Il 14 maggio 2018 l’Ambasciata statunitense presso lo Stato d’Israele sarà trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale “unica ed indivisibile” secondo la Legge Fondamentale israeliana. La notizia, che di fatto accellera il percorso già tracciato dal Presidente Donald Trump lo scorso 5 Dicembre, è stata annunciata dal quotidiano Haaretz e da altri media israeliani i quali prevedono che, proprio alla ricorrenza dal 70° anniversario d’indipendenza (1948), l’Ambasciatore David Friedman si trasferirà definitivamente nell’attuale sede del Consolato degli Stati Uniti d’America presso la città di Gerusalemme, assumendone così la funzione di Ambasciata.
In linea con le indiscrezioni mediatiche si è posto il Ministro dell’Intelligence Israel Katz: “Vorrei congratularmi con Donald Trump per la sua decisione di trasferire l’Ambasciata Usa nella nostra Capitale – ha scritto sul suo profilo su Twitter lo scorso 23 Febbraio – non c’è regalo più grande di questo. La mossa più corretta e giusta. Grazie amico”, ha concluso [1] .
Ma perché il trasferimento della sede dell’Ambasciata è oggetto di problematiche e controversie e divide così fortemente la politica e l’opinione pubblica internazionale? I confini dello Stato d’Israele e della Palestina sono stati delineati nel lontano 1967 e vedono il territorio della città di Gerusalemme divisa in due aree: quella orientale, Gerusalemme Est, a prevalenza palestinese e quella occidentale controllata da Israele.
Tale divisione è stata nel tempo confermata da diverse risoluzioni Onu (mentre tra il 2000 ed il 2002 l’Autorità Nazionale Palestinese/ANP proclamava Gerusalemme Est come Capitale della Palestina) e anche nella più recente risoluzione 2334 del Dicembre 2016 (promulgata durante l’amministrazione Obama), con la sistematica condanna degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi.
Nella realtà infatti Israele ha occupato nel tempo numerosi territori palestinesi: le stime di Amnesty International quantificano attualmente in circa 621.000 i coloni israeliani che vivono all’interno della West Bank di cui 200.000 siti in Gerusalemme Est. Secondo le norme di diritto internazionale e le diverse risoluzioni Onu, tale condotta è una chiara violazione delle norme imperative del diritto internazionale.
Anche se a parere del mondo israeliano e dello stesso Ministro dell’intelligence Katz questa risulta essere “la mossa più corretta e giusta”, diversamente è previsto dal diritto internazionale.
Il Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati (2001) delinea chiaramente le condotte da adottare in caso di “violazioni evidenti e sistematiche” del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Ai sensi dell’articolo 41 “gli Stati devono cooperare per porre fine con mezzi leciti ad ogni violazione grave”, ma soprattutto “nessuno Stato deve riconoscere come legittima una situazione creata attraverso una violazione grave né può prestare aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione”. Il nesso è quindi evidente: Gerusalemme intesa come “unica ed indivisibile” capitale dello Stato d’Israele è la derivazione di condotte che hanno per oggetto gravi violazioni evidenti e sistematiche del diritto internazionale. La riunificazione dei territori nella città di Gerusalemme è quindi la conseguenza degli insediamenti israeliani illegittimi, condannati dalla Comunità internazionale.
Trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme comporta nei fatti il riconoscimento di legalità di una situazione derivante da condotta illegale e quindi disattende “l’obbligo di non-fare e non-riconoscere” come riportato nell’art. 41. Questa mossa, infine, riconosce esplicitamente la competenza dello Stato d’Israele sulla Città Santa. Di conseguenza il costante richiamo al Jerusalem Embassy Act – legge che disciplina il trasferimento dell’Ambasciata USA nella città “indivisa” approvata dal Congresso statunitense durante l’amministrazione Clinton nel 1995 – legittima il Presidente Trump solo agli occhi della normativa interna agli Stati Uniti ma resta oggetto di illecito a livello internazionale.
Purtroppo le forze geopolitiche incidono in maniera prevalente e determinante rispetto alla forza della legalità del diritto: in gioco infatti ci sono sì gli Stati Uniti e Israele, supportati dalle attività di lobbying di associazioni come l’AIPAC (American Israel Public Affairs Commitee) o di correnti politiche e/o religiose (il blocco neo-con della politica statunitense al pari della comunità evangelica negli States), ma anche le altre potenze mediorientali che ruotano intorno a questa scelta strategica.
Gli equilibri attuali, già particolarmente precari, potrebbero pertanto modificarsi in maniera irreversibile in terre già macerate da conflitti e lotte politiche: è assai emblematico ad esempio come, sotto l’attuale presidenza di Donald Trump, l’asse Arabia Saudita – Israele si stia rafforzando sempre più con il conseguente impatto sui sostegni internazionali all’Arabia Saudita contro l’ingerenza iraniana in Libano e a favore della guerra lanciata da Riad contro i ribelli filo-iraniani nello Yemen.
Renata Ranucci per Policlic.it