Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 2 pubblicata il 27 giugno.
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Il 18 maggio 1896 la Corte Suprema degli Stati Uniti pronunciò la sentenza riguardante il caso Plessy v. Ferguson[1], respingendo il ricorso presentato da Homer Plessy. Con questa decisione, fu sancita la liceità della segregazione razziale e della legislazione segregazionista promulgata nei due decenni precedenti dagli Stati del Sud, secondo la dottrina del “separati ma uguali”.
Occorre, a questo punto, fare un passo indietro e tornare alla Guerra di secessione[2] e agli anni immediatamente successivi. Quel periodo, infatti, soprattutto dal punto di vista normativo, fece segnare numerosi passi in avanti per quanto riguarda i diritti politici e civili degli afroamericani. A guerra ancora in corso, anzitutto, il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln emanò il Proclama di Emancipazione, con il quale si stabiliva che tutte le persone tenute schiave all’interno degli Stati ribelli fossero da allora in poi libere. La portata del Proclama era però limitata: si applicava infatti soltanto agli Stati ribelli, non toccando dunque gli Stati schiavisti ma non secessionisti (Missouri, Kentucky e Virginia occidentale[3]), e la sua applicazione era subordinata alla vittoria dell’Unione. Ciononostante, alcuni effetti li ebbe. Oltre a consentire l’arruolamento nell’esercito dell’Unione di afroamericani, infatti, portò anche la guerra su un diverso livello morale: gli Stati unionisti del Nord stavano combattendo una “crociata per la libertà umana”.
I diritti civili degli afroamericani dopo la Guerra di secessione
La guerra finì il 9 aprile 1865, e i dodici anni successivi, che passarono alla storia come “Età della Ricostruzione”, furono densi di notevoli novità legislative in ottica di diritti civili per gli ex schiavi. Nello stesso 1865 fu infatti approvato il XIII emendamento alla Costituzione, con l’obiettivo di rendere costituzionale l’abolizione della schiavitù. Il testo prevedeva, appunto, che non potesse esserci negli Stati Uniti alcuna forma di schiavitù o involuntary servitude, se non nei casi di punizione per crimini eventualmente commessi. Mark Graber riporta in un suo scritto il momento in cui l’emendamento fu approvato dal Congresso:
per un momento ci fu solo un incredulo e vuoto silenzio. Poi la Camera esplose in un applauso. I rappresentanti lanciavano i cappelli in aria e li riprendevano […]. I neri nel pubblico erano ugualmente commossi, non solo per il significato dell’evento ma anche per la reazione dei bianchi intorno a loro. Per molti repubblicani al Congresso quello fu il momento più alto della loro carriera.[4]
Nel 1866 toccò al primo Civil Rights Act. L’espressione “diritti civili” entrò finalmente nel dibattito pubblico americano, in riferimento all’uguaglianza tra i cittadini e alla discriminazione razziale, influenzando profondamente in questo senso la storia successiva[5]. Le motivazioni che spinsero il Congresso a promulgare la legge sui diritti civili derivavano dalla situazione di alcuni Stati democratici del Sud[6]: negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, infatti, durante la presidenza Johnson[7], erano stati approvati i cosiddetti Black Codes, volti a limitare la libertà degli afroamericani; il Civil Rights Act intervenne proprio per porre fine a questi tentativi[8]. Il contenuto della legge, considerando come andarono le cose nel secolo successivo, era all’avanguardia: tutte le persone nate negli Stati Uniti senza distinzione di razza o colore della pelle, compresi gli ex schiavi, erano dichiarati cittadini degli Stati Uniti e in quanto tali potevano godere di tutti i diritti previsti dalla legge[9].
Due anni dopo, a rinforzare il concetto, arrivò il XIV emendamento alla Costituzione. La prima sezione ricalcava sostanzialmente il contenuto del Civil Rights Act del 1866, rendendolo dunque costituzionale[10] e aggiungendo la clausola della equal protection of the law: tutti i cittadini americani dovevano essere protetti allo stesso modo dalla legge, senza alcuna distinzione di razza o colore della pelle[11]. La seconda sezione prevedeva che, se uno Stato avesse impedito a cittadini statunitensi maschi sopra i ventun anni di votare, il numero dei rappresentanti di quello Stato sarebbe diminuito in proporzione al numero di persone a cui venisse negato tale diritto.
Venne poi il XV emendamento, nel 1870, che sanciva in modo esplicito e a livello costituzionale il diritto di voto per tutti i cittadini degli Stati Uniti, senza distinzione di razza e di colore della pelle, anche per gli ex schiavi liberati con la Guerra di secessione. A chiudere questa intensa attività normativa, infine, ci fu un altro Civil Rights Act, nel 1875. Non potevano esserci, secondo questa legge, discriminazioni nell’accesso ai servizi pubblici o privati, compresi mezzi di trasporto e teatri[12]. Questa legge sarebbe stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1883, con la motivazione che il Congresso non poteva imporre ai privati di non discriminare in base alla razza nei loro servizi; l’unico contrario, dei nove giudici della Corte Suprema, fu John Marshall Harlan[13], che rincontreremo in occasione di Plessy v. Ferguson.
Le leggi Jim Crow e il caso Plessy contro Ferguson
Alla luce di tutte queste leggi sancenti anche la parità dei diritti, come si arrivò alla segregazione? Abbiamo detto che gli anni dal 1865 al 1877 passarono alla storia come Età della Ricostruzione. Durante questo periodo gli Stati del Nord mantennero un forte controllo, sia militare sia politico, sugli Stati del Sud (tradizionalmente democratici e conservatori) che furono sostanzialmente controllati dai repubblicani[14]. In conseguenza di ciò, gli afroamericani poterono effettivamente far valere i loro diritti e in molti furono anche eletti in cariche locali e statali[15]. I suprematisti bianchi, però, si sentirono sotto attacco, e reagirono in modo violento: in questi anni, ad esempio, nacque il primo Ku Klux Klan, il quale però fu estirpato durante la presidenza Grant, che lo dichiarò illegale con il Ku Klux Klan Act del 1871[16].
I problemi per gli afroamericani del Sud cominciarono ad aggravarsi dal 1877. Le elezioni del 1876, infatti, furono enormemente combattute, senza un vincitore nel Collegio elettorale. Il repubblicano Hayes, per ottenere la presidenza, dovette scendere a patti con i democratici alla Camera dei rappresentanti; in cambio gli Stati del Sud ottennero sia il ritiro delle truppe federali ancora presenti negli Stati secessionisti, sia la home rule, cioè il diritto di autogoverno interno[17]. A questo punto i democratici, nuovamente dominanti nel Sud, vararono, da una parte, una serie di leggi volte a limitare il più possibile il voto dei neri, che presumibilmente avrebbero votato il Partito repubblicano, così da mantenere il controllo (impedendo ad esempio agli analfabeti di votare o inserendo delle tasse per poter accedere ai seggi)[18]; dall’altra, leggi segregazioniste vere e proprie, volte a creare spazi separati tra neri e bianchi nei servizi pubblici, nei teatri, nei mezzi di trasporto e così via (provvedimenti di questo tipo si ebbero in Florida, Texas, Mississippi, Tennessee, Arkansas, Georgia, Kentucky e, ovviamente, in Louisiana)[19]. Queste leggi furono chiamate, nel loro complesso, “leggi Jim Crow”[20], ed è in questo contesto che si colloca il caso di Plessy contro Ferguson.
Nel 1890 lo Stato della Louisiana aveva varato una legge (che si inserisce pienamente nel panorama delle leggi Jim Crow) secondo la quale le compagnie ferroviarie operanti all’interno dello Stato avrebbero dovuto prevedere delle carrozze separate per i bianchi e per i neri, o comunque posti separati a seconda del colore della pelle. Nessuna persona avrebbe dovuto sedersi in un posto che non fosse assegnato alla razza di cui faceva parte. L’infrazione alla legge avrebbe comportato una multa e l’arresto per un massimo di 20 giorni[21].
Il 7 giugno 1892 Homer Plessy, che aveva la pelle bianca, ma anche un bisnonno nero e dunque “sette ottavi di sangue caucasico e un ottavo di sangue africano”[22], prese un treno da New Orleans a Convington (entrambe le città erano nello Stato della Louisiana), sedendosi nella carrozza destinata ai bianchi. Al momento del controllo, però, Plessy ammise di essere di discendenza mista, e dunque il controllore gli chiese di spostarsi in una carrozza riservata ai neri; Plessy però si rifiutò. Come previsto dalla legge, venne arrestato e portato in carcere a New Orleans[23]. Condannato dal tribunale locale, Plessy fece ricorso alla Corte Suprema dello Stato della Louisiana, senza successo: il giudice di quella corte, John Howard Ferguson, sostenne che uguale non voleva dire identico, che la separazione era nell’interesse dell’ordine pubblico e, dunque, che la norma in base alla quale Plessy era stato arrestato era legittima[24]. A questo punto Plessy decise di presentare un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Il 13 aprile 1896 ci fu l’udienza davanti alla Corte Suprema e il 18 maggio fu pronunciata la sentenza: per 7 voti a 1[25] il ricorso di Plessy veniva respinto. La segregazione razziale divenne ufficialmente costituzionale[26].
“Separati, ma uguali”: la segregazione avallata dalla Corte Suprema
Al fine di analizzare la sentenza, è opportuno anzitutto osservare la composizione della Corte Suprema: vi erano cinque giudici repubblicani e quattro democratici; tre dei nove giudici, inoltre, erano originari del Nord-Est, due del Sud, tre del Mid-West e uno dell’Ovest; ancora, cinque giudici avevano esercitato nelle corti statali, due erano stati giudici di corti federali e due non avevano precedenti esperienze in questo ambito[27]. Dunque, la composizione della Corte Suprema era abbastanza varia dal punto di vista politico, da quello della provenienza geografica e da quello delle precedenti esperienze professionali dei giudici. Fattore comune ai nove giudici era invece che fossero tutti abbastanza conservatori, tutti liberisti e tutti decisamente a favore della protezione dei diritti di proprietà dall’intervento statale[28].
Vi erano tra l’altro diversi aspetti che la Corte Suprema non prese in considerazione. Uno era quello, appunto, della libertà individuale; l’altra questione non di facile risoluzione era: quanto Plessy poteva essere considerato effettivamente nero?[29] In nessun dibattimento davanti ai vari tribunali, nei processi precedenti, Plessy aveva dichiarato di essere nero[30], e nella presentazione del ricorso alla Corte Suprema il suo legale, Albion Tourgée, specificava chiaramente come prima del fatto del 7 giugno 1892 Plessy venisse effettivamente trattato come un cittadino bianco[31]. La Corte Suprema, però, lasciò il compito di definire quali persone potessero dirsi nere o bianche alle leggi dei singoli Stati[32], non entrando nel merito della questione. L’unico aspetto davvero trattato dalla Corte fu, invece, la costituzionalità o meno della legge della Louisiana, che poi era il punto sul quale Plessy aveva presentato il ricorso.
Tourgée, infatti, impostò la strategia difensiva sulla presunta incostituzionalità della norma per la quale era stato arrestato il suo assistito, considerata contraria al XIII e al XIV emendamento. Secondo i giudici della Corte Suprema, invece, quella legge non era incostituzionale. Come riportato nella relazione di maggioranza scritta materialmente dal giudice Brown, non emergeva alcun conflitto con il XIII emendamento[33]: “uno statuto [la legge della Louisiana] che implica una distinzione meramente legale tra i bianchi e i neri – una distinzione fondata nel colore delle due razze […] non ha alcuna tendenza a eliminare l’uguaglianza legale tra due razze o a ristabilire delle condizioni di servitù involontaria”[34].
Secondo la Corte, inoltre, la legge della Louisiana non era in conflitto nemmeno con il XIV emendamento. In questo caso le argomentazioni della maggioranza furono più articolate; risulta però centrale un punto preciso:
Consideriamo che l’errore sottostante alle argomentazioni del querelante consista nell’assunto che l’imposizione della separazione tra due razze bolli la razza nera [colored nel testo] con un marchio di inferiorità. Se è così, non lo è per il contenuto della legge, ma soltanto perché i neri scelgono di interpretarla in questo modo [chooses to put that costruction upon it].[35]
Insomma, la separazione tra due razze diverse, sui treni come altrove, non privava i neri di alcun diritto e nemmeno della equal protection of the law sancita dal XIV emendamento[36]. La legge, infatti, prevedeva sì posti separati per colore della pelle, ma uguali; c’era, secondo i giudici, separazione ma non discriminazione: i posti erano “separati, ma uguali”[37]. E non c’era nemmeno il rischio che questa legge fungesse da traino per altre leggi segregazioniste dello stesso tipo o più gravi e di impatto più ampio, come il riservare un lato della strada per i bianchi e uno per i neri oppure costringere i neri a pitturare la loro casa di nero, i bianchi a farlo di bianco. Sempre citando dalla sentenza, infatti, “il potere di polizia deve essere ragionevole” e le leggi devono mirare alla “promozione del bene pubblico e non […] all’oppressione di una particolare classe”[38].
D’altra parte, sostenevano i giudici, leggi che avessero imposto la mescolanza delle razze non sarebbero servite a nulla:
[Le leggi] sono incapaci di estirpare gli istinti razziali, o di abolire le distinzioni basate sulle differenze fisiche […]. Se i diritti civili e politici delle razze sono uguali, una non può essere inferiore all’altra dai punti di vista civile e politico. Se una razza è inferiore all’altra socialmente, la Costituzione degli Stati Uniti non può metterle sullo stesso piano.[39]
L’uguaglianza sociale, sempre nella visione dei giudici, doveva raggiungersi sulla base di affinità, su un incontro tra le razze che fosse naturale e voluto da entrambe: la legge su questo punto non poteva fare nulla[40]. Il XIV emendamento non poteva essere interpretato come l’abolizione di ogni distinzione fisica, o come un obbligo a mescolare uomini e donne bianchi con uomini e donne di colore[41].
John Marshall Harlan, il giudice dissenziente
Ci fu però un giudice che non fu d’accordo con l’opinione della maggioranza, uno degli “eroi dimenticati” degli Stati Uniti[42]: John Marshall Harlan. È vero, sostenne Harlan, che la legge della Louisiana si applicava sia ai neri sia ai bianchi, ma:
tutti sanno che la legge in questione è nata con lo scopo non tanto di escludere i bianchi dai vagoni occupati dai neri, quanto di escludere i neri dai vagoni occupati o assegnati ai bianchi. […] Lo scopo da raggiungere era, dietro l’apparenza di dare un’uguale sistemazione sia ai bianchi che ai neri, di costringere i secondi a starsene separati.[43]
E nessuno poteva essere così ingenuo da sostenere il contrario[44]. D’altra parte, perché una legge dovrebbe impedire a un bianco e a un nero che vogliano sedersi vicini in treno di farlo?[45]
Harlan era convinto che la Costituzione degli Stati Uniti non potesse tollerare l’esistenza di una divisione in categorie di cittadini, una inferiore all’altra, e che tutti i cittadini fossero uguali davanti alla legge: “la nostra Costituzione”, scrive Harlan, “è color-blind”[46], non vede differenze di razza o di colore della pelle. Le leggi come quella della Louisiana, le leggi Jim Crow, non permettevano agli schiavi liberati da pochi decenni di godere appieno della libertà che era garantita loro dagli emendamenti costituzionali degli anni Sessanta dell’Ottocento, ponendoli in una condizione di inferiorità[47].
Ma le argomentazioni di Harlan non terminavano qui. Egli era convinto che la legge della Louisiana avrebbe portato ad altre leggi segregazioniste, e non considerava valido il criterio della ragionevolezza delle leggi (che la maggioranza della Corte aveva usato per rispondere su questo punto), che riguardava più la politica che l’attività giudiziaria[48]. Inoltre, scrisse che “la presente decisione […] non solo [avrebbe stimolato] aggressioni più o meno brutali”, ma avrebbe portato alla convinzione che fosse possibile ribaltare, in sede legale, quanto era stato stabilito dal XIII e dal XIV emendamento, mettendo a rischio i diritti civili degli afroamericani[49].
Le conseguenze di Plessy v. Ferguson
Si può senz’altro dire che le parole di Harlan furono profetiche. La dottrina del “separati ma uguali” si impose, ma se ci fu separazione (che divenne presto una segregazione vera e propria) non ci fu mai uguaglianza. I servizi riservati ai neri erano sistematicamente peggiori di quelli riservati ai cittadini bianchi, anche perché, mentre era evidente il significato di “separati”, era molto più complicato definire “uguali”. Dal punto di vista giuridico, nelle sentenze delle varie corti (soprattutto locali e statali) si impose la dicitura di “sostanzialmente uguale”[50], che poteva voler dire tutto come poteva non voler dire niente. E allora tornò quel criterio della ragionevolezza che è presente anche nella sentenza di Plessy v. Ferguson; ad esempio, in Jones v. Board of Education of City of Muskogee (Oklahoma) del 1923 fu deciso che i fondi per le scuole pubbliche per i bianchi e per i neri non dovessero essere eccessivamente diversi: era stabilito che il dislivello tra il finanziamento delle prime e quello delle seconde dovesse rimanere all’interno di un intervallo ragionevole, e rispettando il senso del giusto[51].
Per gli afroamericani, poi, c’era anche un’altra difficoltà tutt’altro che irrilevante. Al di là dei criteri poco precisi per stabilire se due servizi fossero uguali, per poter far valere il diritto all’uguaglianza l’unica via era ricorrere al sistema giudiziario americano. Fare ciò, però, imponeva oneri cospicui dal punto di vista economico: un processo costava. Nella maggior parte dei casi i neri non potevano permetterselo ed erano così costretti a rinunciare a far valere il diritto all’uguaglianza, stante la separatezza[52].
I decenni successivi a Plessy v. Ferguson furono per gli afroamericani particolarmente duri, all’insegna della segregazione razziale. Con il presidente democratico Woodrow Wilson[53] (in carica dal 1913 al 1921) la segregazione si estese anche agli uffici federali, dove sino ad allora era entrata solo in minima parte durante l’amministrazione del suo immediato predecessore, Theodore Roosevelt[54].
Un’inversione di tendenza sarebbe arrivata soltanto nel 1954, con un’altra sentenza della Corte Suprema, la Brown v. Board of Education. Costituì una svolta decisiva: con essa fu sancita l’incostituzionalità della segregazione razziale nelle scuole pubbliche[55], e in quel momento partì il processo che porterà al Civil Rights Act del 1964, il quale mise definitivamente in soffitta, almeno dal punto di vista legislativo e normativo, la segregazione razziale, le leggi Jim Crow e la dottrina del “separati ma uguali”. Dal 1896, l’anno di Plessy v. Ferguson, sarebbero dovuti passare 68 anni per il pieno riconoscimento de jure dei diritti dei neri negli Stati Uniti.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Il testo completo della sentenza della Corte Suprema, comprese le motivazioni, è disponibile sul sito della Library of Congress.
[2] A inizio 1861, 11 Stati del Sud, schiavisti e agricoli, decisero di staccarsi dall’Unione, costituendo una Confederazione indipendente. La guerra tra gli Stati unionisti del Nord e i Confederati del Sud durò fino al 1865, con la vittoria definitiva dell’Unione.
[3] G. Sabatucci, V. Vidotto, Storia contemporanea: l’Ottocento, Laterza, Bari 2012, p. ?
[4] M.A. Graber, Subtraction by Addition? The Thirteenth and Fourteenth Amendments in “Columbia Law Review”, CXII (2012), 7, p. 1503 (trad. it., qui e in seguito, a cura dell’autore del presente articolo).
[5] G. Rutherglen, Civil Rights in the Shadow of Slavery. The Constitution, Common Law, and the Civil Rights Act of 1866, Oxford University Press, Oxford 2013, p. 4.
[6] Si ricorda che nell’Ottocento, e anche per buona parte del Novecento, le posizioni dei due partiti maggiori negli Stati Uniti erano invertite rispetto a oggi: erano i democratici a essere conservatori, i repubblicani più progressisti.
[7] Johnson divenne presidente degli Stati Uniti dopo l’assassinio di Lincoln, in quanto vicepresidente in carica. A differenza del secondo, che era repubblicano, Johnson era democratico.
[8] G. Rutherglen, op. cit., pp. 6-7.
[9] Ivi, p. 3.
[10] Sul rapporto tra il XIV emendamento e il Civil Rights Act del 1866, si veda G. Rutherglen, op. cit., pp. 70-92.
[11] P. Laidler, Separate, Equal or Separate but Equal? The Changing Image of Race in the US Supreme Court’s Decisions, in “Politeja”, 2013, 23, p. 258.
[12] M.W. Atwell, Civil Rights Act of 1875, in The Social History of Crime and Punishment in America: An Encyclopedia, a cura di W.R. Miller, SAGE, New York 2012, p. 262.
[13] Ibidem.
[14] T. Bonazzi, Guerra civile americana, RCS, Milano 2016, p. 143.
[15] E. Foner, Reconstruction Revisited, in “Reviews in American History”, X (1982), 4, p. 82.
[16] T. Bonazzi, op. cit., p. 28.
[17] Ivi, pp. 148-149.
[18] B.A. King e L. Erickson, Disenfranchising the Enfranchised: Exploring the Relationship Between Felony Disenfranchisement and African American Voter Turnout, in “Journal of Black Studies”, XLVII (2016), 8, p. 802.
[19] Per una panoramica delle leggi segregazioniste nella seconda metà dell’Ottocento si veda J.H. Franklin, History of Racial Segregation in the United States, in “The Annals of the American Academy of Political and Social Science”, CCCIV (1956), 1, pp. 6-7.
[20] Su Jim Crow si veda D. Cockrell, Jim Crow, Demon of Disorder, in “American Music”, XIV (1996), 2, pp. 161-184.
[21] Sentenza Plessy v. Ferguson, p. 541.
[22] Ivi, p. 538.
[23] Ivi, pp. 538-539. La vicenda è narrata anche in P. Laidler, op. cit., pp. 259-260.
[24] D.J. Ficker, From Roberts to Plessy: Educational Segregation and the “Separate but Equal” Doctrine, in “The journal of Negro History”, LXXXIV (1999), 4, p. 310.
[25] I giudici della Corte Suprema erano e sono tuttora nove. Uno dei membri, però, non partecipò alla riunione perché colpito da un lutto famigliare.
[26] D.J. Ficker, op. cit., p. 310.
[27] D.W. Bishop, Plessy v. Ferguson: A Reinterpretation, in “The journal of Negro history”, LXII (1977), 2, p. 126.
[28] Ibidem.
[29] Sul “riconoscimento” dei neri, vari Stati avevano emanato una serie di leggi negli anni precedenti. A questo proposito si veda D.W. Bishop, Plessy v. Ferguson, op. cit., p. 128.
[30] Ivi, p. 127.
[31] Sentenza Plessy v. Ferguson, p. 538.
[32] Ivi, p. 552.
[33] Ivi, p. 542.
[34] Ivi, p. 543.
[35] Ivi, p. 551.
[36] Ivi, p. 548.
[37] Ivi, p. 540.
[38] Ivi¸ p. 550.
[39] Ivi, p. 552.
[40] Ivi, p. 551.
[41] Ivi, p. 544.
[42] P.M. Wishon, Brown v. Board of Education at 50: Reflections on Plessy, Brown, and Our Professional Conscience, in “YC Young Children”, LIX (2004), 3, p. 77.
[43] Sentenza Plessy v. Ferguson, p. 557.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] Ivi, p. 559.
[47] Ivi, p. 568.
[48] Ivi, p. 558, ma anche D.J. Ficker, op. cit., p. 311.
[49] Ivi, p. 560.
[50] H.E. Groves, Separate but Equal: The Doctrine of Plessy v. Ferguson, in “Phylon”, XII (1951), 1, pp. 68-69.
[51] Ivi, p. 68.
[52] Ivi, p. 70.
[53] Wilson è principalmente conosciuto in Europa e in Italia per i suoi 14 punti presentati alla Conferenza di pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale, come base per ricostruire politicamente l’Europa dopo la catastrofe del conflitto.
[54] A. Meier e E. Rudwick, The Rise of Segregation in the Federal Bureaucracy, 1900-1930, in “Phylon”, XXVIII (1967), 2, p. 178.
[55] Per approfondire la sentenza si veda P. Laidler, op. cit., pp. 262 e sgg.