Sostenibilità e connettività

Sostenibilità e connettività

Scarica Qui la rivista n. 6 di Policlic

Viene definita “sostenibilità” la caratteristica di un processo, di una attività, di uno stato che prevede di massimizzare il potenziale attuale disponibile (risorse, energia) per far fronte alle aspirazioni e ai bisogni dell’uomo, senza tuttavia compromettere il potenziale futuro destinato alle generazioni successive. Tale descrizione, maggiormente condivisa a livello globale, è basata sulla più celebre definizione di “sviluppo sostenibile”, elaborata al primo World Earth Summit di Rio del 1992, secondo la quale “si definisce sostenibile quello sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

La “connettività”, invece, è definita nell’Enciclopedia Treccani come la “capacità d’intercomunicazione tra sistemi diversi per lo scambio di informazioni”. Questa necessità di comunicazione ha portato alla nascita della rivoluzionaria tecnologia che è divenuta simbolo del XXI secolo: internet.

Le città del presente che intendono affermare i propri modelli come riferimenti per il futuro hanno deciso di puntare proprio su questi due concetti. Nulla quindi di fantascientifico: non auto volanti e teletrasporto, niente robot o colonie in orbita, ma concetti attuali, conosciuti e diffusi, seppur ancora poco applicati.

Ma queste nuove “cattedrali di cemento” sono una risposta a dei veri bisogni umani o l’uomo è ciò che è proprio in virtù del fatto che abita questi luoghi? Chi è quindi l’artefice dello sviluppo delle città in questa direzione?


Parola d’ordine “Architettura sostenibile”: The Sustainable City

Alle porte di Dubai, a circa 25 km dalla metropoli simbolo del moderno Medio Oriente, nel 2014 è stato avviato il progetto “The Sustainable City”, che mira a realizzare una città a impatto zero.

Il compito di rendere reale questa idea è stato affidato alla Diamond Developers, una società operante nel Real Estate, fondata nel 2003, la cui mission è quella di implementare la sostenibilità a ogni livello nelle sue realizzazioni. Al suo interno vi è un nutrito team di architetti, ingegneri, esperti di sostenibilità ed energie rinnovabili che mirano a creare non solo delle città sostenibili ma anche un vero e proprio brand che sia simbolo e messaggero del concetto che rappresenta.

Il direttore del progetto, Karim El Jisir, ha affermato che la spinta verso questo progetto è stata data dalla crisi del 2008, la quale ha dimostrato i limiti degli attuali paradigmi economici e ha spinto gli Emirati a cercare soluzioni alternative per proporre nuovi modelli di sviluppo, a partire proprio dalla base della società: la Città.

Il team si è così focalizzato sullo studio e sulla progettazione di questa piccola città, che ad oggi vede realizzate 500 villette e 89 appartamenti autosufficienti al 100%. Le strutture sono orientate a massimizzare l’apporto energetico fornito dal sole ai numerosissimi pannelli fotovoltaici distribuiti sui tetti e la rete idrica prevede un continuo recupero e una costante filtrazione dell’acqua per minimizzare il prelievo dalle fonti primarie. La politica di The Sustainable City prevede inoltre l’utilizzo esclusivo di prodotti alimentari a chilometro 0, l’assenza di auto tradizionali con motore a combustione interna, una fitta rete di mezzi pubblici totalmente elettrici e una diffusione capillare di piste ciclabili.

Come anticipato precedentemente, il successo di questo progetto tecnico non si basa sull’implementazione di tecnologie innovative, ma sulla presa di coscienza della necessità di mirare a uno sviluppo sostenibile applicando quanto già noto e allo stato dell’arte.

È quasi ossimorico pensare che la spinta verso la sostenibilità veda tra i protagonisti una realtà che deve la sua ricchezza al simbolo dell’inquinamento, il petrolio. Tuttavia, tale esempio, come affermato dalla stessa Diamond Developers, dimostra come sia possibile uno sviluppo basato sulla sostenibilità e che i grandi player dell’energia stanno già puntando in quella direzione. L’Esposizione Universale di Dubai, EXPO 2020 (rimandata a fine 2021 a causa della pandemia di COVID-19), sarà la prima vera vetrina per queste nuove forme di sviluppo.


Singapore, la città intelligente

Secondo una indagine elaborata da Smart Cities World, il premio di città più “intelligente” spetta a Singapore. La città-stato asiatica ha avviato una politica che punta a sfruttare tutta la tecnologia allo stato dell’arte, in ogni sua forma e applicazione, al fine di offrire i migliori servizi e la migliore qualità della vita ai suoi cittadini.

A supporto di questa mission è stato avviato, nel novembre 2014, il programma “Smart Nation”, un sistema di monitoraggio e raccolta di dati basato sull’installazione, su tutto il territorio cittadino, di circa mille sensori di nuova generazione. Il lavoro di raccolta e scambio dati, tra gli stessi sensori e tra questi e i centri di raccolta ed elaborazione, è finalizzato a ottimizzare i servizi offerti ai cittadini; il progetto prevede inoltre che tale database sia del tutto accessibile al pubblico. I settori in cui questa tecnologia è stata e sarà implementata riguardano la salute, i trasporti, la vita cittadina, l’imprenditoria, i servizi pubblici e i piani strategici degli enti governativi.

Connettività diffusa alla base del progetto Smart Nation – rappresentazione artistica della connettività tra i diversi sensori localizzati nella città di Singapore. Fonte: pxfuel.

Esempi della sua applicazione sono stati il monitoraggio dei focolai di febbre Dengue, una malattia virale zoonotica endemica di Singapore che nell’ultimo anno ha toccato quota 2,2 milioni di contagi, e le bonifiche mediante droni di zone umide e stagnanti – ambienti ideali  per lo sviluppo di colonie di zanzare, vettori di questa malattia – non raggiungibili facilmente tramite interventi tradizionali.

Tuttavia, l’ambizione massima di tale progetto consiste nella realizzazione di una “Singapore gemella”, una città in tutto e per tutto uguale a Singapore, ma totalmente virtuale[1]. Questo progetto mira a offrire ai cittadini, alle aziende e agli enti di ricerca uno scenario realistico su cui poter effettuare esperimenti, rendering architettonici, test di varia natura e di valutarne immediatamente l’impatto.

Chiaramente, tutta questa enorme architettura informatica non può non basarsi su delle connessioni estremamente performanti e diffuse in maniera uniforme sul territorio cittadino. Dal 2015 al 2018, infatti, la città è stata dotata di circa 20.000 hotspot di wi-fi libero con connessione a 5 Mbps, e il governo sta attualmente finanziando un progetto per una maggiore diffusione di hotspot 5G anche in virtù di un minore impatto ambientale, oltre che di un miglioramento della qualità delle connessioni[2].

La città-stato asiatica pare quindi abbia identificato nella connettività e nell’utilizzo dei dati la sua ricetta per il futuro e sembra già essere a un buon punto della realizzazione della sua visione. Resta tuttavia ancora poco chiaro come Singapore voglia affrontare uno dei suoi maggiori problemi: l’invecchiamento della popolazione. I suoi abitanti, infatti, risultano essere tra i più stressati al mondo e la scarsità di tempo libero ha minato fortemente la stabilità delle relazioni affettive, con conseguenze drammatiche sulla natalità[3]. A tal proposito, il governo dell’isola ha affermato che il programma Smart Nation servirà a risolvere anche questo problema, sebbene non abbia accennato a come dovrebbe farlo.


L’uomo al centro della città: l’utopistico Venus Project

Quanto è attualmente in sviluppo a Singapore e Dubai rappresenta quello che nel gergo dell’imprenditoria viene definito “sviluppo incrementale”, ossia uno sviluppo che punta a migliorare quanto già esistente. Le politiche green, la riduzione dell’impatto ambientale, la data society e la connettività sono infatti modelli e idee già noti e diffusi nella società attuale e non rappresentano uno sconvolgimento degli attuali paradigmi socioeconomici. Il Venus Project del futurologo e designer Jaques Fresco, invece, mira a proporre un modello di città e società fondato su un nuovo concetto di economia, definita “economia basata sulle risorse”: essa prevede una equa ridistribuzione di risorse e servizi a tutti i cittadini in modo che questi possano essere liberati dal peso del lavoro per puntare alla realizzazione dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. Tale argomento, tuttavia, è stato ampiamente trattato nel numero di ottobre di Policlic[4], a cui si rimanda per maggiori approfondimenti.


È l’uomo ad avere bisogno di queste città o sono queste città ad avere bisogno dell’uomo?

Le città sono veramente l’espressione della massima aspirazione dell’uomo? Rappresentano il risultato del pensiero e dello sviluppo umano soddisfacendo realmente i suoi desideri e bisogni o è ormai l’uomo a essere al servizio della struttura e del funzionamento della città?

Al momento, la risposta più corretta alla prima di queste domande pare essere “No”. Passiamo mediamente circa il 90% del nostro tempo in ambienti chiusi, piccoli, artificiali – dalla casa al luogo di lavoro, dalla scuola all’automobile – per poi “scappare” da questi alla prima occasione, in cerca di spiagge paradisiache, di valli, di monti, di boschi e colline.

Potremmo definire ormai la città come una forma di cultura umana, un volere condiviso, come affermato da Konrad Lorentz: “Un sapere, un volere e un potere comuni generano l’unità della cultura”[5]. Gli attuali paradigmi delle società, ormai ampiamente condivisi sull’intero globo, rappresentano una cultura ormai radicata, una firma e una zona di comfort dell’umanità, ma soprattutto rappresentano un punto di arrivo di un processo evolutivo. Tuttavia, come afferma sempre lo stesso Lorentz, è un errore pensare che l’evoluzione di una cultura segua un percorso lineare costantemente ascendente[6]; infatti, sempre più studi scientifici dimostrano come lo sviluppo delle città e della struttura societaria ad esse correlata non stia comportando dei benefici reali sulla qualità della vita delle persone che le abitano.

Un recente studio, in cui diversi gruppi di persone sono stati sottoposti a stimoli visivi relativi ad ambienti naturali e urbani, ha dimostrato come il primo tipo di ambiente abbia comportato significativi effetti a livello emotivo. Nello specifico, il contatto, anche solo visivo, con elementi naturali comportava una maggiore stabilità emotiva, un miglioramento generale dell’umore e un maggiore senso di appartenenza al gruppo con cui si era condiviso l’esperimento[7].

A un risultato analogo sono giunti anche il professor David Streyer e il suo team dell’Università dello Utah, i cui studi hanno dimostrato come anche solo con una passeggiata di mezz’ora nella natura, senza tecnologia, ci si possa ristabilire dallo stress quotidiano, e come dopo solo tre giorni lontani dall’urbanizzazione e dai continui stimoli, immersi in ambienti principalmente naturali, si possano ottenere risultati evidenti e misurabili in termini di riduzione dello stress, aumento delle capacità creative e del problem solving[8].

È evidente allora come tutti gli indizi ci portino a una sola conclusione, e cioè che la direzione verso cui bisognerebbe dirigersi sia un ambiente naturale. Non solo cemento, non solo ambienti chiusi e luci artificiali, ma piante, luce naturale, spazi ampi e simbiotici con la natura, e soprattutto pause. Pause dalla routine e dalle corse quotidiane per concedersi alla contemplazione e al ristoro nella natura o mediante la natura. I popoli scandinavi hanno già compiuto un passo in avanti vero questo tipo di approccio con lo “Hygge”, un concetto intraducibile letteralmente, ma che si potrebbe parafrasare con un’idea di socialità e di benessere quotidiano che contribuisce al raggiungimento di una felicità duratura. Pare sia nato dalla volontà dei popoli nordici di apprezzare al massimo il breve periodo dell’anno in cui la natura si mostra nella sua veste più favorevole – l’estate, calda e luminosa – cercando di riprodurre questa sensazione di calore all’interno delle loro abitazioni nei mesi in cui il clima è più ostile.

Si è giunti poi, nel 1984, alla definizione del concetto che meglio esprime questa innata ricerca dell’uomo verso ciò che è vita e verso ciò che più la ricorda, fino a entrare, in alcuni casi, in una sintonia emotiva: biofilia[9].

La teoria di Edward O. Wilson afferma che l’uomo tende naturalmente a ricercare interazioni con tutto ciò che è vita e tende a identificarsi con ambienti ad essa favorevoli. Ad oggi varie prove sperimentali paiono supportare questa teoria, come ad esempio la “fascinazione”, ossia la capacità di lasciarsi affascinare da eventi e paesaggi naturali, o “l’empatia asimmetrica”, quel comportamento che ci permette di entrare in sintonia con forme di vita di altre specie.

La natura pare quindi essere la risposta a tante nostre domande e a tanti nostri problemi e, in alcuni casi, sembra che tale concetto abbia avuto riscontro anche nella progettazione delle aree più moderne e nuove di alcune città. Ne sono esempi il Bosco Verticale di Milano, il Condominio 25 di Torino, il The Edge di Amsterdam e i vari progetti di bioarchitettura sostenibile, anche definita “architettura cognitiva”[10], che sempre più numerosi si stanno sviluppando nel mondo.

Esempio di bioarchitettura sostenibile – Bosco Verticale, Milano Fonte: Wikimedia Commons.

Là dove tutto è iniziato, quindi, pare sia anche il posto verso cui dobbiamo andare.


Fonti

[1] Smart Cities World, City profile – The city of Singapore, giugno 2017, p. 5.

[2] Ivi, p. 6.

[3] D.E. Bloom, D. Canning e G. Fink, Population Aging and Economic Growth, Commission on Growth and development – working paper 22, 2008, pp. 8-17; S.M. Lee, Dimensions of Aging in Singapore, “Journal of Cross-Cultural Gerontology”, 1986, 1, pp. 239-254.

[4] R. Giannone, Società e denaro: due concetti inseparabili? L’economia basata sulle risorse e l’utopia dell’architetto Jacque Fresco, Policlic, 2020, 4, pp. 51-55.

[5] K. Lorentz, Il declino dell’uomo, Mondadori 1983, cap. 1 “La fede in un ordine finalistico dell’universo”, par. “L’evoluzione culturale”.

[6] Ivi, par. “La cultura come sistema vivente”.

[7] S.A.K. Johnsen e L.W. Rydstedt, Active Use of the Natural Environment for Emotional Regulation, “Europe’s Journal of Psychology”, IX (2013), 4, pp. 798–819.

[8] R.J. Hopman, E.E. Scott, S.C. Castro, K. Weissinger, D.L. Strayer, Measuring Cognition in Nature – Neural Effects from Prolonged Exposure to Nature, Psychonomic Society 58th Annual Meeting (Vancouver, novembre 2017).

[9] E.O. Wilson, Biophilia, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1984.

[10] Ibidem. L’architettura cognitiva consiste nel considerare l’impatto che lo spazio fisico ha sulle nostre emozioni, sulla nostra salute fisica e sul nostro stato mentale.

Nessun risultato

La pagina richiesta non è stata trovata. Affina la tua ricerca, o utilizza la barra di navigazione qui sopra per trovare il post.