La Democrazia come potere del popolo: Rousseau e il Souverain
Partendo dall’etimologia del termine, “Democrazia” appare come un termine inequivocabile del vocabolario politico: si tratterebbe inevitabilmente del potere/governo (kratos) del popolo (demos). Al di là delle varie scuole di pensiero, Democrazia rimanda infatti al concetto di “sovrano” espresso da Rousseau nel suo Du Contrat Social nel 1762:
“si vede in questa formula l’atto d’associazione che contiene l’impegno reciproco
del pubblico con i particolari, e che ciascun individuo, contrattando – per così dire
– con se stesso, si trova ad impegnarsi in due rapporti, cioè come parte del
Sovrano versi i particolari e come membro dello Stato verso il Sovrano”
(Rousseau, 2010, p. 133).
Il sovrano diviene quindi il pubblico, l’insieme degli individui dal quale deriva il potere. Lontano dal monarca indicato da Hobbes come freno da contrapporre al caos – lo stato Leviatano – che si fa potere e fautore della guerra alla guerra, cioè dello scontro esistenziale contro l’homo homini lupus, il lato massimamente distruttivo dell’uomo. Il potere non è dunque male minore di un’umanità sconvolta dal conflitto né fautore di tale conflitto – come il Behemoth di Neumann. È invece la vivida riscoperta del popolo come associazione dei singoli che porta con sé il progresso e la liberazione dall’oppressione.
Il futuro e l’utopia corporate: al di là del progresso di Bauman e della democrazia come lotta di interessi
È proprio sul progresso che cade la visione ottimistica di Rousseau, riscoprendo così il mondo sul sospetto dell’homo destruens tratteggiato da Hobbes nel suo Leviatano e prima ancora dal Machiavelli più cupo di Il Principe. Il progresso – spiega Bauman – è negazione della storia, in particolare nel mondo fordista:
“Il progresso? Non pensate che sia “il frutto della storia”. È il nostro frutto, il frutto
di noi che viviamo nel presente. La sola storia che conta è quella non-ancora-fatta
-ma-attualmente-in-corso-d’opera e quella ancora-da-fare: vale a dire il futuro
[…]” (Bauman, 2011, p. 149)
Come eludere la tendenza del progresso di schiacciare la storia trasformandola ad uso e consumo del “noi facciamo”? Come impedire che l’Io construens diventi anche destruens del noi passato – dell’umanità tramontata – e che soprattutto manipoli il noi del futuro, la comunità umana che verrà? Questa è una domanda centrale nell’environmental security, quella branca dei security studies che si occupa del rapporto tra ambiente e sicurezza e che trattando di clima inevitabilmente finisce per trattare il rapporto tra presente e futuro. È inoltre un punto chiave del dibattito sulla responsabilità, in particolare nel saggio scritto da Hans Jonas nel 1976 e intitolato “Responsibility today: the ethics of an endangered future”. La responsabilità è secondo Jonas rivolta al futuro in particolar modo perché il tema trattato – come ai tempi del Manifesto Einstein-Russell contro le armi nucleari – è quello di un rischio che mette in discussione non solo “cosa l’uomo debba fare”, ma anche “se l’uomo sarà”, ossia se le scelte dell’uomo lo porteranno alla catastrofe e all’annientamento della specie (Jonas, 1976, p. 81).
Il progresso insomma pone nell’era dell’informatica come nell’era del nucleare tratteggiato da Jonas la questione già sollevata alle soglie dell’era della genetica da Michael Crichton in Jurassic Park. Essa riguarda il bisogno della scienza di controllare, quanto il suo limite nel saper dire cosa l’uomo possa fare ma non ciò che l’uomo non possa fare. Una questione sintetizzata bene in una frase del film omonimo: “i vostri scienziati erano così preoccupati nel pensare se avrebbero potuto farlo da non fermarsi a pensare se avrebbero dovuto”. La fragilità della scienza ha in questo senso solo anticipato la fragilità della politica che oggi scorrettamente – e facendo scarica barile – definiamo l’epoca delle fake news. Esaurito il ruolo sociale della tecnica come scienza da una parte e come produzione industriale dall’altra, si è arrivati all’indebolimento della politica e solo come conseguenza di quest’ultima ad una disgregazione sociale tale da ricreare nuove comunità attorno ad un’informazione fuori controllo.
Abbiamo parlato in ultimo di controllo e ciò non è casuale né tutto sommato inaspettato: cos’è se non volontà di controllo la politica dell’informazione attuata negli ultimi decenni? Il controllo dell’informazione intesa in senso lato come flusso di dati è onnicomprensivo, includendo la sorveglianza massiva operata dall’NSA americana fino al tentativo da parte delle corporazioni americane – Facebook, Google, Amazon – di dirottare i flussi di dati attraverso i propri server (vedasi l’acquisizione da parte di Amazon di GoodReads), passando attraverso i tentativi di contrasto all’informazione estremista attuati sia dai governi sia da corporation come Google. Controllo è anche la tendenza verso il transumanismo celebrata dalla volontà di combattere e sconfiggere la morte, una volontà che aleggia nella Silicon Valley. La techné è tornata ed è più forte di prima. E forse vuole mangiarsi anche le cose politiche. Almeno se davvero Zuckerberg pensa di candidarsi come presidente degli Stati Uniti come vagheggiato da CNBC, mentre altre figure corporate istituiscono un proprio culto della personalità – v. la voce Steve Jobs – e altre corporazioni ancora – v. Amazon – portano al limite la tendenza nel marketing a sponsorizzare non il prodotto ma la propria mission: “we make history”. Verrebbe da aggiungere “we happy few”, citando un po’ l’Enrico V di Shakespeare, un po’ il videogioco distopico di Compulsion Games.
Non è un caso dunque che gli unici che propongano soluzioni di controllo integrate nel loro proprio modo di stare al mondo quanto nel modo in cui il mondo oggi si presenta – in simbiosi con la tecnologia e in spostamento verso le data sciences, delle scienze del dato – siano in netto vantaggio su chi solo oggi parla di controllo, di purezza e di fine delle contaminazioni. Se oggi la politica prova a fare l’estrema destra combattendo con i mezzi di una tecnica infarcita di ingegneria e di informatica – dove tutto è sistema (magari complesso) e tutto è trasformato da contaminazione a sequenza di codice – allora ha perso in partenza. Questo in particolare da quando dopo la fine dell’ottimismo post-ideologico, il mondo si è trasformato – per mano dei terroristi, ma anche di ideologi come Huntington e Houellebecq – nell’apocalisse in terra. E in particolare ora che lo stato di crisi ha privilegiato l’azionismo sulla pianificazione, la lotta per tenersi stretti i propri invece della lotta per convincere gli altri. Sulla prima ha evidentemente già vinto l’estrema destra, mentre sulla seconda la tecnica – quella del consumo, non quella degli ideali – ha già messo mano consegnando il potere alle filter bubble e non al World Wide Web, ai Bezos, non ai Berners-Lee. Poco può oggi una politica che per uno scialbo tentativo di trasformazione in consumo tenta l’elettore dicendogli che il voto fa i suoi interessi e anche la sinistra parla di “risorse” e non di uomini.
Fichte, Il volto di Levinas e Human
Come l’Internet nella sua prima utopia – quello di Berners-Lee come quello del suo discepolo spirituale Aaron Swartz – la scienza come comunità di esseri umani che si passano il testimone generazione dopo generazione ha un suo padre nobile. Questo padre nobile è il Johann Fichte di La missione del dotto:
“Quanto vi fu di grande, saggio e nobile tra gli uomini, – quei benefattori del
genere umano i cui nomi leggo annotati nella storia universale, e quelli ancora
più numerosi di cui sono riportati i meriti ma non i nomi, – tutti costoro hanno
lavorato per me: io raccolgo i frutti del loro lavoro; scopro sulla terra che essi
abitarono le orme benedette dei loro passi. Io posso, appena lo desidero,
raccogliere il sublime compito che essi si erano assegnati, quello di rendere
sempre più saggia e felice la nostra comune stirpe di umani fratelli. Posso
continuare a costruire dove essi dovettero arrestarsi. Posso portare più vicino
al suo compimento lo splendido tempio che essi dovettero lasciare incompiuto.
“Ma anch’io dovrò, come loro, interrompere la mia opera!” potrebbe dire
qualcuno. Oh! Questo è il più sublime tra tutti i pensieri: se mi assumo quel
compito sublime, non avrò mai finito di completarlo; se dunque è certo che
l’assunzione di questo compito rappresenta la mia destinazione, è anche
sicuro che io non posso mai finire di agire, e quindi non posso mai finire di
essere. Ciò che si chiama morte non può demolire la mia opera; e poiché la
mia opera dev’essere completata, e in nessun’epoca potrà esserlo interamente,
perciò appunto la mia esistenza non si trova racchiusa da alcun lasso di tempo,
ed io sono eterno” (Fichte, 2004, pp. 52-53)
La visione della scienza qui espressa da Fichte nel massimo del suo splendore, pur intrisa di un elogio eccessivo della ragione, giunge prontamente a rovesciare Ian Malcolm, rovesciandone la critica mossa alla scienza moderna di salire sulle spalle dei giganti e – senza rispetto né disciplina – utilizzarne i frutti per “etichettare e vendere”. La scienza è qui osservata come comunità di uomini, con quel misto di stupore e meraviglia con il quale un amico guardava – condividendo su Facebook – l’epigrafe posta per Boole ad Oxford. Ma come questo può andare oltre la scienza? Come può divenire patrimonio non degli scienziati ma dell’umanità?
Può appellandosi – come Levinas – all’etica. In un suo famoso saggio, il filosofo parla infatti dell’etica come prima filosofia, rovesciando il rapporto tra di essa e l’analisi di ciò che esiste, l’ontologia. A legare uomo e uomo Levinas pone il “volto”. Lo pone come punto di contatto che va ben oltre la maschera – intesa come espressione di un ruolo sociale – mostrando la fragilità marchio della comune umanità:
“Ma nella sua espressione, nella sua mortalità, il volto di fronte a me mi invoca,
mi chiama, mi implora, come se l’invisibile morte che deve essere affrontata
dall’altro, dalla pura alterità, separatezza, in qualche modo, per qualche modo
fosse un mio affare” (Levinas, 1989, p. 83)
Dal volto, espressione dell’umano, emerge la prossimità:
“La prossimità all’altro è il significato del volto, e ha un significato fin dall’inizio che
va oltre quelle forme plastiche che per sempre provano a coprire il volto dalla percezione come una maschera della loro presenza. Ma sempre il volto si mostra attraverso tale forme. Prima di qualsiasi espressione e al di sotto di tutte le
espressioni, le quali coprono e proteggono con un volto immediatamente adottabile
di contegno, c’è la nudità e la destituzione dell’espressione come tale, cioè
estrema esposizione, mancanza di difese, la vulnerabilità stessa”
(Levinas, 1989, p. 82-83)
L’umano troppo umano emerge qui nella sua interezza, nella sua complessa, incoerente e potente forma. Una forma che da poco ha trovato espressione artistica i pochi anni straordinari. La prima di queste espressioni è tanto vicina alla visione di Levinas da lasciare allibiti. È Human, un progetto immenso di Yann Arhus-Bertrand che racconta l’umano in una maniera senza precedenti nella storia del cinema. L’opera, resa disponibile in una versione estesa da tre ore direttamente su YouTube, si sviluppa attorno alle interviste a persone di tutto il mondo. Persone comuni quanto figure politiche o del cinema – famose le interviste al presidente dell’Uruguay Mujica e all’attrice Cameron Diaz. Il soggetto? La vita, la morte, l’amore, il dolore, la malattia, il lavoro, la famiglia. Il tutto reso in blocchi tematici alternati a scenari di paesaggi e musica. Human è un prodotto della bellezza e della poesia, della complessità e mistero della condizione umana espressi nel volto di Levinas.
Seldon, Interstellar e Cloud Atlas: la democrazia in divenire e la democrazia che verrà
Che ci sia un legame tra il volto di Levinas e il senso di responsabilità verso l’opera del passato è testimoniato dallo sguardo sulla storia posto da Asimov in un suo personaggio, Hari Seldon: “personalmente, non vivrò neppure altri cinque anni […] eppure per me questo problema è di fondamentale importanza. Chiamatelo idealismo. Dite che è la presunzione di identificare me stesso in quella mistica generalizzazione a cui ci riferiamo con il termine di “uomo” (Asimov, 2013, p. 32). È in questa chiave che si realizza l’adattabilità dell’attaccamento all’umano inteso come volto di fronte a noi ad un ambito di più ampio respiro che si estende non solo nello spazio ma soprattutto nel tempo, non solo alla comunità degli studiosi descritta da Fichte ma all’umano come specie. Come esploratore di mondi.
Perché l’uomo è esploratore di mondi in Interstellar, altro tesoro degli anni del cinema citati sopra, dove all’umanità è richiesto – in una splendida citazione del poeta Thomas – di “incollerirsi di fronte al morire della luce”. Una luce che non è solo il rischio della fine della vita sulla terra come in Interstellar ma metaforicamente ritorna anche fuori dalle sale, negli anni del terrore e dell’odio di cui siamo testimoni. Un terrore e un odio che – manifesta Interstellar – sono combattuti con l’”l’unica cosa per la quale valga la pena morire nello spazio”, ossia l’amore. Un amore che è intergenerazionale, come lo è nell’ultima perla di questo trittico, Cloud Atlas, altra opera monumentale. Dove si intrecciano le storie di intere generazioni e dove “le nostre vite non sono nostre. Dalla culla alla tomba siamo legati agli altri. Il passato e il futuro. E attraverso ogni crimine e ogni gentilezza rinasce il nostro futuro”. È questo il concetto di entanglement, il legame che Hobber definirebbe come Human-to-Human (tra esseri umani), ma che estende anche al rapporto di dipendenza tra umani e cose (Human-to-Thing) e tra le cose stesse (Thing-to-Thing) (Hodder, 2012).
Il legame che contraddistingue la specie umana diventa così un forte punto di appartenenza e di solidarietà reciproca. Ma può essere anche un indizio del bisogno di uno sguardo intergenerazionale che osservi non solo la democrazia in divenire – quella di un mondo complesso e dinamico – ma anche la democrazia che verrà. La democrazia che non vedremo mai che ma sarà lascito anche di ciò che faremo nel lasso di tempo a noi concesso sulla terra.
L’opera come Arte e l’opera come Azione
Come per Pascal, noi siamo lasciati spaventati e meravigliati “qui invece che là, ora invece che allora” (Pascal, 1996, p. 77). Non possiamo per affrontare questi sentimenti se non sceglierci un compito, ma tale compito sarebbe vuoto senza un’opera. Ma se l’opera può essere arte, come può essere azione? Sembra evidente quanto pericoloso e inquietante possa essere un mondo di uomini e donne che giocano a fare del mondo una tela, perché questo è un mondo totalitario, dove tutto è oggetto e proiezione della volontà, sia gli oggetti sia – soprattutto – gli uomini. È poi chiaro dalla storia del terrorismo come gli altri – il nemico, ma anche la comunità da difendere – possano essere oggetti di una brutale riduzione a simbolo, il feticcio di una nomina a corpo da bruciare per lanciare un messaggio. E non è quindi un caso che il terrorismo sia, dalle sue origini anarchiche, una propaganda by deeds, una propaganda tramite fatti (e non parole). Come impedire che la realtà vista come opera diventi niente più che un mero oggetto del desiderio, un allungamento del tratto della penna dal foglio alla vita degli altri? Come evitare insomma che – come per il Deidara di Naruto Shippuuden – l’arte sia “esplosione”?
Un primo invito viene proprio dall’arte, sempre più immersa nella realtà e sempre più contaminata in e da essa. Un fenomeno che è passato inosservato in questo senso ma detiene un messaggio potentissimo è quello dei flashmob. I flashmob, anche se qualche volta ridotti a spot pubblicitari, mantengono un ruolo chiave: sono arte che si trasforma in esistenza. Sono una contaminazione tra la bellezza dell’arte e la bellezza dell’esistente. Oltretutto con la prospettiva di creare due forme di bellezza, una – quella del “prodotto finale”, video o foto che sia – nei canoni della bellezza artistica, l’altra – l’esperienza, la comunità che legano persone diverse in modo in parte organizzato in parte casuale – che risponde ai canoni meno strutturati della bellezza che pervade la vita umana.
Finisce così che pur essendo fenomeni umani – quindi pieni di elementi contrastanti – i flashmob rappresentano il modo di intendere la bellezza che si esprime nel mondo al di fuori dell’arte. Anzi, è proprio la loro natura umana a renderne affascinante, misteriosa ed emozionante la scoperta. Essa è un elemento fondamentale della sua bellezza. E come l’amore che per J.K. Rowling “lascia il segno” (Rowling, 2001, p. 284), essa è incarnata nella realtà e nell’insieme di persone che va a toccare. È questo il significato più profondo di opera ed è questo che lega a doppio filo l’opera artistica e quella al di fuori dell’arte.
Così come la bellezza si estende al di là dell’opera artistica, cosa può la bellezza umana per esprimersi nel mondo? C’è probabilmente una principale parola per definirlo: l’amore. L’amore esprime tanto il potente istinto alla comunità, quanto la sua possente spinta alla crescita, allo sviluppo e alla continuità nel tempo. È forse l’unico principio che può spiegare le parole di Sir Baden Powell nella lettera ai membri del movimento Scout da lui creato: “il vero modo per essere felici è dare felicità agli altri. Provate e lasciate questo mondo un po’ migliore di come l’avete trovato e quando arriverà il vostro turno di morire, potrete morire felici, sentendo di non aver sprecato il vostro tempo ma di aver fatto del vostro meglio”. L’opera è quindi indissolubilmente legata al tempo (erga kai emerai, “le opere e i giorni” come in Esiodo), ma è anche totalmente nel mondo, totalmente umana. Totalmente dentro la linea temporale affidataci che – in meraviglia – ci vede attori e osservatori.
Il miracolo: Il popolo che è e il popolo che dovrà essere
Di fronte a tanto mistero e tanta bellezza, tanto amore e tanto odio, tanta felicità e sofferenza, cosa può un essere umano per i propri simili, cosa può una generazione per l’altra? Può innanzitutto guardare al mondo e alla storia cosciente del miracolo che porta in dono, una speranza che è sensibile tanto ai miracoli umani e naturali, quanto alla sofferenza. Una speranza pratica, terrena, come quella indicata da don Maffeis:
“Noi uomini e donne viviamo in questa storia e non possiamo rifugiarci in storia diversa, edulcorata[…], ma non vogliamo che la testimonianza diventi vago
ottimismo. Quello che fa la differenza […] è riconoscere come questa unica
storia sia intrecciata da altro filo, quello della speranza. Perché non è solo la
mano dei violenti a fare la storia, ma c’è la mano della nostra gente che traccia
questo filo di speranza per dare speranza al mondo di oggi”
La via è indicata in questo esempio dalla chiesa cattolica, ma non può non animare anche atei e agnostici – tra i quali l’autore. È un assunto, d’altro canto, anche di un mondo tutto sommato lontano dalle chiese, quello della sicurezza: resiste chi mostra non solo capacità, concentrazione, ma anche senso dell’umorismo. Chi resiste all’oscurità che attanaglia quando si vive la paura, la solitudine e l’odio. È un risultato che arriva col tempo e che deriva non dalla desensibilizzazione, ma dall’affetto. Dall’istinto di protezione intrinseco nella solidarietà proprio di fronte all’insicurezza. Un senso di protezione che non può non estendersi, ma che anzi deve superare la piccola comunità e cercare il contatto, cercare appunto l’umano.
Il contatto è in conclusione fondamentale, perché serve a riaggregare ciò che è oggi disgregato, proprio perché è facile odiare il nemico, proprio perché la solidarietà è spezzata. Alla base c’è il miracolo per definizione, ciò che fa dell’essere umano qualcosa di differente dalle oggetti che crea e – come testimoniato da Blade Runner: 2049 – dalle macchine: la nascita. Il superamento di Rousseau avviene infatti con una svolta delineata dal mangaka Masashi Kishimoto. Nell’opera di Kishimoto, il sovrano non è il popolo, ma il popolo che verrà: i bambini. Nell’anime Naruto: Shippuuden il tema diviene centrale negli episodi della Saga di Hidan e Kakuzu (ep. 72-88), ma permea l’intera opera, donando alla protezione della comunità una prospettiva diversa che può essere ripresa anche in chiave democratica.
Se loro – i bambini – sono i portatori della democrazia, un giorno da adulti ne diverranno gli interpreti e i guardiani, per poi passare il testimone a chi verrà dopo di loro. La democrazia da lotta in difesa degli interessi personali diventa in questo modo una lotta per costruire le basi di ciò che sarà. Diventa la rappresentazione della genitorialità raffigurata da Kahlil Gibran nella celebre poesia I vostri figli: “voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti”.
Francesco Finucci per Policlic.it
Fonti:
Asimov, I. (2013), Trilogia della fondazione, Mondadori
Bauman, Z. (2011), Modernità liquida, Laterza
Fichte, J. (2004), La missione del dotto, Fabbri Editore
Hodder, I. (2012), Entangled, Wiley
Jonas, H. (1976), “Responsibility today: the ethics of an endangered future”, Social Research, vol. 43, n. 1, pp. 77-97
Levinas, E. (1989), The Levinas Reader, pp. 75-87
Pascal, B. (1996), Pensieri, Newton Compton
Rousseau, J. (2010), Du contrat social, Paris, H. Champion
Rowling, J. K. (2001), Harry Potter e la pietra filosofale, Salani Editore