Introduzione
“La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”[1]; questo è il celebre aforisma del poeta Gabriel García Márquez, da cui prende forma la sua nota autobiografia intitolata Vivere per raccontarla. Da qui vogliamo partire, una frase semplice, forse scontata, tuttavia possente nel suo incedere. Quello che ci resta e a cui restiamo ancorati non può che essere il passato, colmo di ricordi pronti a riaffiorare alla memoria; il tempo, è risaputo, passa per tutti, è lo scorrere naturale della vita con cui dobbiamo confrontarci, giorno dopo giorno, cercando di non essere assorbiti nei suoi “buchi neri”, che ci proiettano in una zona d’ombra, di non senso, che pur riguarda la nostra esistenza.
Il ricordo, passato unico e irripetibile, appartiene al nostro presente; ecco, allora, che presi da somma trepidazione, comprendiamo come esso afferri tutto il tempo della nostra esistenza, quello autentico, pervaso da una costante apprensione avvinta nell’ora. In questo senso, cogliamo meglio l’asserzione “siamo fatti di tempo”; kairos lo definivano gli antichi greci, il tempo “essenziale” dell’esistenza diremmo noi contemporanei, in contrapposizione a chronos, il tempo obbiettivo, misurata sequenza di istanti gli uni uguali agli altri che nulla pronunciano riguardo la nostra esistenza.
Rispetto questa separazione, molto è stato detto. Secondo Edmund Husserl, di fronte alla permanenza di un tempo obbiettivo, occorre apportare una “riduzione fenomenologica”, focalizzando così il campo di analisi sul tempo che appare alla coscienza, il tempo immanente al flusso coscienziale. Questa indagine non è priva di difficoltà:
naturalmente, cosa sia il tempo, lo sappiamo tutti: è la cosa più notoria di questo mondo. Tuttavia, non appena facciamo il tentativo di renderci conto della coscienza del tempo, di porre nel loro giusto rapporto il tempo obbiettivo e la coscienza soggettiva del tempo, di renderci comprensibile come l’obbiettività temporale, e quindi l’obbiettività individuale in genere, possa costituirsi nella coscienza soggettiva del tempo, anzi, non appena tentiamo noi analizzare la coscienza puramente soggettiva del tempo, l’importo fenomenologico dei vissuti di tempo, ecco che ci avvolgiamo nelle più strane difficoltà, contraddizioni, confusioni […][2]
Husserl prende in considerazione il concetto di intenzionalità, basilare per lo sviluppo della sua nozione filosofica, basata sull’idea di una fenomenologia pura, secondo cui ogni atto di coscienza è direzionato verso un correlato oggettivo, assunto che va ben oltre quello che intuitivamente si potrebbe essere portati a pensare; infatti, è importante chiarire come per intenzionalità non si intenda
semplicemente l’astratta logica coscienza – oggetto, ma è la vita della coscienza che è sempre diversa e sempre una al tempo stesso. L’intenzionalità è insieme vita, movimento e differenza[3];
Essa altro non è che l’insieme dei modi attraverso cui la coscienza si orienta verso il mondo. In questa apertura, l’oggetto percepito non è più di interesse filosofico in quanto oggetto fisico, vedi il noumeno kantiano, ma analizzato come contenuto dell’atto corrispondente che produce un vissuto, di cui il ricordo, per ricondurci al tema di fondo del nostro elaborato, ne rappresenta una delle sue oggettivazioni; ciò nondimeno,
per comprendere ora, l’inserzione di questa continuità di vissuti, che è il ricordo, nel flusso unitario dei vissuti, bisogna tener conto di quanto segue: ogni ricordo contiene intenzioni di aspettazione[4] il cui riempimento conduce al presente.[5]
Ciò che resta, allora, è la “assoluta realtà”, intesa come presente, identificazione della soggettività dell’io con il suo continuo mutare e farsi differente nell’ora. Volendo esemplificare il discorso, anche in questo caso la metafora musicale è di grande aiuto:
se, per esempio è possibile percepire un insieme di suoni come successione di singoli suoni distinti in continui punti presenti, i suoni immediatamente precedenti devono essere in qualche modo compresenti nell’adesso per poter percepire l’intero processo melodico.[6]
Se è vero che la vita sia paragonabile a una compiuta e sublime melodia, possiamo allora riascoltare i passaggi più appassionanti di essa, che maggiormente ci hanno colpito, riavvolgendo il nastro musicale del tempo.
Senza voler entrare nel merito della complessa fenomenologia husserliana, che peraltro non rappresenta l’oggetto del nostro elaborato, l’intento è quello di fornire un comprensibile rimando teorico, su come il ricordare possa essere considerato una struttura fondamentale della coscienza, essenziale all’io, quasi a poter riformulare l’asserzione cartesiana in ricordo ergo sum.
Questa acquisizione, però, si può completare soltanto provando a rielaborare il ricordo, la sua immagine, nel nostro caso attraverso l’atto della scrittura. Mettendo, quindi, in stretta relazione l’io ricordato con l’io che ricorda, il tempo, così inteso, diviene oggetto del racconto stesso, un racconto del passato che rivive arricchito nel hic et nunc grazie a suggestioni di natura esistenziale che si attraggono nel presente.
Ponendoci adesso da questa angolazione fenomenologica, l’elaborato che segue rappresenta un tentativo, mi si lasci passare il termine, un “atto coscienziale” volto a dar voce alla propria interiorità sorretta dal ricordo così inteso, il tutto condotto sotto l’influsso di una serie di vissuti riguardanti una epica vacanza fatta nel lontano 1982 presso l’isola di Levanzo in Sicilia, che riaffiorano, perlopiù, in modo impressionistico.
Lo scritto si presenta privo di riferimenti o successioni strettamente cronologiche, non solo per ragioni di natura oggettiva, principalmente legate alla lontananza dell’evento esposto, non coadiuvato da sufficiente materiale, sia fotografico che biografico, necessario alla sua ricostruzione in ordine temporale; tutto questo finisce per assecondare lo sforzo di trasporre testualmente un flusso coscienziale senza interruzione, così come compare all’atto del ricordo, una reminiscenza che si palesa nel momento stesso del suo farsi souvenir.
Il ricordo
“Dilata gli angusti limiti del mio tempo, insegnami che il bene della vita non consiste nella durata”[7], così recita un memorabile adagio del filosofo Seneca. Siamo nel 1982, sono passati quarantadue anni da allora. È un tardo pomeriggio di una calda estate di luglio, il sole cala lentamente dietro gli edifici del caseggiato adesso avvolti in parte dall’ombra. I tre giganteschi alberi di tiglio, su cui ero solito arrampicarmi pericolosamente, saturano l’aria con il loro tipico profumo dolciastro, che si propaga intenso nell’ambiente circostante. È il giorno della partenza, nel largo condominiale si impone in tutto il suo volume, sulle restanti autovetture, il Mercedes “blue notte” di mio padre, con a traino una barca adeguatamente motorizzata, con carena di color rosso rilucente, pronta a solcare i mari dalle acque cristalline del Sud Italia. Gli amici più cari sono tutti presenti nel cortile per i convenevoli arrivederci che, a tratti, assumono il carattere di un commiato. Si parla di tutto, anche se l’argomento principale sono i mondiali di calcio che si tengono in Spagna; siamo tutti convinti che la nazionale italiana possa vincere il titolo, dopo aver eliminato in modo insperato, quasi un miracolo calcistico, Brasile e Argentina, le due squadre più titolate alla vittoria finale; le partite restanti per la finale sembrano una pura formalità.
Mia madre è indaffarata con le ultime verifiche che nulla sia rimasto da parte, perché dopo sarà difficile rimediare. Controlla con cura gli indumenti miei e di mio fratello da portare in vacanza: pantaloncini, magliettine a manica corta e scarpe rigorosamente aperte; tutto un tratto ritorno bambino, sento il suo affetto che mi pervade, osservo i suoi sguardi premurosi, è presente ma non lo è se non nel ricordo che rivivo in tutta la sua potenza: stati d’animo intensi e contrastanti, che mi sovrastano, eppure cerco di placarli nella consapevolezza di un amore incondizionato che solo un genitore ha potuto donare in modo così profondo. Mi sovviene il pensiero del filosofo Martin Heidegger, secondo cui viviamo la morte come un “fatto” costantemente differito; il Si muore attiene al Si anonimo, pertanto, un avvenimento che non riguarda mai noi stessi se non ognuno degli Altri:
Un’interpretazione pubblica dell’esserci dice: “Si muore”; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. […] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un “caso” che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già “accaduto”, coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità. Con quest’equivoco l’esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si, proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo se-Stesso più proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l’essere-per-la-morte più proprio[8].
Tuttavia, con la perdita di mia madre, realizzo più vicina e nitida la prospettiva della mia stessa fine; l’acquisizione improvvisa di questa consapevolezza mi pone dinnanzi alla morte come poter-essere più proprio. In questo senso Heidegger osserva come,
l’Esserci è autenticamente se stesso solo se si progetta primariamente nel suo poter-essere più proprio anziché nella possibilità del Si stesso. L’anticipazione della possibilità incondizionata costringe l’ente anticipante nella possibilità di assumere il suo essere più proprio da se stesso a partire da se stesso.[9]
La partenza è imminente, mio padre si aggira attentamente per casa eseguendo gli ultimi controlli affinché tutto sia chiuso e in sicurezza in modo da non incorrere in brutte sorprese al nostro rientro. Oltre la mia famiglia, si aggiungono, immancabili come in tutte le vacanze di quel periodo, mio cugino paterno e sua moglie, tutti insieme per una attesa quanto appassionata vacanza. In macchina, nonostante la sua inusuale ampiezza, sediamo leggermente costipati: il fatto che io e mio fratello siamo due smilzi undicenni gioca un ruolo decisivo e ci consente di accomodarci in quattro nei posti posteriori dell’autovettura. L’aria condizionata è a palla, un flusso continuo di aria artica soffia dai bocchettoni, rischiando di generare un principio di assideramento agli astanti. Adesso mi domando che macchina fosse questa Mercedes, indistruttibile, dai chilometraggi infiniti, in grado di sopportare un carico assurdo e soprattutto non soggetta all’obsolescente ingegneristica programmata dei nostri tempi.
Si parte; il viaggio si preannuncia lungo e faticoso, l’eccitazione è palpabile e ci fa presto dimenticare le fatiche dovute al tour de force che si profila. L’isola di Levanzo fa parte dell’arcipelago delle isole Egadi, situate alla punta estrema della Sicilia. Occorre giungere a Trapani, per poi imbarcarsi per raggiungere l’isola. L’autovettura, carica all’inverosimile, procede lentamente. L’attuale autostrada, la Salerno – Reggio Calabria, è inesistente, quindi, serve percorrere un tragitto improbabile, a una corsia fino a Reggio Calabria; sarebbe la vecchia Statale 106, detta Jonica proprio perché costeggia il mare, che ti accompagna lungo tutto il percorso avvolgendoti nel suo respiro salmastro. Sbarcati in Sicilia, intraprendiamo un nuovo viaggio, da Messina a Trapani, con sosta a Taormina, giusto il tempo per far visita al teatro greco, con una magnifica quanto scenografica vista sul vulcano Etna. In questo posto ricco di incanto, provo a proiettare la mia immaginazione su antiche rappresentazioni drammatiche e civiltà passate, dalle quali abbiamo ereditiamo un immenso patrimonio culturale.
Giunti a Trapani, è il momento di dividerci. Mio padre e mio cugino, dopo aver parcheggiato la macchina in un’area di lunga sosta, partono con la nostra imbarcazione a seguito di Levanzo: il traghetto di linea non è in grado di trasportare l’autoveicolo con rimorchio. Pertanto, questa è l’unica soluzione percorribile, anche se appare imprudente, per condurre il natante sull’isola. A ogni modo, il mare è calmo, le previsioni del tempo sono ottimali e il mezzo è attrezzato con tutti gli strumenti di bordo per compiere l’attraversata di circa dieci miglia.
La parte restante del gruppo si imbarca in sicurezza sul traghetto di linea. Giunti sull’isola, attendiamo l’arrivo dei due naviganti con forte preoccupazione, anche se non lo diamo a vedere. Tanto che, quando scrutiamo l’imbarcazione provenire dal largo, un sussulto liberatorio accomunato a gioia desta l’immobilità dell’isola, al punto tale da suscitare l’attenzione degli isolani sospettosi e diffidenti, come la cultura locale vuole. Ma questa è una pregiudizievole apparenza perché, una volta insidiati sull’isola, diventiamo subito parte integrante della sua vita, accolti come veri isolani.
La casa dove trascorreremo un mese di vacanza è quella del fornaio del posto, una porzione di appartamento situata al primo piano, proprio sopra il forno, dal quale si infonde a tutte le ore del giorno un profumo di pane appena cotto, mischiato all’immancabile fragranza di gelsomino che da quelle parti cresce rigoglioso. Roba che, ancora oggi, quando mi capita di percepire quei sentori, si apre il cuore al ricordo, una epifania folgorante di sensazioni miste a nostalgia per quello che è stato, tanto che mi mancano le parole per descriverle in tutta la loro pienezza. Un souvenir involontaire, simile a quello che racconta Marcel Proust nel romanzo Dalla parte di Swann, in seno alla raccolta intitolata la Recherche, dove il passato ritorna involontariamente, divenendo presente grazie al profumo della madeleine. L’esperienza sensoriale che si ripropone rompe involontariamente la resistenza tra passato e presente. Il souvenir involontarie, trasfondendo l’io entre le prèsent et le passè, restituisce in modo autentico il tempo perduto all’io che racconta[10]:
un delizioso piacere mi aveva invaso, isolato, senza la nozione della sua causa. Mi aveva subito reso indifferenti le vicissitudini della vita, i suoi innocui disastri, la sua illusoria brevità, allo stesso modo in cui opera l’amore, colmandomi di un’esistenza preziosa: o meglio questa essenza non era in me, lei era me. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale […] all’improvviso il ricordo è davanti a me il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray […] zia Leonia mi offriva […] da dove poteva venire quella gioia violenta, sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine […][11]
La vita sull’isola scorre lenta, le sole parti di costa raggiungibili attraverso un sentiero percorribile a piedi e in breve tempo sono due calette situate poco dietro il vecchio porto, dove sono attraccate, per lo più, le barche dei pescatori che la popolano l’isola. Sono Cala Camarro e Cala Faraglione; quest’ultima prende il nome dall’omonimo scoglio che emerge in tutta la sua imponenza a poca distanza dalla spiaggia, tanto da essere raggiungibile a nuoto.
In queste cale, passiamo diverse giornate quando il mare è troppo mosso, e quindi impraticabile con l’imbarcazione. Io e mio fratello, vitalizzati più che mai da una irrefrenabile quanto temeraria esuberanza giovanile, ci mettiamo poco a invidiare una zona sopraelevata di roccia da dove slanciarci in modo plastico in acqua, quasi a voler sfidare le resistenze dovute al moto rotatorio terrestre. Mia madre osserva preoccupata, non distogliendo lo sguardo per un attimo, ma ci lascia fare. Quel senso di vertigine che provoca il sostare in aria prima dell’impatto in acqua è un momento di pura e impagabile libertà che vivo in modo spensierato, tanto da non poter comprenderne a pieno l’unicità dell’istante che solo adesso riesco a valorizzare a pieno.
Sfiniti dalle nostre coraggiose acrobazie. Degne di un impavido trapezista, adesso indossiamo maschera e pinne, pronti a immergerci nel mare colorato. Impugnammo un pezzo di pane che rilasciamo a tocchetti in acqua per vedere i banchi di pesci accorrere per divorarli in un singolo boccone. Ci imbattiamo in un polpo rintanato, tentiamo di catturarlo, ma questo sguizza via, rilasciando una macchia di inchiostro che si propaga lentamente in acqua; questo provoca in noi una grande eccitazione che trapela attraverso un suono gutturale, amplificato dal tubo della maschera che imbocchiamo per respirare, mantenendo il viso rivolto verso il fondale marino; una immagine ancora vivida in me e che continua a suscitare enorme malinconia, segno di una infanzia ormai perduta. L’incontro con l’invertebrato presto diviene l’argomentazione del giorno; lo raccontiamo a tutti con stupore e ingenua meraviglia, tanto che la storia sembra assumere contorni quasi epici, degni di un racconto di Omero.
Il sole è sorto, si profila un nuovo giorno, questa volta siamo in mare aperto con la barca. Si gira attorno all’isola, attraccando ove possibile per sostare sui suoi lembi aridi e desolati. Il tempo sembra sospeso, il silenzio è assordante, se non interrotto dai ritmi naturali: il suono del mare, il cinguettio degli uccelli marini che nidificano sulla roccia che cala a strapiombo sull’acqua:
non sono le distanze presenti a delimitare lo spazio di questo mondo chiuso, i confini dello spazio sono dati solo nella percezione dei rumori, individuabili in base alla loro diversa intensità. Il mondo di questa muta attesa è nella présence totale come un’isola chiusa da ogni lato: ogni passo oltre il bordo sprofonda nel vuoto[12].
Sullo sfondo, verso l’orizzonte, si intravedono le altre due isole che costituiscono l’arcipelago delle Egadi: Marettimo e Favignana. Quest’ultima la raggiungiamo in barca. Favignana è un‘isola con un centro abitato più esteso rispetto Levanzo, solo un isolato e poetico borgo di pescatori. Qui sostiamo l’intera giornata, aggirandoci per il centro cittadino visitando le sue caratteristiche botteghe, quasi a ritrovare i segni di una civiltà smarrita nei desolati lembi levanzari che ci ospitano per quasi tutto il tempo delle nostre giornate.
È tardo pomeriggio, incombe la sera sulla rotta del rientro da Favignana. Una palla infuocata si spegne lentamente all’orizzonte, trasformando il mare in una sinfonia cromatica che sfuma delicatamente dall’arancione al rosso; la distesa di mare piatto, solcata dalla scia dell’imbarcazione, sembra quasi ritrarre un taglio su tela di Lucio Fontana, una linea immaginaria verso l’infinito. In questo scenario sospeso, il tempo si dilata e la mente si perde in riflessioni sul mutevole spettacolo della natura: la bellezza offerta dal delicato dissolversi del giorno ispira una contemplazione profonda sul mondo, ponendomi in un eminente stato ricettivo verso il creato. Il suono del motore della barca lanciata sul mare è quasi coperto dal fruscio del vento caldo che impatta sui nostri volti. Deve trattarsi del così detto favonio: “il nome di Favignana deriva dal latino favonius termine con il quale i Romani indicavano il vento caldo ricadente proveniente da ovest”[13] . Il continente africano non è distante, è separato dal canale di Sicilia che va dalla punta estrema siciliana (Trapani per intenderci), fino a Tunisi: sento la sua vicinanza, la sua sovrastante presenza nel mezzo di questo mare meraviglioso che porta ancora l’eco di tante culture e popoli che lo hanno attraversato.
Mi intriga l’idea di raccontare tutto in classe, quando ripartirà la scuola a settembre. I contenuti per lo sviluppo dell’immancabile tema sulle vacanze questa volta non mancano, tanto che, quando rientriamo a Levanzo, siedo rivolto sul tavolo provando a buttare giù qualche appunto di viaggio chissà dove finito.
È mattino presto, attrezzati con mulinelli e ami da pesca, io e mio padre molliamo gli ormeggi dal piccolo porto, diretti verso un’area marina consigliata da un amico pescatore secondo cui il fondale è piuttosto rigoglioso. A Levanzo, si usa come esca la lumaca di terra, che sembra funzionare: i pesci abboccano numerosi. La barca galleggia al largo, non siamo molto distanti dalla riva; quasi a turbare la calma sospesa del luogo, isolate onde di risacca impattano sulla carena della barca, conferendole quel tipico rumore sordo che si ascolta nei porti osservando le barche ormeggiate. L’immagine mia e di mio padre, esposti a quel leggero moto ondulatorio che ti fa sentire quasi come un bambino in culla, la porto dietro come un ricordo recondito sempre pronto a riaffiorare, tanto da rievocarlo come “luogo sicuro” ogni qual volta sono sopraffatto da stati d’animo soverchianti, legati a determinati traumi appartenenti alla mia esistenza, per provare a bloccarli in qualche modo.
Abbocca un pesce strano, con una spina acuminata sul dorso che fortuitamente pungola il piede di mio padre. Riusciamo a liberare il pesce dall’amo e riporlo nel cesto insieme al resto del pescato. Successivamente, apprendiamo che ci siamo imbattuti in una cosiddetta tracina e quanto siamo stati fortunati che non sia successo nulla a causa della puntura subita sul piede.[14]
Finale
Oggi è il giorno della finale del mondiale di calcio Spagna ’82, che vede contrapposte Italia e Germania. Il fornaio padrone di casa, ormai amico fraterno, ci invita ad assistere all’incontro presso la sua abitazione, dove dispone di un televisore a colori. Da noi è presente solo uno in bianco e nero, di quelli valvolari quasi di inizio secolo, che nonostante tutto ci ha consentito nei giorni precedenti di vedere la semifinale mondiale vinta con la Polonia per due reti a zero con doppietta del compianto Paolo Rossi.
Sono entusiasmato del fatto di vedere l’incontro accanto ai miei genitori, consapevole di assistere a un evento che passerà alla storia e che non dimenticherò mai più. La partita ha inizio, e il terzino Antonio Cabrini fallisce subito un rigore a nostro favore. Questo genera in me un forte senso di ansia mista ad agitazione. Durante il corso della partita, il cuore batte forte, tanto che mi allontano dalla stanza per prendere una boccata d’aria sul balcone che dà sulla piazzetta centrale del borgo isolano. Mi raggiunge mio padre, gli confido di essere in apprensione per la partita e di non volerla più seguire, lui mi stringe la mano e mi dà una carezza sul volto, tanto che donerei tutta la ricchezza di questo mondo per riceverla ancora, per l’ultima volta; così mi riporta nella stanza per mano dicendomi che devo gestire meglio le mie emozioni, ormai sono adulto e devo comportarmi da grande. Come osserva Umberto Eco “ciò che diventiamo dipende da quello che i nostri padri ci insegnano in momenti strani, quando in realtà non stanno cercando di insegnarci”[15].
Nel secondo tempo della partita, l’Italia dilaga segnando tre gol contro uno solo tedesco, laureandosi campione del mondo; tutto il resto è storia.
Nell’ultimo giorno della nostra fuga dal quotidiano, la giornata si carica di un’atmosfera densa di emozioni. Il nostro amico fornaio, animato da una sorprendente benevolenza nei nostri confronti, che solo la gente del Sud riesce ad esternare in modo così autentico, non nasconde tutto il suo dispiacere per la nostra imminente partenza. Una tristezza spontanea, che trapela attraverso ogni suo gesto, sguardo, persino nel tentativo di convincere mio padre a investire in un pezzo di terra, terreno fertile per future speculazioni edilizie di case vacanza. Ma l’operazione, intrisa di complessità, sembra impossibile da avviare nel fuggevole presente.
Nell’ultima serata, ci ritroviamo tutti riuniti al bar dell’isola, luogo di tante risate e confidenze estive. La memoria ritrae vividamente gli occhi lucidi di mio fratello, una sorta di specchio riflettente della malinconia che ci avvolge. Il profondo dispiacere per la partenza si legge nelle pieghe dei nostri volti a tratti celato da sorrisi abbozzati che tratteggiano un netto contrasto rispetto alla trepida attesa che aveva caratterizzato l’inizio del nostro viaggio.
La nostalgia del presente si insinua profondamente, prendendo il posto della gioiosa anticipazione che aveva dato inizio a questa parentesi di autentica felicità estiva, colmando il momento di un significato più profondo: un epilogo indimenticabile, un momento sospeso nel tempo, in cui il passato, il presente e il futuro si fondono in un prezioso sospiro temporale, rendendo indelebile il ricordo di questa vacanza, destinato a inscriversi per sempre nella mia memoria.
[1] https://www.tuobiografo.it/post/2019/05/23/vivere-per-raccontarla-autobiografia-citazione-gabriel-garcia-marquez.
[2] E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna al tempo, Angeli, Milano 1981, pp. 43-44, citato in P. Taroni, Filosofie del tempo – il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012, pp. 470 – 471.
[3] P. Taroni, op. cit., pp. 471-472.
[4] Nel caso particolare, per “aspettazione”, Husserl intende l’anticipare fasi non ancora vissute, ma alle quali tendenzialmente tendiamo nella continuità dell’esperienza temporale in base alle regolarità esperite nel vissuto.
[5] E. Husserl, op. cit., p. 84.
[6] P. Taroni, op. cit, p. 474.
[7] L. Seneca, Lettere a Lucilio, libro quinto, paragrafo 49, https://www.mauronovelli.it/SENECA%20-%20LETTERE%20A%20LUCILIO.htm.
[8] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2018, pp. 303-304.
[9] Ivi, p. 315.
[10] Cfr. H.R. Jauss, Tempo e ricordo nella recherche di marcel Proust, Casa editrice Le Lettere, Firenze 2003, p. 122.
[11] In H.R. Jauss, p. 118.
[12] Ivi., p. 144.
[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_Favignana.
[14] La puntura di tracina si manifesta in maniera banale. Si avverte un piccolo pizzicore che, anziché scemare dopo pochi secondi, si intensifica […]. La sede è sempre caratterizzata da rossore ed evidente gonfiore – che aumenta a vista d’occhio, https://www.my-personaltrainer.it/salute/puntura-tracina-cosa-fare-come-curarla-quanto-dura-dolore.html.
[15] https://lamenteemeravigliosa.it/umberto-eco-biografia-scrittore-filosofo/.