Sono trascorsi ben quattordici anni da quando, nell’ormai distante Novembre del 2003, fece il suo debutto sul grande schermo una pellicola destinata a riscuotere un enorme successo commerciale e a diventare un classico del cinema contemporaneo: si tratta di L’ultimo samurai, diretto dallo statunitense Edward Zwick (regista nel 2006 di Blood Diamond) e interpretato dagli ottimi Tom Cruise e Ken Watanabe.
La trama ruota attorno alla complessa vicenda di Nathan Algren, un tormentato ex capitano del 7° Reggimento di Cavalleria degli Stati Uniti d’America chiamato ad addestrare le reclute del neonato esercito nipponico, allora impegnato in una sanguinosa lotta contro i samurai ancora ostili alla modernizzazione del Paese. Caduto loro prigioniero nel corso di una tanto prematura quanto disastrosa azione offensiva, il protagonista imparerà lentamente a conoscere la cultura e i valori di questa antichissima casta di guerrieri fino ad abbracciarne la causa, trovando al tempo stesso sollievo nell’amore della bellissima Taka (Koyuki Katō).
Al di là degli aspetti più intimamente legati al mondo della settima arte (sui quali non desidero soffermarmi vista la totale mancanza di competenze nel settore), è interessante notare come la cornice storica nella quale prendono forma le vicende dei personaggi non sia il frutto dell’immaginazione degli sceneggiatori hollywoodiani, ma costituisca un capitolo di cruciale importanza per il successivo sviluppo delle sorti del Sol Levante: la ribellione di Satsuma del 1877.
La cornice storica: l’età Meiji
Tale episodio si inserisce all’interno del Rinnovamento Meiji (1868-1912), il periodo della storia giapponese segnato dall’abbattimento del decrepito regime feudale (bakufu), dalla riabilitazione della Corona sotto la guida del giovane imperatore (tennō) Mutsuhito e dall’avvio di un ambizioso programma di edificazione di uno Stato moderno e dinamico. L’evento determinante per questa svolta radicale nella politica interna ed estera del Sol Levante ebbe luogo l’8 Luglio 1853, quando le quattro navi da guerra che componevano la missione diplomatica del commodoro statunitense Matthew C. Perry si materializzarono al largo della baia di Tokyo per rompere l’isolamento del Paese. Erano infatti trascorsi due secoli da quando la dinastia Tokugawa, salita al potere nel 1603 al termine di quella stagione di tumulti conosciuta come Epoca Sengoku, aveva ordinato la completa chiusura delle frontiere per neutralizzare le eventuali minacce provenienti dall’esterno.
L’ingerenza degli USA nelle questioni dell’Asia Orientale era dettata dall’interesse per lo sfruttamento delle favolose ricchezze dell’Impero cinese, cui si aggiungeva la necessità di assicurarsi basi sicure per il rifornimento dei mercantili impegnati nella lunga traversata del Pacifico. Conscio della propria inferiorità in caso di conflitto con le potenze dell’Occidente, lo Shōgunato, così ribattezzato in relazione al titolo assunto i Tokugawa in qualità di capi degli eserciti (shōgun), ratificò negli anni successivi una lunga lista di convenzioni commerciali che danneggiarono sensibilmente l’economia nazionale. Alla crescente presenza straniera dopo secoli di isolazionismo si accompagnarono gli effetti destabilizzanti della concorrenza occidentale, preludio di una profondissima crisi di legittimazione destinata a segnare gli ultimi quindici anni di vita del regime.
Il momento cruciale per la disintegrazione del bakufu ebbe luogo nel Marzo del 1866 quando i feudi di Chōshū, Satsuma e Tosa, tradizionalmente ostili al dispotismo dei Tokugawa e per questo favorevoli al ripristino dell’autorità imperiale, si legarono in un’alleanza militare che di lì a breve avrebbe assunto un ruolo centrale nella transizione del Giappone verso la modernità. Fu l’ascesa al trono del venticinquenne Mutsuhito nei primi mesi del 1867 ad ufficializzare l’incrinatura dei rapporti fra la Corona e lo shōgun, dando modo alla coalizione di organizzare un autentico colpo di Stato e di proclamare la restaurazione dell’autorità del tennō nella giornata del 3 Gennaio 1868. La volontà di recidere ogni legame con la storia recente trasparve nella decisione di far coincidere il nengo, ossia l’unità temporale in cui è divisa la storia giapponese, con il regno del sovrano, prassi che si è conservata intatta fino ai nostri giorni: l’età Meiji, letteralmente “del governo illuminato” si caratterizzò infatti per l’adozione di una serie di riforme che permisero la concentrazione del potere nelle mani di una ristretta oligarchia e la transizione accelerata del Sol Levante verso un’economia capitalistica.
Una volta scompaginata la resistenza delle esigue forze fedeli allo shōgunato nel corso della cosiddetta Guerra Boshin, il nuovo regime poté finalmente impegnarsi nel processo di trasformazione del Paese, cominciando dalla distruzione delle vestigia del potere feudale e dal rafforzamento dell’apparato repressivo. Lo scioglimento degli eserciti personali al servizio degli ex signori locali, i daimyō, cui fece seguito nel Gennaio del 1873 l’introduzione del servizio militare obbligatorio, ebbero tuttavia l’effetto di scatenare la violenta reazione dei guerrieri nipponici: privati da un giorno all’altro del monopolio del mestiere delle armi e degli antichi privilegi derivanti dal loro status, questi si ritrovarono in molti casi costretti ad accettare lavori umilianti che a stento consentivano loro di sopravvivere. Ad esacerbare ulteriormente gli animi contribuì la decisione di accantonare, nel Settembre di quello stesso anno, il progetto d’invasione della penisola coreana conosciuto come Seikanron: pensato come valvola di sfogo per i quasi due milioni di samurai colpiti dai provvedimenti governativi, esso dovette ben presto scontrarsi con il timore generalizzato di una reazione dell’Occidente e con la persistente debolezza del neonato Stato giapponese.
L’opposizione al Rinnovamento
A partire dall’anno successivo il Giappone venne poi attraversato da una lunga serie di rivolte contadine (opportunamente manovrate da quei combattenti ormai disincantati dalle scelte della Corona e del suo entourage), le quali quali sarebbero successivamente sfociate nella già citata ribellione della prefettura di Satsuma. Ciò che tuttavia distinse questo episodio dai precedenti fu la profondità degli ideali che animarono i suoi protagonisti, vale a dire la convinzione secondo la quale l’imperatore dovesse esercitare il proprio ruolo senza la manipolazione degli oligarchi, unici responsabili delle iniziative impopolari prese nel corso del decennio precedente, e che l’abbattimento dello shogunato avesse dovuto rappresentare il preludio di un ritorno ai fasti del primo impero giapponese (VII-X secolo a.C).
Le ostilità si aprirono il 30 Gennaio 1877 con i raid degli insorti sugli arsenali militari della città di Kagoshima, ai quali fece seguito l’allestimento di un esercito per marciare alla volta di Tokyo. Alla testa dei ribelli si pose il brillante Saigō Takamori, un ex samurai che aveva abbandonato il proprio ruolo nell’esecutivo in seguito alla crisi apertasi con il Seikanron, e sotto il suo comando le forze ultra-conservatrici impegnarono l’esercito regolare in una serie di schermaglie cominciate con l’assedio infruttuoso della fortezza di Kumamoto (19 Febbraio-12 Aprile). La pesante sconfitta patita nel corso della battaglia di Tabaruzaka (4-12 Marzo) arrestò definitivamente l’avanzata di Saigō verso la capitale, costringendo gli insorti ad impegnarsi in una futile guerriglia contro forze enormemente superiori a livello quantitativo e organizzativo.
L’atto finale di questa pagina cruenta della storia del Sol Levante si consumò il 24 Settembre nella città di Shiroyama, ultima roccaforte rimasta nelle mani dei samurai dopo che l’offensiva estiva del Generale Yamagata ne aveva dissanguato gli effettivi. Circondati dai 30.000 soldati dell’esercito imperiale e sottoposti al fuoco tambureggiante delle artiglierie nemiche, gli appena 500 guerrieri feudali tentarono un assalto frontale contro le linee avversarie confidando nella propria superiorità nel combattimento corpo a corpo. Gli ufficiali di Tokyo impallidirono quando videro le loro avanguardie indietreggiare per poi ritirarsi disordinatamente di fronte alla potenza d’urto degli uomini di Satsuma, ma il rapporto numerico di 60 a 1 a proprio vantaggio determinò ben presto l’esito dello scontro. Saigō non sopravvisse alla disfatta dei suo uomini sul campo di battaglia: ferito mortalmente da alcuni colpi sparati all’altezza dell’arteria femorale e dello stomaco, scelse di onorare il codice dei samurai commettendo il suicidio rituale previsto dal Bushido, il libro sacro dei guerrieri.
L’esplosione della rivolta aveva palesato l’esistenza di tensioni irrisolte all’interno della società giapponese, ancora divisa tra i fautori della modernizzazione e i guardiani delle tradizioni valide da secoli. Nondimeno il desiderio di elevare il Sol Levante al rango di grande potenza spinse l’oligarchia Meiji ad edificare, nel corso dei vent’anni successivi, un apparato politico-ideologico di stampo paternalistico capace di controllare il dissenso e di compattare l’opinione pubblica di fronte ad un obiettivo comune: la prosperità dell’Impero.
E la figura di Nathan Algren che ruolo avrebbe avuto in tutto questo? È plausibile ipotizzare che gli sceneggiatori si siano liberamente ispirati al personaggio di Jules Brunet (1838-1911), capitano dell’esercito francese che combatté al fianco dell’esercito shogunale negli ultimi giorni della Repubblica di Ezo, prima che il potere imperiale venisse definitivamente restaurato.
Niccolò Meta per Policlic.it