuola di preparazione al concorso diplomatico e, essendo romano, optai per il Master in Studi Diplomatici della SIOI. Dopo un anno di lezioni, il primo tentativo non andò purtroppo a buon fine. Perfezionai la mia preparazione frequentando corsi privati tenuti da alcuni professori appartenenti al circuito SIOI, rafforzando la conoscenza delle lingue, tra le quali inglese e francese. Mi presentai al mio secondo concorso nel 2011 e, passando, entrai nel novembre dello stesso anno.
La carriera diplomatica costituisce uno sbocco naturale della facoltà di Scienze Politiche, per via della multidisciplinarietà che la contraddistingue. In base alla sua personale esperienza, quale consiglio si sentirebbe di offrire a chi intende cimentarsi in questa prova?
Il concorso diplomatico è molto difficile perché costituisce in primis una prova con se stessi. L’ingente quantità di materie oggetto del procedimento di selezione presuppone una preparazione estremamente vasta: oltre alle due lingue, inglese più un’altra a scelta tra francese, spagnolo e tedesco, ci sono diritto internazionale, economia internazionale e storia delle relazioni internazionali. Superato il primo step, si arriva agli orali, che prevedono altre materie: diritto civile privato, diritto amministrativo, principi di contabilità. Viene chiesto davvero di tutto. E lo studio propedeutico all’accesso alla carriera è fondamentale, in termini professionali e personali, per acquisire gli strumenti chiave che consentono di interpretare determinate dinamiche e comprendere dei meccanismi specifici. Impossibile fare questo mestiere senza possedere le basi di economia e diritto. Per capire le tendenze di alcuni Paesi, ad esempio, è essenziale capire la loro storia recente; è sorprendente osservare come certe cose si ripetano ciclicamente. Non casualmente gli studenti che escono dalle facoltà di Scienze politiche, per l’infarinatura generale ricevuta nelle tre materie citate, sono probabilmente quelli meglio preparati per affrontare la prova concorsuale.
Passato il concorso, qual è la fase successiva?
Si entra alla Farnesina con la qualifica di Segretario di Legazione in prova. Per nove mesi, cioè, all’ordinario lavoro d’ufficio si affiancano degli utili corsi di formazione nei quali è effettivamente spiegato cosa si andrà a fare. Passata questa fase transitoria, che prevede anche un mese di assegnazione a un’Ambasciata o Consolato generale dell’area europea o nordafricana (per ovvie ragioni di budget), rientrati a Roma, si acquisisce il ruolo di Segretario di Legazione. Si potrebbe pensare che sia immediatamente prevista la partenza verso una delle sedi estere, ma non è affatto così.
Come avviene in concreto l’assegnazione a un’Ambasciata?
Il Ministero rende periodicamente disponibile una lista di vacancies. A seconda del grado, è possibile selezionarne fino a sei, in ordine di preferenza. L’amministrazione centrale, poi, sulla base di un’oculata valutazione che prevede l’analisi di una molteplicità di fattori (numero di richieste, curricula, eccetera), decide sull’assegnazione finale. Io, ad esempio, sono partito due anni dopo il successo nel concorso, prestando servizio presso l’Ambasciata d’Italia a Caracas dal 2014 al 2018. Terminato il periodo in Venezuela, sono andato direttamente a Montreal. Dopo otto anni, però, si deve obbligatoriamente rientrare a Roma per un corso di aggiornamento, indispensabile per le promozioni successive. Il meccanismo delle promozioni è particolare. Dalla posizione di Segretario di Legazione a quella di Consigliere di Legazione si è promossi per questioni di anzianità. Le tre qualifiche che seguono nella gerarchia diplomatica (Consigliere d’Ambasciata, Ministro Plenipotenziario e Ambasciatore) non si ottengono automaticamente.
Come descriverebbe la vita del funzionario diplomatico all’estero?
Nonostante i tanti sacrifici, l’esperienza è sicuramente interessante e a me piace molto. È una bella sfida, perché ci si trova ad affrontare situazioni varie e imprevedibili al momento della partenza. Le responsabilità, inoltre, sono assai elevate anche nei casi in cui non si hanno tanti anni di servizio alle spalle. Nella mia esperienza personale, ad esempio, per una serie di circostanze, mi è capitato di essere improvvisamente il capo missione in Venezuela. Ci si occupa, sostanzialmente, di tutto: dal settore economico a quello politico, dal commerciale ai rapporti con la stampa. La nostra rete è ampia dal punto di vista delle sedi, ma ridotta sotto il profilo delle risorse umane. Bisogna perciò essere poliedrici e multitasking, perché si maneggiano dinamicamente dossier delicati come quelli sui diritti umani e la cooperazione allo sviluppo. Non ci si annoia mai, insomma. E soprattutto non si riesce a lavorare poco. In Venezuela avevamo degli orari di chiusura vincolati alla pericolosità e l’instabilità del Paese: sarebbe stato da pazzi, d’altronde, tornare a casa alle 10 di sera. A risentirne è indubbiamente la vita privata di ciascuno di noi. Sono molte le difficoltà e le rinunce cui si va incontro, a partire dal fatto di dover viaggiare ogni quattro anni. Mia moglie ha accettato questo tratto distintivo della mia professione, ma non sempre è così semplice come può sembrare. E le situazioni di natura familiare influiscono molto nelle scelte di carriera.
Come si svolge il lavoro in ufficio di chi, invece, presta servizio presso la Farnesina?
Innanzitutto bisogna considerare che esistono una serie di uffici che coordinano le attività e i servizi ai cittadini su tutta la rete estera. Per ciò che concerne i servizi consolari, ad esempio, la direzione generale con sede a Roma emette le linee guida che saranno implementate a livello globale. Altri uffici, invece, si occupano di predisporre tutta la documentazione necessaria alle visite istituzionali che le cariche politiche del Governo italiano, quali Ministri e Sottosegretari, effettuano in Paesi terzi. L’unità di crisi gestisce emergenze e crisi. L’ufficio stampa, oltre ai rapporti con la stampa nazionale e internazionale, elabora le policies comunicative sia a livello di Ministero che di Ambasciata. Ci sono poi gli uffici che si occupano dell’amministrazione, della contabilità, della promozione delle politiche culturali ed economico-commerciali. Una parte consistente delle attività che vengono realizzate nelle singole sedi fanno parte di iniziative di più ampio respiro. A Montreal, per fare un esempio, è stata recentemente organizzata la terza giornata del design italiano quale parte integrante della Giornata del design italiano nel mondo che si fa in moltissime sedi. Il coordinamento effettuato a Roma è, di conseguenza, essenziale. Anche alla Farnesina il lavoro non manca.
Cos’è un ufficio consolare e quanto si differenziano le funzioni di un console da un diplomatico che presta servizio in un’ambasciata?
L’ufficio consolare è quello che eroga i servizi ai cittadini italiani all’estero, la prima interfaccia che lo Stato ha con l’enorme comunità italiana sparsa nel mondo. La circoscrizione consolare di Montreal, che oltre al Québec comprende anche le province marittime site nell’estremo est del Canada, copre le 40.000 persone che sono effettivamente in possesso di passaporto italiano (con diritto di voto). Le stime dei canadesi aventi origini italiane, invece, si attestano intorno all’eclatante cifra di 350.000 individui. Per i servizi inerenti al passaporto, la cittadinanza, il codice fiscale, i visti, l’aggiornamento dello stato civile (quindi matrimoni, decessi o nascite), la forte comunità italiana residente in Québec si rivolge al nostro consolato. Insomma, la mia impressione è che il settore consolare, insieme alla promozione economico-commerciale (che inevitabilmente diviene anche culturale), sia divenuto predominante nella nostra attività. Anche quando ero all’Ambasciata a Caracas, pur essendoci un Consolato Generale distaccato, di attività inerenti alla dimensione consolare ne facevo tantissime, data la presenza di oltre 150.000 cittadini italiani in Venezuela. Ormai la percezione del diplomatico che fa il Metternich al Congresso di Vienna è caduta in disuso.
Di quale margine di manovra godono i Consolati nella promozione del sistema Paese rispetto alle Ambasciate cui sono subordinati?
Il dialogo tra Ambasciate e Consolati Generali è costante e proficuo. L’Ambasciata d’Italia a Ottawa, con cui la nostra relazione è solidissima, svolge un fondamentale lavoro di coordinamento, unendo le forze di tutta la rete italiana presente in Canada. La libertà d’azione del Consolato di Montreal è ampia e l’Ambasciata ci incoraggia continuativamente a proporre idee innovative per la promozione e la valorizzazione delle eccellenze italiane in loco. Il Canada è, d’altronde, una realtà un po’ strana che consta di 10 province e 3 territori: Ottawa, sede della nostra missione diplomatica, è una città prevalentemente amministrativa. Toronto, Vancouver e Montreal, sede dei consolati, sono città più importanti della capitale dal punto di vista sia demografico sia economico.
Nel rapportarsi con i cittadini, com’è mutata la strategia comunicativa della diplomazia in concomitanza con l’avvento dell’era dell’informatizzazione?
La public diplomacy, sembra banale dirlo, è ormai una realtà imprescindibile. Viviamo in un’epoca dove la costante interazione con il pubblico è divenuta una necessità. Alcuni aspetti del nostro mestiere, però, specialmente in alcuni settori, hanno bisogno di molta riservatezza. La società contemporanea vuole delle risposte in tempo reale, a tambur battente, ma inevitabilmente i dossier più delicati necessitano di tempo per essere affrontati e risolti tramite soluzioni ottimali. In linea generale, tuttavia, comunicare sempre e favorire l’accesso alle informazioni chiave per l’utenza rimane uno dei nostri obiettivi prioritari. Comunicare, oltre a essere una buona palestra personale, è un esercizio molto complesso e direi “challenging”: bisogna selezionare ciò che si può dire, scegliere il modo giusto per farlo, ponderare il messaggio, valutare se e quando rispondere agli input provenienti dall’utenza (per evitare perdite di tempo e scongiurare inutili polemiche). Certo, si può e si deve sempre migliorare: non casualmente, infatti, predisponiamo una costante opera di studio su come ottimizzare la comunicazione. In questo senso, la Farnesina lascia alle sedi estere ampio margine di manovra nell’implementazione della singola strategia adottata, al fine ultimo di presidiare efficacemente lo spazio informatico. Il problema risiede nel fatto che molto spesso i cittadini non ci chiedono informazioni; non le leggono. Il più delle volte, infatti, ciò che ci viene chiesto è già presente sul sito dell’istituzione. Paradossalmente, anche in Paesi iper-avanzati come il Canada, c’è gente che quasi non apre internet. Tutto ciò non agevola affatto il nostro lavoro. Si punta molto, al giorno d’oggi, sui social network e su canali alternativi, senza rendersi conto che una parte della comunità residente all’estero è raggiungibile solo con mezzi più antichi. Telefonate e incontri de visu rimangono dunque attività ineludibili.
Quale rapporto intercorre tra le Delegazioni dell’Unione Europea e le Ambasciate dei singoli Stati membri?
L’attività di coordinamento tra le Ambasciate e la Delegazione presente su di uno specifico territorio è tendenzialmente costante. Quando ero in Venezuela, ad esempio, un Paese che si trovava ad affrontare rilevanti sfide, l’attivo ruolo dell’Unione Europea era espletato attraverso la sua Delegation e le riunioni di coordinamento erano assai frequenti. Interfacciarsi con i funzionari diplomatici degli altri Stati europei, al fine di portare avanti una linea comune e far passare un determinato messaggio, è indubbiamente molto utile. In certi casi può accadere che un Paese membro svolga funzioni consolari e curi gli interessi di altri Stati dell’UE che non posseggano sedi diplomatiche in una specifica area geografica.
Quanto influiscono le dinamiche meramente di politica interna sull’espletamento dell’ordinaria attività diplomatica?
Il Ministero degli Affari Esteri è composto da personale di carriera che inevitabilmente risente meno delle pur frequenti alternanze di Governo. Molte direttrici della nostra politica estera, d’altronde, sono costanti fisse. I titolari del dicastero si susseguono e variano le direttive impartite, ma i nostri interessi nazionali non cambiano. Basti pensare alle necessità quotidiane delle nostre grandi comunità residenti all’estero; avere 5 milioni di italiani all’estero è un dato di fatto che non si può mutare. Oppure al supporto che le rappresentanze diplomatiche forniscono alle piccole e medie imprese italiane, su cui si basa la nostra economia, con lo scopo di favorire la penetrazione di queste realtà di estremo successo sui mercati globali. Inoltre, affiancandosi ai canali diplomatici veri e propri, non può essere ignorato il contributo fondamentale fornito dal mondo delle organizzazioni della società civile di stampo para-diplomatico (basti pensare all’intensa attività predisposta all’estero dalla Comunità di Sant’Egidio).
Chiosa finale sul futuro. Esiste una destinazione particolare nella quale le piacerebbe prestare servizio?
Ce ne sono tante, a dir la verità. Mi sono occupato per circa sei anni di America Latina: prima alla Farnesina e poi in Venezuela. Il Paese europeo più attivo nel continente, per ovvie ragioni storiche e culturali, è la Spagna. Tra l’altro, amo molto la Spagna per ragioni personali: mia moglie è proprio di quel Paese. Nonostante mi piacerebbe visitare mezzo mondo, se proprio dovessi scegliere una sede opterei per Madrid.