Il “provocatorio” inizio – Vettor Pisani ed Il Cibo Interpretato
C’è del sincero stupore in me nel raccontare e descrivere come all’interno del complesso di Villa Borghese, il Museo Carlo Bilotti (luogo storico della città adibito, nei secoli, anche ad Aranciera) uno degli otto “piccoli musei” gratuiti del Comune di Roma, abbia potuto ospitare tre mostre così diverse l’una dall’altra.
All’ingresso ci si immerge immediatamente in Il Cibo interpretato (in rassegna dal 10 Febbraio fino a Pasquetta) , prima mostra dedicata all’artista contemporaneo Vettor Pisani (scomparso nel 2011) , a cura della moglie Mimma. Questo titolo non è altro che un frammento dell’opera (all’incirca trenta le sculture, i quadri e le installazioni esposte) che vede contrapporsi, in maniera irriverente, i due grandi poli della Vita e della Morte in una contaminazione continua tra classicità e Pop Art.
Ammetto la mia non conoscenza dell’artista in questione prima di varcare le porte del Museo Bilotti; la mostra tuttavia mi ha permesso di apprezzare un’artista altamente provocatorio, crudo (decisamente crudo), a tratti anche violento ma che nella sua violenza artistica è riuscito a scaturire forti impatti visivi, spesso anche scioccanti. Alcuni esempi di questa provocazione e violenta irriverenza si possono trovare nella interpretazione ebbra di Eros e Thanatos o in Santa Teresa nel frigorifero (2004) , una forma di dissacrante Pietà che mostra e mette a nudo il rapporto di amore e odio dell’uomo con il cibo.
Proprio su questo tema sono basate molte delle opere in catalogo, in una mostra dove ampio spazio viene dedicato alla comprensione e alla satira su temi che attanagliano ancora di più le nostre generazioni: la bulimia e l’anoressia. Queste vengono ritratte sempre con sarcasmo dall’artista all’interno del codice alimentare in cui si vede spesso comparire Sigmund Freud.
L’opera più rilevante, stando al parere della critica, è però Orazione (2018), parte della raccolta Il Sentiero delle Sculture è presente all’interno della mostra. L’opera in questione, rielaborazione di una omonima scultura di Pisani del 2007, raffigura una sorta di momento contemplativo del cibo (irriverente lo scheletro posto accanto al cestello di pasta con il “messale” posto alla sua sinistra).
L’impatto che mi ha dato è stato fortemente traumatico (e non è una nota di complimento): l’ho trovata infatti quantomeno discutibile perché del tutto mancante di quella stessa “pasta” usata in altre sue sculture, in poche parole di quella spiritualità laica (benché infatti il tavolo sia disposto e preparato come in una cerimonia sacra) ritornando al suo gioco più che ironico sul valore eucaristico di condivisione.
L’intermezzo – Una passeggiata nella galleria del Museo Carlo Bilotti
Salendo al primo piano si passa alla mostra permanente del Museo Carlo Bilotti che vanta numerosi pezzi di Giorgio De Chirico, Andy Warhol, Larry Rivers, Gino Severini e Giacomo Manzù. Una passeggiata lungo le sale e i corridoi del Museo Bilotti tra Surrealismo e Pop Art, tra capolavori nostrani e internazionali, in cui la connotazione fortemente moderna degli stili che si sovrappongono tra loro lascia però l’occhio appagato dall’omogeneità di colori che, tra un quadro e l’altro, trovano un proprio filo conduttore.
Come ad esempio nel Mistero e Malinconia di una strada (1914), una delle opere più famose di Giorgio De Chirico (maestro italiano del Surrealismo) che si diversifica da tutte le opere presenti nel Museo per la scelta del soggetto ritratto: un paesaggio malinconico , dai colori cupi e tetri e dalle ombre incalzanti. Diverso rispetto alla centralità dell’Uomo (nelle sue diverse rappresentazioni stilistiche) degli altri quadri, ad esempio il ritratto serigrafico Madre e figlia: Tina e Lisa Bilotti (1981) di Andy Wahrol. Un dipinto paradossalmente distante dallo stile delle serigrafie più famose e celebri del visionario artista statunitense. A mia modesta opinione di osservatrice (e amante dell’arte di Wahrol), il quadro riecheggia più canoni classicheggianti che d’avanguardia Pop donando un’intimità familiare al Museo stesso.
Jago e la conclusione “ad effetto” – Habemus Hominem
Al termine della passeggiata lungo i corridoi del primo piano, ci viene inferto il coup de grâce artistico con la potenza immaginifica di Habemus Hominem, allestimento di sculture create dal giovane frusinate Jacopo Cardillo, in arte Jago. La mostra temporanea, in rassegna dal 16 Febbraio a Pasquetta, è un vero e proprio pugno nello stomaco per la bellezza, la ricerca estetica e la cura del materiale scultoreo.
Perchè per Jago la pietra prende vita come in Apparato Circolatorio (2017), una composizione di 30 cuori in ceramica ruotati sul loro asse, che donano all’osservatore l’illusione di osservare un cuore vivo e pulsante. Si sente il rumore dei battiti mentre tre video proiettano contemporaneamente le pulsazioni di questo “muscolo minerale” come se la materia fredda avesse sangue e arterie. La materia viva si ritrova poi nelle opere Sphynx (2015), la scultura del feto felino, e in Memoria di sé (2015), che apre la testa di un adulto per mostrare un bimbo che dorme. Ma senza dubbio il titolo della mostra è il titolo che va a rimarcare l’opera al momento più celebre della sua produzione artistica: l’Habemus Hominem è qualcosa di più di un semplice busto, di una semplice opera d’arte.
È un viaggio nella trasformazione intima della figura del Papa Emerito Benedetto XVI, dalla nomina al Soglio Pontificio del 2005 e dalla “prima fase” dell’opera d’arte (2009) alla rinuncia del 2013 e la rinascita, sei anni dopo, del lavoro di Jago.
Dalla guida della Chiesa Cattolica al suo ritiro in contemplazione e preghiera dentro le mura dello Stato Vaticano, il busto in marmo statuario ha anch’esso vissuto di vita propria (e dell’artista) in quegli anni in un percorso trasformativo giunto all’apice, come riportato dallo stesso scultore nel suo sito (jago.art), proprio con le dimissioni di Ratzinger nel 2013 e culminato con la rielaborazione netta della scultura.
A metà tra la sacralità e la ribellione, Habemus Hominem mostra tanto la contrapposizione umana, sobria e umile di Joseph Ratzinger rispetto alla potenza dell’incarico di successore di San Pietro. Ma soprattutto mette a nudo l’animo umano dell’autore stesso:
“Non ho spogliato il Papa, mi sono spogliato, messo a nudo davanti ai miei
stessi condizionamenti, comprendendo il valore più intimo del fare sculture, che
è manifestazione della mia vera natura. Essere scultore, togliere il superfluo, è il
solo modo che ho per lavorare su me stesso”
(Jacopo “Jago” Cardillo, dalla descrizione dell’opera Habemus Hominem su
jago.art)
Vincitrice della “Medaglia Pontificia” della Santa Sede nel 2012 (non senza polemiche da parte dello stesso autore), l’opera è di grande, grandissimo impatto: il marmo delinea le forme del fragile corpo di un uomo anziano, di un uomo che, riprendendo alcune recentissime parole dello stesso Ratzinger, “sta intraprendendo il pellegrinaggio verso Casa“. I dettagli sono curati in ogni minimo particolare, i muscoli fibrosi ed il corpo nel quale si intravede il disfacimento di una vita giunta nella fase calante scuotono e sconvolgono l’animo dell’osservatore al pari dello sguardo concavo che segue, senza possibilità di scampo, gli occhi dell’osservatore stesso. L’impatto con questa scultura è semplicemente “da brivido”.
La serie di tre mostre e allestimenti è quindi stata un enorme successo interiore per l’arricchimento che mi ha portato e per questo mi sento vivamente di consigliare ai lettori di intraprendere lo stesso viaggio sensoriale e visivo che il Museo Carlo Bilotti offre ai suoi visitatori fino al 2 Aprile, nella splendida cornice “a forma di cuore verde” di Villa Borghese.
Giulia Vinci per Policlic.it