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Il numero della rivista mensile di Policlic che qui vi proponiamo è l’ultimo prodotto di un lavoro di redazione che dura dal 2017 e che, alla luce dello stato di salute del giornalismo 2.0, mira a offrire un’alternativa credibile all’attuale panorama italiano dell’informazione.
Il contesto storico delineato dalla pandemia ascrivibile alla COVID-19 ha senz’altro evidenziato alcune degenerazioni che da tempo privano il giornalismo delle sue principali funzioni sociali: In-Formare i lettori e contribuire alla maturazione di un’opinione pubblica consapevole e dotata di senso critico.
Per meglio descrivere il punto di vista da cui origina e verso cui muove la volontà del progetto editoriale di Policlic, si rende anzitutto inevitabile analizzare, pur nei limiti imposti dalla stesura di un singolo articolo, il decadimento che ha colpito il mondo della informazione.
Le trasformazioni del giornalismo
Nel 1702 le tipografie londinesi davano alla luce il Daily Courant, ovvero il primo quotidiano della storia e l’antesignano del moderno giornale. Interessante risulta essere il motto che per lo stesso si scelse di adottare: “credibilità e imparzialità”[1]. Durante e dopo le grandi rivoluzioni inaugurate nel diciottesimo secolo, inoltre, i giornali (in tutte le loro forme: quotidiani, settimanali, mensili) divennero lo strumento in possesso delle classi emergenti per enfatizzare i cambiamenti sociali in atto ed entrare in contatto con i protagonisti del potere politico, contribuendo, così, a elevare i giornalisti al ruolo di paladini degli interessi delle masse.
Questo atteggiamento avrebbe affibbiato alla Stampa il termine Watchdog, inteso come “cane da guardia della libertà e dell’indipendenza al servizio dei cittadini per rappresentare le istanze e smascherare il potere davanti al tribunale dell’opinione pubblica”[2]. La sempre crescente influenza esercitata dalla stampa sull’opinione pubblica le valse la definizione di Quarto Potere[3]. Insieme ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, spettò quindi all’informazione rappresentare il nuovo pilastro dello stato di diritto.
La libertà di stampa divenne, così, una delle “libertà civili fondamentali garantita da tutte le costituzioni liberali, forse la pietra di paragone più certa per misurare la democraticità di qualsiasi Stato”[4]. In questa fase della storia, la stampa si affermò come potere indipendente dagli altri e come contraltare alla prevaricazione degli ordini costituiti nei confronti dei cittadini.
Al giorno d’oggi il giornalismo reclama ancora questa indipendenza? La risposta va ricercata principalmente in due fenomeni congiunti che caratterizzano la società moderna: la progressiva compenetrazione tra potere politico e società civile, e lo sviluppo delle nuove tecnologie con il relativo aumento dei canali comunicativi.
Il primo fenomeno si verificò nel momento in cui la stampa perse la sua indipendenza dagli altri poteri. Con una nuova organizzazione dei modi di produzione, con la nascita dei partiti politici di massa e delle organizzazioni sindacali, nonché attraverso un livello di scolarizzazione sempre crescente, i cittadini si fecero istituzione. In questa fase di democratizzazione della società, si rese quindi necessaria la ricerca del consenso da parte degli attori istituzionali e non, al fine di affermare la propria idea politica. La comunicazione a mezzo stampa divenne, dunque, lo strumento principe di propaganda ideologica, perdendo la sua primaria funzione di potere indipendente.
Il secondo fenomeno da analizzare è quello relativo allo sviluppo delle nuove tecnologie. La prima fase della rivoluzione digitale si ebbe con l’avvento della televisione, strumento simbolo dell’avanzamento tecnologico. Il merito della TV fu quello di modificare i tempi della notizia e la frequenza della sua diffusione: venne introdotta la comunicazione in tempo reale dei più rilevanti fatti quotidiani, causando un’alterazione del codice genetico del giornalista, che da unico divulgatore di notizie assunse sempre più le vesti di interprete a posteriori della realtà[5].
Ciò che ha tuttavia mutato per sempre il volto del giornalismo è stata la “scoperta” di Internet. Nel mondo del web, infatti, il cittadino non risulta essere più un semplice ricettore di notizie, ma entra a far parte di una comunità interattiva continuamente esposta a flussi di informazione multilaterali. Le nuove tecnologie, inoltre, hanno ulteriormente ridotto la distanza tra il Palazzo e i cittadini. Ai cittadini è garantito un ruolo più diretto ed esplicito nei processi politici decisionali finalizzati all’amministrazione della comunità. Non è un caso, infatti, che contestualmente al giornalismo 2.0 si sia iniziato a diffondere il concetto di “democrazia partecipativa” o di “democrazia dal basso”. Nella galassia del web, quindi, ogni internauta è in potere di creare dei contenuti fruibili da tutta la comunità e di ritagliarsi piccoli o grandi spazi di espressione e di visibilità, prescindendo dai classici mezzi di comunicazione mainstream. La fine dell’oligopolio dell’informazione e della comunicazione detenuto dalla stampa ci ha dunque condotti a una nuova e complessa fase nella costante evoluzione giornalistica.
Volendo analizzare questo nuovo periodo, non si può sottacere la rivoluzionaria metamorfosi avvenuta nella società contemporanea. Il periodo storico che viviamo è un periodo di transizione da una “società dell’informazione” a una “società della comunicazione”. Nel primo caso ci si trova dinanzi a una tipologia di società caratterizzata dall’informazione one to many, “da uno a molti”, nella quale i flussi di notizia sono unilaterali e vengono gestiti dai media tradizionali a favore dei cittadini-lettori. Dopo la rivoluzione digitale, però, si è passati a una differente redistribuzione delle informazioni nel tessuto sociale. In questo nuovo contesto comunicativo, dove l’informazione è divenuta many to many, “da molti a molti”, “il soggetto è allo tempo stesso destinatario e fonte di messaggi polidirezionali”.
Queste considerazioni ci costringono a formulare un’ulteriore domanda: può il giornalismo difendere gli interessi del popolo se – per via delle nuove tecnologie – è divenuto esso stesso popolo?
Si ritiene doveroso dar risalto alla tesi del professor Alessandro Barbano:
se anche il giornalismo si riduce a una pratica, rischia di diventare un mestiere in via di estinzione di fronte all’abilità diffusa degli individui di fare da sé. Noi riteniamo che oggi più di ieri il giornalismo abbia il dovere diritto di rappresentare un elemento di qualificazione della comunicazione. Ma potrà vincere la sfida se sarà capace di governare e non di soccombere alla forza d’urto dei processi tecnologici.
Le degenerazioni del giornalismo
Il passaggio di consegne dalla rotativa al web ha determinato una rottura del classico oligopolio dell’Informazione e allo stesso tempo ha generato una potenziale diffusione capillare del Sapere. Nel migliore dei mondi possibili, il verificarsi di queste due condizioni avrebbe generato un ecosistema ideale per la proliferazione di contenuti dall’altissimo valore culturale. Nel nostro mondo, tutt’altro che perfettibile, esse sono state invece la causa di numerose degenerazioni in ambito giornalistico e di gravi patologie sociali.
Infodemia
In questi giorni il termine in questione è salito agli onori di cronaca, soprattutto grazie ai continui appelli lanciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Per infodemia si intende la
circolazione eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.
Infodemia deriva da Infodemic, un neologismo sincratico coniato dal professor David J. Rothkopf nel 2003 che si regge sull’unione di due vocaboli inglesi information ed epidemic. Questo termine fece l’esordio in un articolo del Washington Post dal titolo When The Buzz Bites Back. L’argomento principe della riflessione fu l’eccessiva attenzione mediatica riservata all’epidemia di SARS divampata in Cina nel novembre 2002. Il professore notò che le conseguenze politiche, economiche e sociali dell’epidemia risultavano essere del tutto sproporzionate rispetto agli effetti reali della malattia. Le responsabilità principali di questo dislivello furono addossate ai media del tempo (non ancora divenuti social) per via delle “voci infondate” e della “disinformazione” che avevano diffuso. Ci si trovò dinanzi a un primo tentativo di speculare sulle paure collettive.
Le analogie con la situazione attuale sono lampanti, con un’eccezione: le informazioni riguardanti la COVID-19 godono di una rapidità e capillarità di diffusione inimmaginabile ai tempi dell’epidemia di SARS. Secondo Andrea Fontana, infatti, all’epidemia biologica segue una vera e propria epidemia cognitiva:
mentre l’epidemia biologica avanza […] l’epidemia cognitiva accelera con informazioni di tutti i tipi date da fonti rilevanti. Medici, virologi, esperti della salute pubblica in queste ore hanno fatto affermazioni che sono poi state spesso riportate, dai mezzi informativi, in modo contraddittorio tra di loro.
Cosa genera, quindi, questa sovrabbondanza di informazioni? Su che livelli si distribuisce la comunicazione? A tal proposito risulta utile riprendere l’analisi proposta dal professor Nicola Grandi, secondo il quale vi sono tre diversi agenti comunicativi: istituzionali, giornalistici, altri. In quest’ultima categoria si inseriscono i partigiani della comunicazione “amatoriale” che non necessitano di titoli (o conoscenze) particolari. È necessario, inoltre, far riferimento ai canali di trasmissione di cui questi agenti si servono per diramare i loro messaggi (sia in situazioni di crisi epidemiologiche, che di crisi politiche o economiche). Nel caso delle istituzioni, i canali ufficiali sono rappresentati dai siti del Governo o degli enti pubblici di riferimento. Nel caso del giornalismo classico, invece, ci si riferisce alle pubblicazioni cartacee e digitali sulle testate più autorevoli o alla presenza nei salotti in TV. Per ciò che concerne la divulgazione amatoriale, infine, si fa riferimento ai canali figli del progresso tecnologico: Facebook, Twitter, Instagram, Whatsapp, eccetera.
Le interazioni di questi tre livelli e dei relativi mezzi di comunicazione non avvengono ex aequo. Se i primi due livelli si possono servire dei social network come amplificatori per le loro comunicazioni, lo stesso non vale per i “comunicatori amatoriali”. L’internauta con velleità comunicative, infatti, non potrà quasi mai servirsi di canali ufficiali o pubblicare su testate autorevoli e sarà costretto ad affermarsi nel cosmo dei social network. Ciò non significa, però, che il suo messaggio non possa giungere a un numero maggiore di individui: esattamente il contrario.
È proprio per questo motivo, ovvero la necessità di arrivare a un numero di cittadini sempre maggiore, che le comunicazioni dei leader politici, degli “addetti ai lavori” e dei giornalisti più autorevoli si fondono, in un calderone generalista offerto dai social network, alle considerazioni (non sempre verificate e verificabili) dei giornalisti fai da te o divulgatori scientifici improvvisati, generando così un cortocircuito informativo che porta al verificarsi del fenomeno dell’infodemia. Questo effetto è eccessivamente dannoso non solo per la tutela di un sano giornalismo, ma anche per la tenuta sociale dello Stato.
Giunti a questo punto è sempre forte la tentazione di chiamare in causa il fenomeno delle fake news, ma si ritiene che queste non possano fungere da capro espiatorio per il verificarsi dell’infodemia. Certamente occupano un posto di prestigio nell’universo della disinformazione, così come si rendono necessarie per la generazione di sentimenti quali odio, incertezza e paura. Ma la colpa di una tale sovrabbondanza di notizie è da attribuirsi principalmente al fenomeno della comunicazione istantanea, largamente utilizzato anche dai media mainstream. Cosa spinge, quindi, sia autorevoli firme sia autori minori del giornalismo nostrano a comunicare in tempo reale qualsivoglia avvenimento tacciabile di notiziabilità, senza concedersi il tempo di analizzare “a freddo” la questione?
Comunicazione istantanea e churnalism
Propedeutico per il verificarsi di crisi “infodemiche”, e seconda importante degenerazione nel mondo dell’informazione, è dunque l’”istantismo”. Coniato da Andrea Coccia e Alberto Puliafito, questo termine racchiude in sé buona parte del codice genetico del nuovo giornalismo 2.0. Nella definizione proposta dagli autori, ciò che più preoccupa è la rilevazione di un’esigenza fisiologica a commentare un qualsiasi fatto, vero o presunto, con rielaborazioni approssimative sotto vesti di analisi scientifica. Ciò è ancora più grave se da stortura comunicativa diviene pratica giornalistica diffusa tra i soggetti preposti all’informazione pubblica.
Analizzando attentamente l’infosfera, però, ci si accorge che per il giornalista di professione è vitale essere celere nella pubblicazione di notizie, informazioni e commenti a caldo, se non altro per non perdere terreno nei confronti della comunicazione social, del tutto indipendente da criteri qualitativi e priva di qualsivoglia barriera all’entrata nel mercato dell’informazione. In accordo con quanto sostenuto da Alberto Puliafito nel saggio Slow Journalism (redatto a quattro mani con Daniele Nalbone), si ritiene che
inseguire la comunicazione social ha abbassato l’asticella del criterio minimo per la pubblicazione di un pezzo: la verifica delle notizie è stata progressivamente soppiantata – perlomeno in termini volumetrici, non vogliamo generalizzare – dalla verosimiglianza[6].
Epifenomeni di tale degenerazione, poi, sono le breaking news, gli exit poll, le notizie degli uffici stampa e qualsiasi contenuto fruibile immediatamente, che, per dirla con Oscar Wilde, “dura poco e lascia insoddisfatti”. L’istantismo, quindi, costringe gli operatori dell’informazione 2.0 a produrre contenuti in grado di mantenere sempre alta la soglia di attenzione del lettore e di alimentare il dibattito sui social al fine di creare “movimento” intorno alla testata e sopravvivere alla brutale concorrenza del traffico dati.
Ci troviamo dinanzi al fenomeno del churnalism. Anche questo termine è un neologismo e deriva dall’unione tra l’espressione inglese churn out, ovvero tutela della quantità a dispetto della qualità, e journalism. Waseem Zakir, il suo ideatore, denunciava già nel 2008 la circolazione di pacchetti di notizie preparate da agenzie di news o da addetti alla comunicazione aziendale che venivano copia-incollate e distribuite su diverse testate cartacee mainstream. In un’indagine coeva sullo stato di salute della stampa del tempo, il Guardian scoprì che nel mercato britannico dell’informazione di qualità solo il 12% degli articoli poteva considerarsi frutto di un reale lavoro giornalistico. Il restante 88%, invece, era la conseguenza della rielaborazione di materiale non originale (80%) e della pubblicazione di articoli basati su fonti non verificabili (8%).
Bisognerebbe partire dal presupposto che il ruolo principale del giornalista è dato dal racconto e dall’interpretazione successiva di ciò che è già avvenuto, non dalla condivisione di pacchetti di notizie confezionati altrove o dalla ripetizione pedissequa di notizie inutili alla comprensione reale del fatto verificatosi. Alimentando il fenomeno del churnalism si è progressivamente creata una sfiducia collettiva nei confronti del nuovo giornalismo, percepito dai lettori alla pari della comunicazione amatoriale proposta da amatoriali informatori sui social network.
Marketing digitale
Al netto degli introiti provenienti dall’edicola, la fonte di guadagno principale degli editori della carta stampata è sempre stata la pubblicità. Con il cambiare dei tempi, però, il ruolo dell’inserzionista (proprio come quello del giornalista) ha subìto una metamorfosi radicale. Mentre in precedenza il legame simbiotico tra pubblicità ed editoria risultava proficuo, se non addirittura necessario, per garantire la qualità dell’informazione, oggi il medesimo legame risulta essere deleterio[7]. Anche qui ci troviamo dinanzi a una mutazione dettata dall’avanzamento tecnologico. I social network e i motori di ricerca – che del progresso tecnologico sono figli – garantiscono agli inserzionisti del nuovo millennio un numero sterminato di potenziali clienti disposti a lasciare traccia delle loro preferenze (commerciali, sessuali, religiose, eccetera).
A differenza della pubblicità generalista, unica possibile sulla stampa classica, Internet offre al marketing la possibilità di targhettizzare gli utenti e confezionare annunci pubblicitari ad hoc, liberandoli da tutti i limiti imposti dalla carta e causando un progressivo slittamento degli annunci pubblicitari sul web.
Dopo la crisi della carta stampata, quindi, per poter sopravvivere a queste mutazioni tecnologiche, nuovi e vecchi media hanno dovuto cedere alle sirene del marketing digitale e adottare dei piani di business basati sulla vendita di spazi pubblicitari in grado di generare guadagni proporzionali al numero di clic ottenuti. Non potendo, nell’economia del lavoro, analizzare il processo di trasformazione dei clic in denaro, ci si accontenti di sapere che il numero di visualizzazioni di un articolo determina considerevolmente gli introiti degli editori. La tentazione, quindi, è sempre più quella di “riempire spazi con contenuti”. Non è importante il livello qualitativo dell’elaborato proposto, purché questo generi un traffico tale da garantire un utile: è la dittatura del clickbait.
Le nuove strategie commerciali adottate dai media online hanno quindi contribuito ad assottigliare la linea di demarcazione tra un reale giornalismo e la creazione di contenuti basati sull’intrattenimento o sulla pubblicità, generando fenomeni come l’infotainment, il newsjacking, il brand journalism, il clickbaiting et similia. Il titolo sensazionalistico, per intendersi, garantisce un ritorno maggiore in termini di clic, quindi di visibilità, quindi di guadagno.
La necessità di ottenere più visualizzazioni richiede inevitabilmente una sovrapproduzione di articoli. Un piano editoriale da ”100-500-1000” articoli al giorno non permette una verifica accurata delle fonti, né tantomeno una reale assunzione di responsabilità da parte della direzione del giornale. Gli editori tendono oggi a delegare la responsabilità del contenuto di ogni lavoro al singolo giornalista, bypassando la classica verifica piramidale che da sempre garantisce una maggiore qualità nella stesura degli articoli. A tal proposito, si ritiene doveroso riportare la testimonianza di Andrea Daniele Signorelli, autore di numerose testate mainstream:
spesso ci si immagina un giornalista che lavora tutto il giorno per scrivere un singolo pezzo che viene pagato 3/5/15 euro. Le cose non stanno così. L’ho sperimentato per anni sulla mia pelle: ciò che viene richiesto è di scrivere moltissimi articoli ogni giorno (anche dieci); articoli brevi e da produrre all’istante, in cui si riprendono polemiche, dichiarazioni sui social dei vari politici, gossip e quant’altro. In questo modo, per il giornalista che li produce, diventa possibile mettere assieme un compenso che, in alcuni casi, può persino essere dignitoso. Il problema è (anche) un altro: è dignitoso il giornalismo che si produce in questo modo, fatto di tonnellate di articoli che diventano inutili nel giro di un paio d’ore?
Come si è visto, allora, vi è un altro endemico problema che il mondo dell’informazione digitale reca con sé. Il giornalista, o l’aspirante tale, è troppo spesso costretto a oscillare tra una sincera ricerca della verità e la necessità di dover sopravvivere in un sistema eccessivamente competitivo e poco remunerativo.
Ne viene da sé che chi opera nel mondo dell’informazione dovrebbe essere immune al mondo dell’industria e del capitale per mettersi al servizio di una causa più elevata. Seppur la Verità sia in sé un concetto complesso e non pacificamente dibattibile, la Ricerca della Verità è attività necessaria per definirsi giornalista. La parola chiave degli operatori dell’informazione del futuro deve essere, a parer di chi scrive, “Ricerca”.
Ecco perché è ragionevole pensare che la rinascita di questa professione possa prendere le mosse proprio da un giornalismo slegato dalle logiche commerciali e pubblicitarie imposte dalla nuova generazione di editori. Un rinato giornalismo dovrebbe infatti trovare linfa vitale principalmente (ma non solo) nelle università e nei luoghi della cultura, non in aziende mediatiche dedite al profitto. La parcellizzazione dell’informazione e l’eccessiva specializzazione nel mondo del sapere, poi, non permettono più una narrazione approssimativa della realtà. Se a questo non irrilevante problema si aggiunge il fenomeno diffuso in rete del “giornalista fai da te” (e l’attuale situazione mondiale lo dimostra), il rischio concreto è quello di non poter più differenziare quello che è Informazione, ovvero un prodotto figlio della ricerca e della verifica delle fonti, da quello che non lo è, ovvero un prodotto commodity o infotainment.
La sostenibilità del giornalismo in rete
Si è detto che le redazioni dei nuovi progetti giornalistici dovrebbero essere composte da personale reclutato nei luoghi del Sapere, ma non si è accennato alla sostenibilità economica di queste nuove proposte editoriali. Come è possibile mantenere in piedi una redazione senza i proventi derivanti dalla pubblicità? È possibile sottrarsi alla dittatura del clickbaiting? Si può tornare a riempire gli spazi con contenuti di alto livello e non con annunci mascherati da articoli giornalistici?
In alcuni casi questo è stato possibile. Per avere un’idea di quello che è il mondo dell’informazione di qualità, perché sul digitale esiste anche la qualità, è bene riportare alcuni esperimenti virtuosi realizzati da media nativi digitali in Italia. Tra tutti svettano Valigia Blu e Slow News.
Una caratteristica che accomuna questi progetti è la scelta di mettere al centro dell’informazione il rapporto tra autore e lettore. Il difficile compito a cui si votano questi attori dell’informazione di qualità è quello di riacquistare la fiducia del lettore per riconsegnare al giornalismo il posto che merita nell’ecosistema sociale. È un percorso di sensibilizzazione sulla crisi che ha investito questa professione e di creazione di una comunità di lettori fedeli e attenti. Sono questi ultimi che nell’era del digitale hanno le redini del giornalismo. A questi, i lettori, si richiede di partecipare attivamente alla costruzione del giornalismo 2.0. Ed è sempre ai lettori che si chiede di valutare economicamente il lavoro svolto dalla redazione. Interessante, allora, la strategia usata da Slow News. Nella mission del progetto si legge, infatti: “La leva di sostenibilità di Slow News è il tuo sostegno economico. Non c’è pubblicità. I padroni sono i lettori. Siete voi. E quanto costa lo decidi tu”.
Valigia blu, invece, ha adottato un altro metodo che nel corso di questi ultimi due anni ha fruttato alti compensi e ha permesso alla redazione di mantenere alto il livello di informazione offerta: il crowdfunding. Nella sezione About us si legge: “Basata sui fatti. Aperta a tutti. Sostenuta dai lettori. Questa è Valigia Blu. Verifica, contesto, approfondimento sono le nostre principali attività giornalistiche. Senza pubblicità e al servizio della community”.
Grazie a questi esempi virtuosi è ancora possibile sperare in un giornalismo diverso, in un mondo dell’informazione scevro da condizionamenti commerciali e in grado di rimettere il lettore al centro del progetto editoriale.
L’In-Formazione di Policlic
Rileggendo il motto del primo quotidiano della storia, “credibilità e imparzialità”, ci si accorge di quanto realmente sia cambiato il mondo dell’informazione.
Laddove il giornalismo rappresentava un presidio di democraticità, oggi rappresenta il braccio armato di un sistema politico e commerciale. Laddove si combatteva per la libertà e per gli interessi del cittadino, oggi si combatte per il primato sui motori di ricerca.
Dopo aver ripreso in più punti le degenerazioni del giornalismo, risulta più facile descrivere Policlic partendo da quello che non è. Policlic non è comunicazione istantanea, non è infotainment, non è clickbaiting, churnalism o marketing. Policlic è un progetto editoriale a lungo termine che trova nell’approfondimento culturale la propria missione sociale.
La nostra redazione si caratterizza per la sua stratificazione multidisciplinare e per la presenza di studiosi, oltre che di giornalisti tout court. Lo scopo che ci si propone è quello di affidare l’analisi dei maggiori fatti sociali a esperti del settore di riferimento, in modo tale da poter consegnare al lettore un prodotto editoriale il più vicino possibile alla realtà oggettiva. Questo approccio mira a redigere lavori basati su conoscenze acquisite nel corso del tempo e non reperite rapidamente per la stesura di un articolo in più.
Ciò che si vuole proporre a vecchi e nuovi lettori è una tipologia di informazione diversa, un’In-Formazione che si collochi esattamente a metà tra la tipologia di ricerca condotta nelle università e l’informazione mainstream.
Per raggiungere tale scopo è necessario sottrarre al mondo accademico il metodo scientifico (basato sulla ricerca di fonti primarie e attendibili) e riadattarlo al modello di comunicazione convenzionale. Tale sistema ibrido permette di ricostruire in profondità le tematiche trattate, senza tralasciare il contesto di riferimento. L’utilizzo delle note a piè di pagina e i collegamenti ipertestuali sono quindi strumento necessario sia per la stesura che per una migliore comprensione degli articoli di Policlic.
Esattamente dopo tre anni di attività nel mondo dell’Informazione, abbiamo deciso di inaugurare una nuova fase del nostro progetto: la pubblicazione di una rivista digitale a cadenza mensile. Questa nuova proposta editoriale, che si aggiunge alla consueta attività di informazione proposta sul nostro sito, nasce dall’esigenza di offrire, in un unico “volume”, un’analisi delle più rilevanti questioni che di mese in mese si verificano nel contesto nazionale e internazionale, nonché della loro possibile interconnessione.
Ultima, ma non per importanza, è la ricerca continua di interazione con voi, i lettori, utilizzando in maniera intelligente gli strumenti che la tecnologia mette a nostra disposizione. Per combattere il virus della disinformazione e andare oltre alla schizofrenia comunicativa che caratterizza i nostri tempi è necessario un coinvolgimento sempre maggiore di lettori, di scrittori e di amanti della ricerca.
Nella speranza che il nostro lavoro possa offrire ulteriori chiavi di lettura utili a comprendere la complessa società in cui viviamo, non ci resta che augurarvi una buona lettura!
William de Carlo per Policlic.it
Note
[1] A. Barbano, Manuale di giornalismo, Editori Laterza, Edizione Digitale: settembre 2013, p. 10.
[2] Ivi, p. 11.
[3] “La leggenda vuole che a coniarla sia stato il politico e intellettuale irlandese Edmund Burke, che rivolgendosi ai giornalisti presenti nella galleria del Parlamento avrebbe esclamato: ‘Voi siete il quarto potere, e il più importante’. In realtà l’episodio è citato da Thomas Carlyle, ma non trova riscontro negli scritti di Burke. Peraltro, la presunta espressione di Burke ‘fourth estate’, dovrebbe essere tradotta meglio come ‘quarto stato’ (quarto elemento dell’organismo socio-politico). La frase comunque è passata alla storia per indicare la forza e l’indipendenza della stampa anglosassone; un fatto, e in parte un mito, destinato a consolidarsi ulteriormente negli anni a venire.” In O. Bergamini, La democrazia della Stampa, Editori Laterza, Lecce 2018, p. 31.
[4] O. Bergamini, La democrazia della Stampa, Editori Laterza, Lecce 2018, p. VII.
[5] Scrive Alessandro Barbano a proposito della nascita della TV: “è uno snodo cruciale nell’evoluzione del giornalismo: per la prima volta il suo obiettivo non è più la rappresentazione della realtà, così come era stata fino ad allora, ma una sua ricostruzione mediatica. Questo spostamento dell’oggettività del reale a una sua interpretazione riguardava anche le tecniche di narrazione dei fatti, i quali da quel momento in poi sarebbero stati raccontati in maniera diversa, privilegiando lo stile di scrittura soggettivo”. In A. Barbano, Manuale di giornalismo, Editori Laterza, Edizione Digitale: settembre 2013, p. 14.
[6] D. Nalbone, A. Puliafito, Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?, Fandango Libri s.r.l., Roma, edizione digitale, p. 126.
[7] Giorgio Bocca nel 2008 aveva intuito la pericolosità dei mutamenti in atto in ambito pubblicitario: “Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l’editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre”.