Sindrome Caporetto

Sindrome Caporetto

Sai, sono trascorsi ormai tre anni ed in tre anni comprendi quando qualcosa non va, perché la guerra è una entità invisibile ma viva, e se essa tace, vuol dire che presto si udirà il suo grido all’orizzonte. Uno parte a malincuore, lascia l’agio di casa e posto sicuro, una esistenza apparentemente quieta e normale, per poi trovarsi qui; tuttavia a lungo andare anche questa si tramuta in casa, certo, marcisce qua e là, non sempre ha il tetto, ma lo diviene per la compagnia. E sai che se perdi questa, probabilmente, volente o nolente perderai anche quella che hai lasciato alle spalle. Le montagne, questi giganti silenziosi ma dal profondo respiro poderoso, ci lasciano riposare sulle loro schiene, ci accolgono e assistono alle nostre sventure, il loro sussurro malevolo e benevolo non si risparmia di chiedere tributi. Il capoposto siede un po’ più in là. La feritoia è stretta, raschiata, i sacchi di sabbia si inerpicano uno sopra l’altro. Il fucile Carcano giace esausto, la lunga canna si sporge, fa capolino oltre, si affaccia all’ignoto. Non manca nulla e manca un po’ di tutto. L’unica cosa che è sempre presente è il fango. E’ Ottobre del resto ed è notte. La vallata sottostante è buia, non si vede nulla, il cielo coperto, come una tavola tempestosa ed uniforme. La 19a Divisione, Brigata “Napoli”, XXVII° vigila, ma il corridoio sottostante che li separa dal settore del IV Corpo è velato, la testa di ponte tra Tolmino e Caporetto, sulla riva destra dell’Isonzo è vuota. Ci sono solo loro. Soli e piccoli. La lancetta incredula si ferma alle 02.00. 24 Ottobre 1917. Sai, quando l’artiglieria campale spara i proiettili rigano il cielo, a centinaia, fendono le nubi, lo incidono con le loro scie, la forza di gravità le piega perché non vedi i colpi ma la traiettoria. Gli artiglieri lontani e ostili le alternano. Gas. A carica ritardata. Ad alto potenziale. In tutto questo non c’è strategia, da tutto questo non v’è rifugio, non alcuna preparazione.



Cosa è Caporetto?

24 Ottobre 2017. Son trascorsi 100 anni. I passi si indirizzano spediti verso una qualsiasi libreria, gli scaffali sono ricolmi, come ad una esposizione di quadri, questi mercati di idee che vendono sogni ed impressioni appaiono mastodonti dove non si sa bene dove posare lo sguardo, così i volumi si offrono impettiti con le loro copertine lucide. Ed è spesso di impressionismo che si tratta, ormai coattamente relegati ad un angolo il neoclassicismo ed il realismo assistono impotenti. Così si giunge alla sezione storica. Caporetto. L’animo si intorbidisce, la memoria fa il suo corso. E’ un nome noto, diffuso. Chi non conosce quel nome? Ed ecco che ritorna. Caporetto. Ed ancora. Caporetto. Ci sono altri lemmi, vocaboli, articoli e avverbi, eppure il nome, quel nome troneggia a chiare lettere. Eccone un altro. Caporetto. Si rincorrono i tomi fatali e mesti, come per non deludere il civile disfattista storico abituato agli ipnotici programmi televisivi e di essi vittima. Ecco Paolo Gaspari con “La verità su Caporetto” da lui stesso edito nel 2012. Daniele Ceschin segue con “Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra”, Laterza 2014, narrandoci l’esodo dei sedicimila civili in fuga dai territori occupati. Angelo Gatti, “Caporetto. Diario di Guerra”, Il Mulino 2014; Mario Silvestri, autore di numerose opere storiografiche si avventura nel buco nero con “Caporetto. Una battaglia e un enigma”, Bur 2014. Pubblicato nel 2004 e ristampato nel 2014 dall’editrice Goriziana incontriamo un autore inaspettato, Erwin Rommel tradotto da G. Cuzzelli, che in “Fanteria all’attacco” pare voler metter il dito nella piaga. Appropinquandoci verso l’anniversario le pubblicazioni si moltiplicano. Luca Falsini con “Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta”, Donzelli editore; Paolo Paci, “Caporetto andata e ritorno”, Corbaccio, che in copertina, non avendo a disposizione nessuna comparsa Italiana, staglia un milite britannico, di certo inquinando l’intento emotivo; Nicola Labanca, “Caporetto. Storia di una disfatta”, Il Mulino; Lorenzo Cremonesi con il suo “Da Caporetto a Baghdad”, Rizzoli, spiazza per via di contenuti molteplici e a volte concettualmente mal conciliati; Arrigo Petacco e Marco Ferrari, non bramiamo ancor di ripetere lo stesso nome ormai, edito con Mondadori, la definiscono “la più grande disfatta”; le speranze sembrano accendersi e un po’ spegnersi con Alessandro Barbero, si rinfocolano con Claudio Rezeto, Alfio Caruso e S. Lucchini, ma l’amaro in bocca persiste.

Ma cosa è Caporetto? Un luogo? Un evento? Sulla cartina geografica è ancora lì, con il nome di Kobarid, non s’è mosso. E’ fatto di pietra? E’ fatto di corpi? Caporetto così si spande tra gli altri titoli, si radica, a macchia d’olio, dilaga come una pandemia sulla psiche degli Italiani che scrivono, che leggono e quelli che vogliono che si legga. Caporetto è una sindrome. Una malattia fatta da un’ombra voluta e costruita, bisbiglia maligna all’orecchio della gente Italiana e non più Italica con voce rauca “la guerra non fa per te” “sei debole” “se fai la guerra la perderai”, la impone al silenzio ed alla convinzione che il Paese si è spezzato quel giorno alle 02.00. L’Italia era un paese arretrato, impreparato, il suo esercito scadente, le armi inadatte, l’economia insufficiente. Ma è davvero così? Quanto gli Italiani sono convinti che agli inizi del ‘900 una nazione nata dai romanticismi della metà dell’800 potesse eludere un conflitto il cui aggettivo è mondiale? La miopia e l’astigmatismo tattico/strategico dello storico non militare tralascia le visioni complessive o quelle più circoscritte per focalizzarsi a metà strada e languire. Il primo conflitto mondiale investe il pianeta come qualcosa di inaspettato e violento, non limitandosi al tanto celebrato fronte occidentale. Dalla Marna al Giappone, dall’Isonzo a Kut-al-Amara, dai Laghi Masuri al Camerun gli animi si scuotono e si leva il clangore delle armi. L’Italia nella sua attesa sa, nel suo rimandare l’appuntamento con se stessa è cosciente che non può sfuggire, la sua collocazione le impedisce alibi, scappatoie o giustificazioni. Lo sforzo bellico Italiano non s’attende per nulla. Passo dopo passo il numero degli effettivi cresce da un milione a tre, il genio e l’invenzione a noi propria non s’attarda, la creatività si avventura in nuovi progetti ed in nuovi arditi metodi di battagliare. Così vengono progettate le prime pistole mitragliatrici al mondo firmate Villar Perosa, si fantastica di fucili semiautomatici, di sacrificare la luce e duellare nel buio dei cunicoli sotterranei a colpi di mine, di usare le bombe a mano come artiglieria, di lottare con i pugnali, di cavalcare il cielo, di affondare corazzate con motoscafi. La Perino e la Beretta, Vetterli-Vitali, Breda e Fiat, incessanti ed instancabili fucine, producono per armare il paese nella sua prima grande guerra come popolo. Un senso identitario che da sempre messo in dubbio, si manifesta d’improvviso in quegli anni, si ravvisa ora nascosto prudentemente e che in quei giorni di 100 anni fa non suscitava diffidenza nel compatriota.

Serventi ad una mitragliatrice Perino Mod.1908 durante le operazioni di assestamento del fronte del Piave, locazione imprecisata, Novembre 1917.



Perdere una battaglia per vincere una guerra

Con l’immagine di una ritirata disastrosa e scoordinata, con lunghe colonne serpeggianti di profughi e sbandati, affrontiamo nel ricordo quei giorni, nello stereotipato topos dell’Italiano in guerra, che fugge, che s’arrende, si affligge, si commisera. Ai lati delle strade veicoli e armi abbandonate, uno scempio, una catastrofe che tuttavia è una normale prassi in ambito militare, quella della manomissione di ogni tipologia di equipaggiamento non trasportabile. Alfio Caruso indulge nel descrivere lo sguardo di quei contadini e braccianti strappati alle loro ridenti campagne fertili per essere gettati nel tritacarne, gli occhi di chi si domanda “perché?”, di chi si chiede “cosa ci sta a fare” in un luogo come quello. Una affermazione questa che sembra controproducente se collegata alla fotografia di guerra che immortala uomini intenti a coprirsi dal fuoco nemico, a riprender fiato in una sudicia e pericolante trincea, a trainare a mano pezzi da 150mm a quota 1500m (faccenda di certo non poco faticosa, ché del resto le obici non si mettono in posizione da sole), a morire. E’ tra l’altro alquanto obsoleta la giustificazione, ampiamente condivisa, secondo la quale il contadino sdegna il conflitto come idea, anzi. L’impreparazione evidente di soldati privi di addestramento si controbilancia con morale e motivazioni ed un negato a posteriori senso del dovere. David Hanson, egli stesso agricoltore, ci spiega del resto quanto, sin dai tempi del cittadino-soldato e dell’Oplita, colui che coltiva la terra sa e conosce più di chiunque altro la necessità di combattere per impedire la devastazione, per ribadire la proprietà e in caso di invasione garantire il raccolto che nel tempo straordinario dello scontro resta ad attenderne il ritorno. Allora si profilano i numeri delle perdite, dei casi di autolesionismo e di defezione, che vengono di certo per gli amanti dei tribunali storici in contumacia preferiti alle liste di motivazione per medaglie al valor militare. Numeri ineludibili, certo, sebbene non soli. La Francia possiede il macabro primato per condanne capitali per diserzione, insubordinazione, mancata consegna, e come del resto dar loro torto dopo aver analizzato la loro catena di comando e gli ordini loro impartiti. Non deve stupire in questa sede che i tanto condannati ufficiali dello Stato Maggiore Italiano siano da inserire in un periodo di passaggio della storia militare europea costellata di errori partiti da uomini nati nell’800 e poco atti al cambiamento repentino della tecnologia che in meno di tre anni arriva all’aviazione e ai carriarmati. L’anonimo scriba che verga l’epifania di Berbero nel Pantheon dei “Caporettisti” tuona contro i giovani borghesi ai quali mai sarebbe dovuta esser stata concessa la guida. Un sorriso suscita tale arringa, quando i giovanissimi accusati che combattevano e cadevano, anche se di nobili origini o di borghesi, potevano rivestire gradi intermedi, i quali si dimostrarono decisivi e di gran lunga celebrati tanto da non avere abbastanza copertine per la Domenica del Corriere. Classismo dunque reo dello sfacielo? O regionalismo? Nessuno dei due colpevole, giacché fu proprio il conflitto ad appianare per l’unico attimo storico le differenze tra uni e altri rendendoli Italiani. Seguendo, così, le dure conclusioni di S.Lucchini che suggerisce una drastica damnatio memoriae nei confronti in primis del Generale Luigi Cadorna (ma noi ovviamente scorgiamo alle sue spalle altre sagome come Pietro Badoglio, Alberto Cavaciocchi, Luigi Capello), minimo metà delle strade e delle piazze europee per un criterio di eguaglianza resterebbero senza nome. Con ciò senza ombra di dubbio nessuno osa contraddire il signor Lucchini nel suo gioire dell’avvicendamento di Armando Diaz. Sfatiamo il mito dell’incapacità italiana per abbracciare una più seria veridicità e accorgerci allora che la rigidità del Regio Esercito era propria di tutti. Caporetto viene definita “la sconfitta”, un sinonimo di rotta, di disfatta, sostantivo a cui è appaiata spesso. E di sconfitta si tratta, ma di battaglia si parla. L’approccio che il popolo Italiano ha o è stato indotto ad avere con questo evento è inconciliabile con la dottrina bellica. Il 22 Agosto 1914 la frontiera francese venne perforata, la disfatta di Charleroi fu riscattata solo il 12 Settembre sulle sponde della Marna con i Tedeschi che riuscivano quasi a guardare i tetti di Parigi. Quasi in contemporanea con lo sfondamento in Francia, si consuma il massacro Russo a Tannenberg, 26-30 Agosto 1914. La sconfitta sull’armata di Aleksandr Samsonov influirà in maniera irreparabile sulle operazioni successive, sul campo cade quasi 3/4  della sua forza. Il 17 Gennaio 1915 l’offensiva Ottomana su Sarikamis ha fine con un bilancio inaccettabile, una sconfitta totale e un’armata con uniformi estive dispersa sulle cime innevate del Caucaso. Il successivo tentativo di riparare al danno spinse ad un secondo. Il 2 Febbraio 1915, un corpo di spedizione tentò un colpo di mano a Suez. In due giorni non c’era più nessuno con cui combattere. La reazione dell’Impero Britannico con la, a dir poco scandalosa, campagna dei Dardanelli (25 Aprile 1915-9 Gennaio 1916), risultò una offensiva tramutatasi in difesa, un fallimentare sbarco, una strage di navi tale da imporre la destituzione di Winston Churchill dal Ministero della Marina. La peggiore sconfitta alleata ha corso invece a Kut-al-Amara, il contingente anglo-indiano di Charles Townshend resta circondato ed assediato, 7 Dicembre 1915-29 Aprile 1916. La vittoria di questa Stalingrado medio-orientale del primo conflitto mondiale fu tanto significativa da far temere una perdita totale di controllo del fronte mesopotamico. E nondimeno lo Stato Maggiore alleato (Douglas Haig, Joseph Joffre e Ferdinand Foch in primis) fu conscio dell’inutilità tattica della prima battaglia della Somme (da Luglio a Novembre 1916). In Italia è diverso. Le Alpi sono la nostra frontiera, sono il nostro muro. Per l’Italia i 650 km su cui si lotta non sono come gli altri fronti. Caporetto segna uno spartiacque tra i successi completi o parziali precedenti al 1917 (la guerra nell’Adriatico ovviamente non va tralasciata per importanza ed incisività negli esiti sulla terraferma) e la crisi che portò alla vittoria definitiva. Nell’ottica complessiva dell’anno 1917, la geopolitica è mutata parecchio. Il logorio delle forze Austro-Ungariche impiegate su tre fronti è lampante, il Regio Esercito, nonostante l’incapacità di infrangere le difese nemiche in ripetuti tentativi, si mostra più potente per numero (quasi di 1/3) e ben equipaggiato. La perdita d’importanza del fronte orientale, la violenta guerra civile che dilania la Russia che condurrà al trattato di Brest-Litovsk (3 Marzo 1918) e l’inattività delle forze dell’Intesa concede agli Asburgici di chiedere un cospicuo aiuto. Un supporto tale che l’ago della bilancia per l’allestimento di uno sfondamento sarebbe passato a loro vantaggio, in numero, armi e logistica. La battaglia di Caporetto si incastona inoltre in un sistema di offensive che l’Intesa prepara con cura, con l’obbiettivo di isolare la Francia e privarla delle sue spalle geografiche, il fronte Italiano e il Corpo di Spedizione Britannico. Il 13 Novembre 1917 l’energia dell’avanzata nemica si attenua fino a fermarsi del tutto, la reazione del Regio Esercito è furiosa, la ferita è aperta, il Friuli e parte del Veneto occupati. A dispetto di quello che gli Austriaci auspicavano, la risposta Italiana non è la resa, ma una controffensiva sul Piave e Monte Grappa che dura sino al 26 del mese e che stabilizza di nuovo il fronte. Con disappunto la spalla Italica non ha ceduto. Il 21 Marzo 1918, l’Impero Tedesco lancia la sua ultima decisiva offensiva sul fronte occidentale, la Kaiserschlacht. Come a Caporetto fu un treno corazzato lanciato a folle velocità contro i britannici. La loro linea venne fratturata, in pochi giorni persero terreno, decine e decine di chilometri, sino alla rotabile di Amiens dove miracolosamente l’esercito germanico venne arrestato. Gli Inglesi, protagonisti di un evento così similare, cantarono di Amiens come di una vittoria provvidenziale. Tutto questo per illustrare, spiegare e dimostrare che non esiste in storia militare una sconfitta peggiore o migliore, bensì esiste il concetto di fronte, di linea, di confine che muta forma, si sposta, si frantuma, si ricompone, si perde e si riacquista in un dinamismo costruito su uomini, il loro ingegno, tenacia e volontà. Caporetto fu una battaglia come tante altre e fu una disfatta come tante altre, ma fu Italiana e questo sembra porla in diversa luce, ma non è accademicamente sufficiente a dipingerla come essa viene dipinta. Al contempo se tanto fu catastrofica questa perdita, tanto immensamente speciale allora dovrà apparire il trionfo che ne seguì.



A Caporetto si combatte. A Caporetto non si fugge.
 

Mappa delle operazioni sul fronte italiano. Ottobre/Novembre 1917.

Il tenente boemo si presentò al centro comando del IV Corpo in data 20 Ottobre. Senza esaurienti motivazioni illustrò dei pericolosi piani controfirmati da Otto von Bulow, capo di stato maggiore della 14a Armata. Secondo il disertore, in capo a cinque giorni, forse sei, le nostre linee sarebbero state investite da un numero e una meticolosità innaturali e diverse da quelle conosciute fino a quel momento. Il giorno seguente due rumeni diedero una versione ancora più allarmante. Non solo Caporetto era in pericolo, ma Plezzo, Tolmino e persino Cividale del Friuli. Che fossero azioni di counterintelligence? Gli Austriaci non ne avevano i mezzi. Per lo meno non sino a quel momento. Il Generale Konrad Kraft von Dellmensingen era stato inviato da Paul von Hindenburg e Erich Ludendorf a supervisionare il fronte dei loro cugini. La presenza di personale tedesco e dei rinforzi da loro dislocati aveva trasmutato completamente le condizioni. Il piano di attacco infatti non sarebbe stato effettuato secondo la prassi classica, ma secondo una tecnica che i Tedeschi avevano sperimentato già più volte con successo. Le unità avanzate erano Sturmpatrouillen, squadre d’assalto, 11 uomini per squadra (7 assaltatori con fucile/pistola mitragliatrice; 2 portamunizioni; 2 mitraglieri). Questi soldati avevano la missione di infiltrazione, difficili da identificare si insinuavano nelle linee nemiche mirando a bersagli vulnerabili e snodi logistici, per poi rivolgere le armi alle spalle dei difensori. Le truppe d’assalto si inserivano come dentelli per scardinare l’apparato difensivo prima del grosso della fanteria che sarebbe avanzato dopo alternati sbarramenti di artiglieria. Questo dinamismo era sconosciuto ed inaspettato anche per gli stessi Austro-Ungarici. L’intelligence italiano rimase stordito dalle informazioni dei disertori, troppe lacune e poche certezze. Il 22 Ottobre Cavaciocchi opta per la demolizione dei ponti sull’Isonzo, sposta il nucleo comando e comunicazioni a Bergogna, mentre il comando di Capello, 2° Armata, viene bombardato e si porta a Cividale del Friuli. Qualcosa non quadra. Lo stesso spostamento avvenne per il comando di Badoglio, a Cosi. Tutte le linee radio vennero ricollegate, senza saperlo e di certo non intenzionalmente, intercettate dai Tedeschi che alzarono il tiro dei cannoni sulle nuove giuste coordinate, pronti. Se la sorte era avversa e sconosciuta a tutti coloro che senza timore usavano gli impianti radiotelegrafici, lo Stato Maggiore Italiano pareva fiducioso di resistere alla tempesta qualsiasi essa fosse stata. Il tempo era poco promettente agli occhi di Cadorna e dei suoi scherani, piovoso, e c’era nebbia. Inoltre la prima linea era stata rinforzata con nuovi contingenti. La struttura del sistema difensivo tuttavia era adeguata ai vecchi schemi e non ai nuovi. Di tre linee gli Italiani prediligevano la prima, il 90% della forza era impiegata nell’operazione di arresto dell’assalto di massa, la seconda linea e la terza erano un ripiego secondario e di solito presidiate da forze esigue. Le riserve non vi venivano dislocate. Ancora indietro il cuore dell’impianto era rivestito dalle batterie di artiglieria reggimentali e divisionali. L’artiglieria poteva decidere se si viveva o si moriva in prima linea, il suo intervento era di primaria importanza, senza di essa i ragazzi della prima linea si sarebbero sentiti soli, inermi e impotenti contro una marea montante. L’alter ego delle Sturmpatrouillen erano gli uomini di Bassi, i tanto temuti Arditi, ma i loro reparti non erano tenuti in linea con gli altri, e la difesa non era ciò per cui erano stati concepiti. Alle 02.00 l’orizzonte si accende d’improvviso, con fragore, le cime lampeggiano intermittenti tuonando. Ha così inizio. Il monte Rambon e l’alta Bainsizza erutta esplosioni, sbocciano gli scoppi sui crinali, nei rifugi, dentro i cunicoli e i ballatoi. Plezzo e l’Isonzo si tramutano in un calderone che ribolle esplosivo e gas. Le maschere antigas non sono all’avanguardia, gli uomini non sanno come proteggersi, cercano di ripararsi nelle fortificazioni, ma la mano invisibile li raggiunge, li insegue impietosa e li stronca ovunque si aggrappassero alla vita. L’87° Reggimento si dissipa dalla cartina tattica, non esiste più. La visibilità è nulla, tra il fumo e la nebbia non si distingue ancora il nemico che avanza. Nessuno avanza ancora? Alle 06.00 lo sbarramento cessa. Riprende mezz’ora più tardi circa. I radiotelegrafi ancora funzionanti sono in fibrillazione, alcune linee sono saltate, alcune unità sono tagliate fuori, si tenta di rimettere in sesto la prima linea. Il timore che la grande offensiva sia iniziata si fa largo nei cuori. Con disperazione si ode il secondo sbarramento iniziare, ma quasi in contemporanea alle spalle si sente il rombo dei cannoni amici. Stanno rispondendo! Non siamo soli! Le scie dei proiettili si incrociano. Erano i pezzi campali del IV Corpo. Quelli del fianco sinistro tacciono. Perché? Perché non sparano? Sono anche dietro di noi? I capibatteria del XXVII° Corpo hanno ricevuto l’ordine di non aprire il fuoco, i pochi che effettuano interdizioni non hanno le coordinate e sprecano munizioni a vuoto. Badoglio non è presente. La 19° divisione è isolata sul crinale che domina il fiume. Il nemico non si vede. Quando si vedrà sarà troppo vicino. Le infiltrazioni avevano avuto successo. Nella mezz’ora d’interruzione grazie alla nebbia e ai fumogeni le squadre nemiche avevano aperto dei varchi. Alle 0.800 ecco le sagome ostili. Non devono passare, ma sono troppi. Gli Alpini arroccati sul Monte Rambon si trovano di fronte il nemico senza preavviso. Li respingono con violenza, ma il buco lasciato dall’87° Reggimento non passa inosservato, l’orda ci si incunea. Gli sparano d’infilata ma non basta. A 5 km da Saga gli sbarra la strada con decisione Giovanni Arrighi e i suoi della 50a Divisione. Il fronte si sta frammentando, gli amici e i nemici si iniziano a mescolare.

Corpi di soldati italiani giacciono ovunque sulle cime di Tolmino, investito nelle prime fasi dell’offensiva da un massiccio ed impietoso fissaggio di artiglieria con cartucce a gas. [Imperial War Museum media]

Tra l’Isonzo e Monte Sleme lo straniero non passa. Ma la barriera cede sulla strada per Gabria. Il corridoio sguarnito tra la Brigata “Napoli” e Cavaciocchi sulla sinistra viene aggirato. La 19a, in quota, tenne duro, senza rifornimenti e speranza per 24 ore, impedendo il passaggio al nemico, la roccia puntuta del loro baluardo non crollò. Respinsero svariati assalti, fino a scaricare le armi, a usare i coltelli, le vanghe, i sassi. Il tricolore sventolò sino a sbiadirsi dopo un giorno. I superstiti vennero catturati. Il loro comandante, Villani, si suicidò prima di cadere nelle loro mani. La 12a Divisione Slesiana, coperta dagli altri focolai di lotta, non vista per nulla a causa del caos e del maltempo, si inserì come un punteruolo, galoppando per la valle dell’Isonzo indisturbata. Sul Monte Krad Vhr i tre battaglioni del X Alpini vendettero cara la pelle sino alle 16.00 coadiuvati dall’artiglieria.  Alle 18.00 Arrighi avvertì il pericolo e ripiegò dietro a Saga prima di poter esser strangolato in una sacca, una scelta saggia per lui, ma fatale per le forze rimaste sul Monte Nero ormai accerchiate.

All’alba del 25 Ottobre giacciono caduti o feriti 40.000 uomini a causa della accanita resistenza. Perché a Caporetto si combatte. A Caporetto non si fugge. Il primo giorno di quella battaglia segna un paradosso della storia canonicamente narrata. Ore di concitazione, terrore e amor patrio di alcuni e codardia di altri instillano un senso di unione con chi si batte per esistere, sussistere, dire che c’eravamo anche noi, che non eravamo incapaci, che non eravamo pigri e pelandroni come Cadorna affermò per discolparsi. Eravamo soldati, il nemico numeroso e casa era in pericolo. La 50° e Arrighi divengono protagonisti del secondo giorno, asserragliati sul Monte Stol con le munizioni in esaurimento e il personale che ricorre alle ultime cartucce di pistola. Sanno di esser l’argine, ma se non ripiegano la diga si romperà ancor di più. Ordina di abbandonare il poggio ormai un frangiflutti fragile alle 12.30. Un contrordine recato da un portaordini della 34a di Luigi Basso gira la circolare del corpo di armata di Cavaciocchi. La linea va tenuta. Arrighi si piega allora al destino e con lui i suoi eroi. Torna indietro sullo Stol ora austriaco e carica alla baionetta. Ormai tutto è perduto, tutto come il Colovrat e il Matajur. Il nemico permea ogni anfratto. Resistere non serve a nulla, se si resiste si muore. E si muore.

Il 26 Ottobre giunge l’ordine di ripiegamento sul Tagliamento. Lo straniero dilaga, insegue le colonne che ripiegano (non da confondersi con quelle di profughi a cui molti disertori si unirono). Cividale del Friuli capitola il 27 Ottobre, il 28 Udine. Il 30 Ottobre è di nuovo il giorno dell’eroismo. Da Mortegliano non si passa, neppure da Pozzuolo. La Brigata Venezia del Colonnello Reghini brama vendetta, gli uomini non vogliono più scappare. Scatenano la furia su un invasore d’improvviso spiazzato sulle sponde del fiume, a Galleriano e a Ragogna dove il Ponte di Pinzano preso di mira smette d’esser ponte e si fa bastione. Si tiene fino al 4 Novembre. Dopo la presa di Cornino, anche Codroipo viene persa.

Il Piave è l’ultima frontiera per il Regio Esercito. Tutti i reparti vengono così ridislocati sulla sua linea. Cavalleggeri e lanceri vengono riorganizzati in un centro di raccolta nei pressi di Fossalta pronti per la controffensiva, Novembre 1917.

Si ordina il ripiegamento sul Piave. L’ultimo ripiegamento, l’estremo disponibile. Oltre il Piave è eucatastrofe, oltre il Piave è la fine della nostra gente. Fu in quel momento che capimmo d’esser un popolo, volevamo esserlo, lo eravamo. Ci trovammo, ci rincontrammo, ci riconoscemmo. Non eravamo diversi, non eravamo divisi. Non volevamo che fosse il giorno della resa, del pianto, delle catene, non volevamo esser schiavi e non volevamo esser null’altro che Italiani, volevamo esser noi stessi. Quando fummo sul Piave, c’erano tutti, nessuno escluso. Li fermammo. Li rispedimmo indietro. Chi narra Caporetto come la più grande disfatta del nostro popolo è artigliere asburgico, è lo spostamento d’aria della granata che blocca l’orologio del capoposto della 19a alle 02.00 del 24 Ottobre 1917. Caporetto fu la sconfitta necessaria, fu la distruzione per la rinascita più radiosa della nostra storia nazionale. A Caporetto gli Italiani nacquero e nella sconfitta furono vittoriosi.



Luca Valerio Bertozzi della Zonca
per www.policlic.it

 

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