Scarica QUI la rivista n. 10 di Policlic
Brando Benifei, 35 anni, nato a La Spezia. Eurodeputato dal 2014, rieletto nel 2019, è membro della Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori oltre che della Commissione speciale sull’intelligenza artificiale in un’era digitale.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo per questo numero dedicato ai “Grandi della Terra”. Ci ha parlato dello stato dell’arte dell’integrazione europea, delle criticità e delle prospettive di un processo in movimento che richiede l’impegno di tutti.
L’Unione Europea è un’organizzazione tanto importante quanto distante, nella percezione, dai suoi cittadini. Quale pensa sia la strada da percorrere per una soluzione alla questione?
È vero, l’Unione è estremamente importante per i suoi quasi 500 milioni di cittadini. Potremmo dire sia in qualche modo a metà strada tra un’organizzazione internazionale tradizionale, come ad esempio l’ONU, e una vera e propria federazione, come gli Stati Uniti d’America. Proprio per questa sua peculiare natura, l’Unione Europea è piuttosto complessa nel suo funzionamento e comprendere fino in fondo le dinamiche che la riguardano può non essere così immediato. Da qui ne deriva una certa distanza, e anche disinteresse, da parte di molti cittadini.
La soluzione al problema implica un duplice approccio: da una parte occorre discutere seriamente su modalità di riforma e semplificazione del processo decisionale dell’Unione, garantendo anche maggior incisività alla volontà dei cittadini espressa tramite le elezioni del Parlamento Europeo; dall’altra, è necessario investire molte più risorse in attività di informazione e disseminazione riguardo al funzionamento dell’UE e alle sue attività, partendo dalle scuole ma senza trascurare le persone più mature, fino agli anziani, membri sempre più attivi della società europea.
È chiaro che proprio la composizione dell’Unione, con i suoi 27 Stati membri e il suo articolato apparato decisionale, rende il suo avanzamento e la sua stessa esistenza tutt’altro che scontati. La Brexit è stata la prova che non si tratta di un processo irreversibile, ma che anzi è fondamentale battersi continuamente per un avanzamento in termini di benessere dei cittadini europei a 360°. Ciò è ottenibile solamente restando uniti e perfezionando questa nostra Unione sulla base di un principio di sincera solidarietà nel rispetto dei valori sanciti nei Trattati.
Sappiamo che esistono degli “accordi trasversali” tra Stati membri: il blocco scandinavo, quello mediterraneo e il cosiddetto Patto di Visegrad, ad esempio. Come incidono queste membership regionali nell’assetto complessivo dell’Unione? Quali conseguenze comportano per la stabilità europea?
Arrivati a un numero di Stati membri così elevato, era forse inevitabile che si formassero affinità interne tra alcuni di essi. Queste dipendono spesso da ragioni storiche e da vicinanze socioculturali, come nel caso del cosiddetto blocco scandinavo. Ma il motivo principale per cui queste alleanze vengono a formarsi resta la volontà di raggiungere obiettivi comuni facendosi forza a vicenda, in particolare in sede di Consiglio.
Non credo che questo fenomeno rappresenti una minaccia per la stabilità europea di per sé. Ad esempio, i Paesi mediterranei come Spagna, Italia e Grecia hanno ottime ragioni per confrontarsi più da vicino su temi e problematiche che riguardano loro più di quanto non riguardino Paesi come Belgio e Olanda.
Il vero problema è quando alcuni Paesi formano blocchi “monolitici” impedendo così alla stragrande maggioranza dei Paesi, e della popolazione che rappresentano, di avanzare in una certa direzione, spesso più genericamente verso una maggiore integrazione europea. Tipico esempio è quello dell’utilizzo – o molto spesso anche della sola minaccia di utilizzo – del potere di veto in sede di Consiglio. È evidente che alcuni Paesi, in particolare Ungheria e Polonia, tendono ad approfittare di questa dinamica ormai da diversi anni, riuscendo spesso a restare impuniti nonostante palesi violazioni di principi fondamentali e regole sanciti a livello europeo.
Dal punto di vista geopolitico e delle relazioni internazionali, come definirebbe il rapporto tra l’Unione Europea e gli altri “Grandi della Terra”? Quanto pesa in questo senso la frammentazione politica dell’Unione?
L’Unione Europea possiede un enorme potenziale in termini di peso geopolitico. Se questo fosse sfruttato appieno l’Unione sarebbe perfettamente in grado di competere, fino anche a superare, potenze globali come Stati Uniti, Cina, Russia, sotto tutti i punti di vista. Ci tengo a ricordare che in quanto a benessere dei propri cittadini, rispetto dei diritti umani, protezione della privacy e protezioni sociali più in generale, l’Unione Europea possiede già uno dei modelli più avanzati al mondo.
Al contrario, in quanto a politica estera e di sicurezza le lacune sono molte. Ciò a causa non di una debolezza endemica dell’Unione o una mancanza di volontà di agire delle sue istituzioni, ma semplicemente perché gli Stati membri continuano a voler gelosamente conservare ogni competenza relativa a questi campi, spesso perché gli obiettivi strategici geopolitici differiscono non poco tra loro.
L’Unione, tramite la sua “nuova agenda strategica 2019-2024”, sostiene fortemente il multilateralismo e un ordine globale basato sul rispetto del diritto internazionale, anche attraverso un ruolo più attivo e una voce più forte della stessa UE. Nel far questo, le politiche commerciali basate sull’equità e l’apertura rendono l’Unione un luogo particolarmente attraente per affari e investimenti internazionali.
Questo è fondamentale per rafforzare il ruolo dell’UE come leader globale, assicurando allo stesso tempo standard di protezione climatica, ambientale e del lavoro estremamente più alti se comparati a quelli delle altre potenze globali. La Commissione Europea, sostenuta dal Parlamento, ha cercato negli anni di portare avanti un approccio coordinato all’azione esterna dell’Unione, a partire dagli aiuti allo sviluppo fino alla politica estera e di sicurezza comune. Tuttavia, come ho già ricordato, è proprio questo il punto debole dell’Unione, dove la frammentazione fra gli Stati membri gioca un ruolo fondamentale.
Il punto di partenza, su cui si sta effettivamente lavorando, dovrebbe essere il lavoro a stretto contatto con i Paesi a noi vicini. Ad esempio introducendo una lungimirante strategia globale per l’Africa che metta al centro lo sviluppo del continente, imparando dagli errori delle precedenti politiche di cooperazione internazionale e mettendo sempre al centro il rispetto e l’autonomia di tutti Paesi coinvolti. Sono enormi i potenziali benefici, tanto per l’Unione quanto per l’Africa. Allo stesso tempo è fondamentale riaffermare la prospettiva europea dei Paesi dei Balcani occidentali, per assicurare un più rapido percorso di stabilità e benessere della popolazione.
G7 e G20 sono le due organizzazioni intergovernative degli Stati economicamente più avanzati. Quali vantaggi derivano per l’Unione Europea dalla presenza all’interno di questi consessi internazionali?
È innegabile che nonostante molte cose siano cambiate dagli anni Settanta, quando il G7 venne ideato, esso rappresenti tutt’ora un’organizzazione estremamente importante. Il peso politico, economico, industriale e militare dei Paesi che ne fanno parte, fra i più avanzati al mondo in questi settori, è effettivamente in grado di influire a livello globale. Inizialmente l’obiettivo era la messa a punto di importanti politiche macroeconomiche di breve termine tra i Paesi partecipanti, oltre che il monitoraggio degli sviluppi nell’economia mondiale in risposta alle crisi finanziarie, economiche ed energetiche avvenute a partire dai primi anni Settanta. Il Presidente della Commissione Europea partecipa al G7 come membro a partire dal 1981, ed è oggi affiancato dal Presidente del Consiglio Europeo. Dunque a Ursula von der Leyen e Charles Michel è affidato il ruolo di rappresentare l’Unione Europea, già ben presente all’interno dell’organizzazione attraverso i tre Stati membri (Italia, Francia e Germania).
I vantaggi dell’Unione di poter sedere in questo tipo di organizzazioni godendo del pieno riconoscimento di membro al pari dei più avanzati Paesi al mondo è notevole. Inoltre, grazie al coordinamento tra l’UE e gli altri tre Stati membri viene assicurata una maggiore influenza nelle decisioni, tenendo conto di interessi spesso divergenti – ad esempio quelli degli Stati Uniti rispetto ai nostri. Uno dei punti deboli di queste organizzazioni intergovernative è la percezione di segretezza o la poca accessibilità da parte dei cittadini. A tal proposito, e per rafforzare ulteriormente il ruolo dell’Unione, sarebbe interessante valutare l’affiancamento del Presidente del Parlamento Europeo agli altri due che attualmente rappresentano l’UE in sede di G7.
Non pensa sia arrivato il momento di presentarsi a questi appuntamenti in una versione unitaria, in rappresentanza quindi dell’Unione nel suo complesso?
Sono state fatte più volte proposte in questo senso. La verità è che organizzazioni intergovernative di questo tipo sono basate su un sistema di regole piuttosto delicato, il cui equilibrio rischia di essere messo in discussione facilmente. Italia, Francia e Germania difficilmente accetterebbero di rinunciare di sedere al tavolo decisionale per sostenere una rappresentanza comune a livello UE, ancor di più perché tale rappresentanza già esiste. Probabilmente la cosa migliore da fare e quella di rafforzare sempre di più il peso specifico dell’Unione Europea in queste sedi, e ciò può essere fatto anche senza modifiche radicali nella composizione dell’organizzazione.
Cosa pensa della costituzione di una Comunità Europea di Difesa, progetto accantonato ormai vari decenni fa? Le è mai capitato di discuterne in Parlamento?
La firma da parte dei sei Stati membri fondatori del trattato per la creazione della Comunità Europea di Difesa risale al lontano 1952. Tuttavia, per via del mancato assenso del Parlamento francese, il progetto venne bruscamente fermato e rapidamente abbandonato. Le conseguenze furono notevoli. La Germania, a quei tempi Germania Ovest, fu ammessa nella NATO e i sei Stati membri della Comunità Economica Europea tentarono nuovamente di creare una cooperazione in ambito di politica estera che fu finalmente stabilita con la Cooperazione Politica Europea (CPE) nel 1970. Si tratta del predecessore della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) odierna.
Come ben sappiamo, gli sforzi in ambito di messa in comune della politica estera e di sicurezza non sono ancora sufficienti, e molto altro resta da fare per rendere l’Unione Europea in grado di rispondere alle sfide di oggi e di domani. Per il corretto funzionamento della PESC, il Parlamento Europeo effettua un costante monitoraggio e detiene il diritto di iniziativa, rivolgendosi direttamente all’Alto Rappresentante e al Consiglio. Noi europarlamentari esercitiamo anche il controllo sul bilancio specifico della politica estera. Inoltre, due volte all’anno, il Parlamento tiene dibattiti sui progressi nell’attuazione delle politiche comuni di difesa e di politica estera, con il coinvolgimento diretto delle Commissioni parlamentari. Come per molti altri ambiti, resta a mio parere fondamentale procedere verso un’ulteriore integrazione europea.
Le difficoltà riscontrate nell’affrontare l’emergenza pandemica hanno ancora una volta confermato la necessità di potenziare la nostra Unione, unico modo per essere in grado di reagire a ogni tipo di minaccia futura. Gli Stati membri, anche i più grandi e ricchi, non hanno possibilità di procedere da soli: si tratta di anacronistiche e poco lungimiranti illusioni spesso dettate dagli egoismi nazionali.
Il 2021 è l’anno del vaccino per la COVID. Il neo-presidente statunitense Joe Biden ha dichiarato che l’America, dopo aver salvato se stessa, salverà il mondo. Come possiamo leggere questa svolta nella politica estera statunitense? Pensa che si prospetti la possibilità di un nuovo Piano Marshall?
Il 2021 si è rivelato per gli Stati Uniti un anno di veri e propri stravolgimenti. L’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden ha sancito un’inversione di rotta cruciale che, tra le altre cose, ha permesso al Paese di affrontare in maniera molto più efficace l’emergenza pandemica. Anche l’attenzione del presidente Biden e della sua vice Kamala Harris verso protezioni sociali e tutala delle fasce più deboli della popolazione ha evitato una vera e propria catastrofe. Gli Stati Uniti di Biden hanno prontamente varato piani di supporto economico di portata storica verso i propri cittadini, oltre all’innegabile successo della strategia vaccinale. Se compariamo l’intervento e la prontezza americana a quella europea, potremmo essere tentati dal constarne il successo rispetto alle molte difficoltà tutt’ora presenti nel vecchio continente.
Si tratta però di una comparazione ingiusta, dato che molti dei problemi che ha avuto e sta avendo l’Unione nel rispondere all’emergenza pandemica dipendono proprio dalla scarsa volontà di alcuni Stati membri di concederle maggiori competenze e poteri, anche in ambito di sanità pubblica. Fortunatamente ci si sta accorgendo che la direzione giusta è quella dell’integrazione europea, e la definizione di una nuova politica comune per la salute dei cittadini europei ne è la prova. Il Parlamento Europea sostiene fortemente la Commissione in questo sforzo, e allo stesso tempo si batte per assicurare che ogni errore commesso venga rintracciato in modo da non essere più replicato in futuro.
Tornando agli Stati Uniti e alla nuova amministrazione, ritengo fondamentale recuperare tutti i progressi persi negli scorsi quattro anni a causa di Trump e della sua limitata visione in termini di cooperazione internazionale. L’Unione Europea e gli Stati Uniti sono caratterizzati da profondi legami storici, culturali ed economici, nonostante le molte differenze. Abbiamo entrambi da guadagnare da una sincera e leale collaborazione, in cui l’Unione Europea può giocare il suo ruolo di leader globale in ambiti come quello del welfare e del rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, ponendo sempre al primo posto la loro tutela.
Intervista a cura di Luca Galanti.