Dalle primarie ai dibattiti – Una breve cronistoria
Negli Stati Uniti d’America ci si avvicina all’ultima settimana di campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2020. Avanzano fulminei gli ultimi e decisivi giorni di comizi, interviste ed eventi pubblici per l’attuale presidente Donald Trump e l’ex vicepresidente Joe Biden per la corsa verso la Casa Bianca nell’anno più difficile e drammatico del nuovo millennio.
Una corsa all’insegna di una violenta contrapposizione tra i due candidati: la perpetuazione della visione trumpiana iniziata nel 2016 o la rapida e definitiva cancellazione del quadriennio peggiore della recente storia statunitense (dal momento che Trump ha superato di gran lunga, per un’importante fetta della popolazione, le già detestate figure di Richard Nixon e George W. Bush).
Come già avvenuto nel corso degli ultimi mesi, la campagna elettorale statunitense, al pari di una più ampia analisi “a stelle e strisce”, è stata osservata con molta attenzione dal nostro progetto editoriale che conclude, con questo “epilogo”, il ciclo di pubblicazioni riguardanti l’ultimo anno politico negli Stati Uniti.
Rispetto alla “situazione caotica” che la Casa Bianca si è ritrovata ad affrontare nella scorsa estate, nel pieno della letale combinazione tra la pandemia e l’esplosione del caso George Floyd[1], la cronaca politica statunitense ha offerto nuovi eventi e spunti da inserire e analizzare per entrambi i partiti in lizza.
Le stesse primarie tra Repubblicani e Democratici, infatti, hanno mostrato due storie totalmente diverse tra loro.
La lunga sfida dei candidati democratici conclusasi ad agosto con la convention di Milwaukee ha decretato la (sofferta) nomina di Joe Biden alla guida del partito che vuole sfidare la presidenza Trump. L’ex vicepresidente di Obama ha raggiunto l’obiettivo dopo un’intensa sfida tra i rappresentanti delle numerose anime del Partito Democratico. Tra quelli che sono riusciti a raggiungere le fasi finali della competizione elettorale si sono distinti, per la solidità delle proposte politiche, sei personalità di grande spessore.
Oltre a Biden e a Bernie Sanders, la competizione interna al partito ha favorito l’avanzata di figure nuove, come ad esempio Pete Buttigieg, giovane sindaco di South Bend, apertamente omosessuale e con un passato nell’esercito. Dopo aver riscosso inaspettati successi in Iowa, Nevada e New Hempshire, Buttigieg ha pagato a caro prezzo il suo smaccato centrismo e ha dovuto abbandonare la competizione a marzo. Nonostante ciò, il primo millennial della storia a competere per le presidenziali ha dato l’impressione di essere un politico molto competente e ha avuto il merito di riaccendere l’entusiasmo di tanti giovani democratici.
Molto interessanti sono state, poi, le candidature di Michael Bloomberg ed Elizabeth Warren. Il primo, ex sindaco di New York con un patrimonio di 50 miliardi di dollari, ha preso parte alla competizione con notevole ritardo rispetto agli altri candidati. Tuttavia, Bloomberg è stato in grado di spendere circa 200 milioni di dollari per la campagna elettorale, troppi per un programma politico imperniato esclusivamente attorno all’opposizione a Trump. Quanto a Warren, invece, la professoressa di Harvard ed esperta di diritto commerciale è riuscita a farsi strada tra i sostenitori del Partito Democratico grazie alle sue proposte radicali in materia fiscale – tassazione del 2% sui patrimoni al di sopra dei 50 milioni di dollari – con cui ha potuto dare del filo da torcere a Bernie Sanders nella speciale competizione interna all’ala sinistra del partito.
Infine, degna di nota è stata la discesa in campo dell’attuale candidata alla vicepresidenza Kamala Harris. Nelle fasi iniziali della campagna elettorale, la senatrice della California è apparsa come favorita per la corsa alla Casa Bianca. Con il tempo, però, è rimasta schiacciata nella competizione tra centristi e radicali a causa della propria difficoltà a trovare un collocamento all’interno di una specifica corrente ideologica del partito. Curiosamente, Harris si è fatta notare soprattutto per gli attacchi rivolti a Biden e alle sue passate collaborazioni con politici razzisti. In un curioso colpo di scena, oggi la senatrice appare come il vero asso nella manica dell’ex vicepresidente di Obama.
Dopo questa estenuante campagna politica, gli elettori democratici hanno scelto di affidare le redini del partito a Biden. Eppure, durante le primarie, l’attuale candidato alla Casa Bianca non ha mai dato l’impressione di poter staccare di molto il suo diretto sfidante Bernie Sanders.
Così, la corsa alla Casa Bianca di Joe Biden è sembrata, fin dal principio, tutto fuorché semplice. Dall’aspra competizione con l’ala sinistra del partito, alla tentennante gestione dell’affaire Hunter Biden – il figlio dell’ex vicepresidente, accusato di aver intrattenuto loschi legami con esponenti della politica ucraina – Biden si è dovuto rimboccare le maniche per gestire una campagna elettorale arsa da drammi sanitari, razziali ed economici tra i più drammatici della storia statunitense.
Sul fronte repubblicano, invece, la “formalità” delle primarie ha visto l’esaltazione dei successi presidenziali nella convention repubblicana dello scorso 28 agosto, che si è tramutata in una sorta di “one man show” dal carattere alquanto kitsch e decisamente troppo pomposo, volto a rappresentare ogni singolo elemento dell’unicità e dell’eccezionalità dell’“American Way of Life”.
All’interno di questa disamina è da considerare anche l’inaspettato e forse erroneamente sottovalutato “colpo di scena repubblicano” della candidatura del rapper Kanye West alle presidenziali (come indipendente[2]) annunciata tramite Twitter lo scorso 4 Luglio. La notizia avrebbe un impatto apparentemente irrilevante se non fosse che lo stesso West non ha mai nascosto – dal 2018 – la propria vicinanza e il proprio sostegno alle politiche di Donald Trump. Secondo le ultime stime e proiezioni (basate su rilevamenti giornalieri)[3], la sua candidatura conterebbe attualmente sul supporto dell’1-2% circa dell’elettorato avente diritto. Anche una fetta così esigua in termini percentuali, però, può risultare decisiva quest’anno. La mossa di West può quindi essere vista come una “pugnalata” a Trump da parte dell’istrionico artista (sostenuto peraltro dall’ugualmente istrionico miliardario Elon Musk).
L’entrata in scena di una figura “fuori dagli schemi” non è più una novità nello scenario politico statunitense (i casi di Trump e del miliardario Ross Perot nelle elezioni del ‘92 e del ‘96 lo confermano), così come non lo sono le campagne nate da scissioni all’interno di un’area partitica. Basti pensare a ciò che avvenne nelle elezioni del 1912, quando l’ex presidente Theodore Roosevelt si presentò con una propria formazione (Progressive Party/Bull Moose Party), staccandosi – in segno di protesta – dal Partito Repubblicano guidato da William Howard Taft: ne prosciugò il bacino elettorale ma, al contempo, contribuì involontariamente alla schiacciante vittoria del candidato democratico Thomas Woodrow Wilson.
Alla luce di ciò, la discesa in campo di West potrebbe equivalere, al termine del voto e probabilmente in entrambi gli scenari, una mossa letale per la sua carriera e immagine pubblica: un artista sconfitto e sepolto nel “rinnovamento culturale” statunitense, reo della propria amicizia con Donald Trump, oppure una marionetta del sistema di potere liberatosi dell’opprimente presenza del tycoon.
Una campagna elettorale che quindi, anche alla luce degli ultimi dibattiti televisivi, si confermerà essere uno scontro senza quartiere (come evidenziato dalla violenza comunicativa dei due contendenti) che si vivrà casa per casa, strada per strada, fino al conteggio dell’ultimo voto – sia esso “fisico” o per via postale.
L’estate rovente di Donald Trump e l’assalto al secondo mandato
(a cura di Guglielmo Vinci)
Donald Trump si presenta alla tornata elettorale determinato alla vittoria e alla conquista di un secondo mandato presidenziale, nonostante un’estate infernale e un autunno iniziato all’insegna di una contestazione sempre più ampia da parte della fazione a lui ostile. Il tutto mentre la situazione pandemica nel Paese ha visto una galoppante risalita dei numeri, che al 30 ottobre indicano oltre 9.018.500 di casi e 229.356 decessi. Un dato che, nel momento in cui viene inserito nell’andamento cronologico del contagio negli Stati Uniti, diventa implacabile: oltre sette milioni di contagiati in più e oltre il doppio di morti rispetto ai numeri del giugno scorso. Numeri che hanno portato il dottor Anthony Fauci a dichiarare come non si possa parlare di una seconda ondata, dal momento che la prima non si è mai fermata.
Dal punto di vista economico-lavorativo, invece, si è osservato come durante la “rovente estate” trascorsa ci sia stata una timida ma costante ripresa del mercato del lavoro da parte delle autorità statunitensi (sebbene in alcuni casi i risultati siano stati al di sotto delle aspettative). La creazione di nuovi posti di lavoro (da un minimo di circa 780.000 a un massimo di 1,8 milioni) ha portato comunque ad aver ridotto il tasso di disoccupazione al 7,9% di contro all’8,4% della precedente fase quadrimestrale. A livello numerico, riportando i dati di settembre pubblicati dal Bureau of Labor Statistics, si contano circa 12.600.000 statunitensi senza lavoro (un dato più che dimezzato rispetto ai 38.500.000 di questa primavera).
Questo dato incoraggiante, tuttavia, non può nascondere il crollo verticale del prodotto interno lordo degli Stati Uniti nel secondo trimestre dell’anno (-31,4% di contro al -5% del primo trimestre, dato rivisto al rialzo a fronte di previsioni ben più catastrofiche). Un crollo che viene in parte compensato (in quanto dato parziale) dal rapporto odierno del terzo trimestre economico, che mostra un balzo del PIL al +33,1%, come certificato dal Dipartimento del Commercio statunitense.
Alla pressione economica sulle spalle di Trump, si aggiunge la tenuta sociale della nazione: dai fatti dello scorso luglio, la spirale della violenza non ha minimamente accennato a fermarsi, insanguinando le strade già devastate delle città statunitensi con altre vittime per mano di entrambe le fazioni sociali in lotta. A tale riguardo vanno menzionati alcuni eventi dello scorso agosto, come il brutale ferimento a Kenosha (Wisconsin) dell’afroamericano Jacob Blake, intervenuto per sedare una rivolta familiare, da parte delle forze di polizia locali[4] (Blake, sopravvissuto miracolosamente all’aggressione, è rimasto comunque paralizzato). A pochi giorni di distanza, in una manifestazione di solidarietà a Jacob Blake e contro le brutalità della polizia, il diciassettenne Kyle Rittenhouse scende per strada e, armato di un fucile d’assalto, uccide due attivisti e ne ferisce un terzo (verrà arrestato il giorno seguente). Il fatto ha causato ulteriore rabbia e sgomento da entrambe le parti, creando anche diversi resoconti della storia attorno anche alle vittime del duplice omicidio di Rittenhouse[5].
Dall’altra parte, in una manifestazione a Portland (Oregon) dello scorso 29 agosto, avviene l’uccisione di Aaron Jay Danielson (membro del gruppo di estrema destra Patriot Prayer) per mano del militante di BLM Michael Reinoehl, il quale ha dichiarato in un’intervista a VICE di aver agito per legittima difesa e al contempo rivendicando il proprio essere “antifascista al 100%”. A pochi giorni di distanza (3 Settembre), Reinoehl è stato a sua volta ucciso dagli agenti federali statunitensi a Lacey (Washington), con dinamiche che hanno lasciato molti dubbi nell’opinione pubblica ma che sono state oggetto di scontro anche a livello politico (in una serie di dichiarazioni pubbliche, Trump ha plaudito all’operato delle forze federali parlando di una giusta “punizione”[6]).
Da ultimo, alla lista di vittime si è aggiunto il nome del ventisettenne afroamericano Walter Wallace, affetto da disturbo bipolare, ucciso il 26 ottobre scorso da due agenti mentre si rifiutava di obbedire agli ordini imposti ed era armato con un coltello. Un’uccisione con modalità d’esecuzione ripresa dal cellulare di un residente locale (gli agenti hanno svuotato due caricatori) che ha sortito un effetto virale e scatenato violenti proteste nella città, con devastazioni, arresti e trenta agenti feriti.
Un altro elemento di scontro riguarda il mondo dei social media, teatro della battaglia tra la presidenza Trump e la Silicon Valley “democratica”. Durante l’estate, Twitter (e successivamente Facebook) sono intervenute in modo netto contro la minaccia della “disinformazione” sulla rete e sulle piattaforme digitali; nello specifico, quella di Donald Trump e dei sostenitori dell’attuale presidente (riconducibile – secondo l’opposizione – alle ingerenze di hacker russi o a opere di cospirazionisti di destra, come nel caso di QAnon[7]). L’applicazione del bollino di “notizia falsa e non verificata” a una serie di contenuti pubblicati dal presidente Trump sul proprio profilo Twitter (come nel caso del voto per posta[8]) è stata recepita da Trump come un’opera di “censura politica”[9].
Le azioni dei social media hanno fornito a Trump ulteriori argomenti nella sua battaglia contro i presunti “privilegi” di cui godono le aziende della Silicon Valley. Può essere letta anche in questo senso la causa avviata pochi giorni fa dal Dipartimento di Giustizia statunitense contro Google (e la correlata Alphabet), accusata di abuso di posizione dominante e di presunto monopolio illegale.
Sono da considerare inoltre, all’interno del discorso politico ed elettorale, due eventi che per motivi differenti assumono una grande rilevanza a livello nazionale e globale, eventi considerati dal presidente Trump come dei veri e propri successi personali. Da una parte, la stipula degli “Accordi di Abramo” tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein dello scorso 15 settembre (su fondamentale mediazione statunitense), documenti che – considerando anche le successive mosse per la riapertura o l’apertura di relazioni con lo stato ebraico all’interno del continente africano e del Medio Oriente – stanno ridefinendo radicalmente gli assetti geopolitici in Medio Oriente a favore di Israele (e degli stessi Stati Uniti, al punto che Trump è stato nominato per il Premio Nobel per la Pace di quest’anno).
Dall’altra, la nomina di Trump della giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema statunitense al posto della recentemente deceduta Ruth Bader Ginsburg, nomina che è stata confermata dal voto del Senato statunitense (a trazione repubblicana). Cattolica tradizionalista e di idee conservatrici, la nomina di Barrett è stata considerata dai democratici (Biden e Nancy Pelosi in particolar modo) e dal fronte anti-trumpiano come una forzatura inaccettabile delle prerogative presidenziali e ha suscitato ulteriori contestazioni da parte dell’attivismo femminista per il rischio di ribaltamento della sentenza Roe v. Wade[10] (proteste che seguono un percorso già definito in passato in occasione della nomina del giudice Brett Kavanaugh, anch’egli cattolico e di posizioni pro-life, come Barrett).
La nomina di Barrett può avere un duplice vantaggio per Trump: il possibile sostegno dell’elettorato religioso (cattolico e non) e la presenza di un’ulteriore figura “vicina” al presidente all’interno della Corte Suprema (durante i quattro anni di Trump, ne sono stati nominate tre) che potrebbe risultare fondamentale nell’esito del voto presidenziale del 3-4 novembre, con un orientamento a maggioranza conservatrice (sei giudici a tre).
Da ultimo, si deve esaminare l’andamento di Trump nel dibattito contro Joe Biden. L’annuncio della positività del presidente e della moglie Melania al COVID-19 (1-2 ottobre) ha indubbiamente penalizzato le strategie elettorali della squadra di Trump, rallentandone il programma di circa dieci giorni (fino al 13 ottobre, quando viene dimesso dal Walter Reed Hospital di Bethesda,Maryland non senza lasciare critiche sul suo atteggiamento post-operatorio). Ma si è anche rivelato un boomerang a vantaggio di Biden, considerata la martellante campagna comunicativa volta a criticare un approccio eccessivamente rigido nel contenimento della pandemia (al limite della sua negazione) che il presidente ha condotto nel corso dei mesi – in particolar modo nella fase più critica della diffusione del virus negli Stati Uniti, quella in cui si assisteva al contrasto tra il parere politico di Trump e quello scientifico di Anthony Fauci.
La contrapposizione televisiva tra Trump e Biden nel corso delle ultime settimane ha sicuramente rappresentato, da un punto di vista politologico e comunicativo, una pessima pagina nella storia politica statunitense contemporanea. Il primo dibattito, che ha visto un gradimento maggiore per Biden, è stato infatti criticato in modo unanime dall’opinione pubblica statunitense (e non solo) per il suo degenerare in una rissa dialettica e caotica, quasi da saloon del West, senza esclusione di colpi bassi e insulti ad personam sferrati da Trump e Biden, quest’ultimo costantemente interrotto dal proprio avversario (senza che il moderatore Chris Wallace, anchorman di FOX News, potesse agire in qualche modo).
Il secondo dibattito, strutturato nel formato del town hall modificato per le condizioni di salute di Trump, ha visto una schiacciante vittoria di Joe Biden in termini di gradimento. Il presidente si è dovuto scontrare con un moderatore più risoluto, la giornalista Savannah Guthrie (CNBC), che ha posto domande “scomode” al candidato repubblicano e puntualizzato con fermezza le sue dichiarazioni, al punto di essere stata eletta a nuova eroina del web dalla frangia “anti-trumpiana”.
Due modi di comunicare diametralmente opposti tra le due guide: la veemenza e la forza energica del discorso trumpiano da una parte, fatta di concetti semplici e fruibili a una popolazione variegata ma che divengono armi spuntate se utilizzate in modo ripetitivo; dall’altra la retorica di Biden (non priva di scivoloni, come avvenuto nel dibattito finale), pacificatoria e volta ad ascoltare le istanze di tutti pur mantenendo una fermezza totale nel cercare di superare una fase buia, divisiva e settaria della storia della nazione sotto Trump, come visto nel dibattito town hall di Biden moderato da George Stephanopoulos (ABC News).
Infine, nel terzo e ultimo dibattito (caratterizzato dalla regola dei “microfoni silenziati”) si è osservata una vittoria “ai punti” di Biden su Donald Trump, che ha sì incalzato l’avversario democratico (con l’aiuto di una innaturale pacatezza comunicativa, ma anche di alcuni errori molto marcati di Biden), ma non è risultato abbastanza convincente per l’opinione pubblica che, stando agli indici di gradimento, è apparsa nuovamente orientata verso Biden anche se con un margine meno ampio rispetto al precedente dibattito.
Ad oggi – e al termine dei tre dibattiti – i sondaggi stilati dalle varie società statunitensi manterrebbero il divario elettorale tra Joe Biden e Donald Trump a favore del candidato democratico con un divario stimabile attorno ai sette-otto punti percentuali (51% contro 43%)[11]. Se rapportati alle stime della scorsa estate, si osserva come il divario sia stato soltanto in parte recuperato da Trump durante i mesi estivi e i comizi – caratterizzati dalle masse di sostenitori non distanziati e senza mascherine – e che l’esplosione del contagio del mese di settembre, sommata ai fattori economici, sociali, politici e alla stessa positività di Trump al virus, abbia avvantaggiato ulteriormente Joe Biden verso la possibile vittoria.
Eppure, i sondaggi vanno sempre valutati come dati provvisori e parziali, al fine di evitare di commettere l’errore catastrofico compiuto dagli analisti in occasione delle elezioni del 2016. Donald Trump ha ancora la possibilità di sconfiggere per la seconda volta chi lo dava per spacciato con largo anticipo (in breve, una molto consistente e rumorosa parte della società), in quello che – qualora si verificasse – potrebbe davvero essere definito come un “miracolo” per Trump (non necessariamente da leggere in chiave positiva).
Il dato al momento incontrovertibile è quello dell’affluenza al voto: in attesa dell’election day del 3-4 novembre, infatti, si parla già di un numero record (al momento è stata superata quota settantacinque milioni di votanti per posta) che indica una partecipazione di massa della popolazione, probabilmente anche di quella popolazione che nel 2016 decise di non votare.
I democratici puntano moltissimo sul voto delle minoranze (etniche e non) per resistere alle politiche discriminatorie incarnate da Donald Trump, ma lo stesso Trump e il mondo repubblicano replicano da sempre indicando come le minoranze siano state sfruttate per meri calcoli politici da parte democratica e poi abbandonate al loro destino (Trump, nello specifico, rivendica azioni inclusive per la comunità afroamericana durante il proprio mandato che ritiene vicine soltanto a quelle di Abraham Lincoln[12]).
Nonostante il caos degli ultimi sette mesi, tra lo scoppio della pandemia globale e l’esplosione del caso Floyd, Trump continua a combattere giocandosi il tutto per tutto per la vittoria finale e la conquista del secondo mandato. Potrebbe non bastare, qualora si andasse ad analizzare la cronistoria della sua amministrazione nella visione complessiva di questi quattro anni, caratterizzati da una serie di mosse impopolari e discutibili in chiave di politica interna e internazionale. In un anno così traumatico, una campagna elettorale dall’affluenza totalizzante può rappresentare un fattore davvero significativo, nonché decisivo, in quello che potrebbe avvenire in seguito.
Anything is possible: Biden e la crociata anti-Trump
(a cura di Alessandro Lugli)
Le primarie democratiche del 2020 hanno dato l’impressione di essere state avvolte, per tutta la loro durata, da una spessa coltre di incertezza. La pandemia di COVID-19 e la parcellizzazione dell’elettorato democratico hanno fatto emergere il ritratto di un partito confuso e ancora molto in ritardo rispetto a quel processo di riorganizzazione promesso dopo la drammatica sconfitta di Hillary Clinton nel 2016.
In un’America travolta dalla spaventosa ondata di decessi causata dal nuovo coronavirus, gli americani si sono ritrovati a dover prendere una decisone che andasse ben oltre i confini politico-ideologici. Così, dopo un serrato testa a testa con il leader della sinistra radicale Bernie Sanders, l’8 aprile 2020 il popolo democratico ha individuato nella persona di Joe Biden il candidato più idoneo a competere con Donald Trump. Decisione, questa, piuttosto in controtendenza rispetto alle indicazioni emerse in seguito all’arrivo del tycoon repubblicano a Washington.
Negli ultimi quattro anni, infatti, il dibattito democratico è ruotato attorno alla necessità di liberare il partito dalle peggiori scorie del liberalismo globalista al fine di riconquistare la fiducia dell’elettorato operaio. Proprio questo obiettivo ha permesso l’emersione di personalità radicali come Alexandria Ocasio-Cortez, trentunenne di origine portoricana, cresciuta nel Bronx e con un passato da barista e cameriera. Una figura aliena rispetto ai laureati della Ivy League a cui i democratici avevano abituato il proprio elettorato, sostenitrice di un socialismo radicale pressoché incompatibile con la cultura liberale statunitense, ma sempre più in voga tra alcune frange dell’elettorato democratico.
Ecco perché l’investitura di “Sleepy Joe” – questo il soprannome affibbiato da Trump a Biden – assume un carattere così anomalo. Sono passati quattro anni dalla notte in cui gli elettori americani decisero di affossare le aspirazioni presidenziali di Hillary Clinton, eppure, assistendo alla campagna elettorale dell’ex vice di Obama, è difficile non pensare al novembre del 2016. In un certo senso, Biden rappresenta tutto ciò che gli americani hanno rigettato in favore del vulcanico Trump: uomo anziano ben istruito, politico moderato e figura di spicco della nomenklatura del Partito Democratico.
Tuttavia, quelli che stiamo vivendo sono tempi eccezionali. La pandemia di COVID-19 continua a sconvolgere i sistemi economici e sanitari del mondo intero, e quelli che fino a sette mesi fa venivano considerati gli assetti politici dominanti oggi si apprestano a diventare sbiaditi ricordi di un mondo pre-pandemia. Da questo punto di vista, la vittoria di Joe Biden alle primarie del Partito Democratico esprime la necessità, da parte dell’elettorato statunitense, di affidarsi a una personalità pacata e rassicurante. Eppure, anche se dotato di minor carisma rispetto allo sfidante repubblicano, e ai suoi predecessori in corsa per le presidenziali, Biden ha dimostrato di avere ben più di un asso nella manica.
Nato in Pennsylvania, cattolico di origini irlandesi, dopo una laurea in legge Biden inizia la sua carriera politica e nel 1972 viene eletto senatore del Delaware, carica che ricopre fino a quando, nel 2008, decide di accettare la vicepresidenza offertagli da Obama. Da qui in avanti, Biden diventa una delle personalità di spicco del Partito Democratico, al punto da essere associato da molti all’establishment tanto odiato dall’elettorato più periferico degli Stati Uniti.
Nonostante ciò, Biden è un politico di grande esperienza, ultimo esponente di una generazione di decisori appartenenti al secolo scorso, capace di parlare un linguaggio politico serio e mai banale. Molti lo descrivono come un uomo paziente, coscienzioso, “che sa mostrare empatia [e] rivolgersi alla working class bianca parlando la sua lingua e non suonando come un maledetto liberal di New York”. Inoltre, l’ex senatore del Delaware sostiene di voler “tornare a un clima politico pre-guerra in Iraq e Patriot Act, quando in Congresso le delegazioni dei partiti tendevano a trovare accordi o maggioranze qualificate grazie a una maggiore propensione al compromesso”; tutto il contrario di quanto suggerito dall’azione politica di Trump, caratterizzata da decisioni e narrazioni oltremodo polarizzanti.
La campagna elettorale di Biden è ruotata attorno a due macro-tematiche: trovare soluzioni pratiche alla crisi socioeconomica del Paese e liberare l’America da Trump. Questi due scopi, secondo il candidato democratico, sarebbero raggiungibili attraverso un maggior coinvolgimento della sinistra radicale – una strategia per accaparrarsi i voti dei tanti giovani sedotti da Sanders – una maggiore integrazione razziale e un allargamento del sistema sanitario.
A differenza di Sanders, però, Biden sembra aver impostato la propria campagna elettorale attorno alla volontà di ottenere il voto della classe media, in un tentativo di replicare quanto fatto da Obama nel 2008. Che il programma strizzi l’occhio alla middle class è sottolineato dall’assenza di stravolgimenti in materia fiscale. Dovesse vincere, Biden procederebbe all’abolizione delle agevolazioni fiscali introdotte da Trump e all’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora. Inoltre, grande attenzione sarebbe assegnata alla riconversione green e al rispetto dei parametri stabiliti dagli accordi sul clima di Parigi.
Le vere risorse elettorali di Biden, tuttavia, rispondono a due nomi ben precisi: Trump e COVID-19. In effetti, il programma dell’ex vicepresidente è apparso fin da subito una scialba copia di quello di Obama, oltre che un goffo tentativo di far coincidere le anime liberali e radicali del Partito Democratico. Ma le vere frecce all’arco di Biden sono proprio la pandemia scatenata dal nuovo coronavirus e la possibilità di confrontarsi con un presidente dimostratosi piuttosto impreparato di fronte all’emergenza sanitaria. Proprio le falle nel sistema di contenimento della pandemia messo in piedi dall’amministrazione repubblicana hanno permesso a Joe Biden di staccare lo sfidante di circa 8 punti percentuali nei sondaggi.
Ad ogni modo, la tornata elettorale che ha incoronato Trump presidente degli Stati Uniti d’America ha dimostrato quanto i sondaggi fatichino a captare le intenzioni di voto degli elettori. Ecco perché quei quasi 10 punti percentuali di vantaggio assegnati a Biden non rappresentano, per i democratici, alcuna garanzia di vittoria. Esistono, infatti, una serie di motivazioni che potrebbero permettere all’ex senatore del Delaware di spodestare Trump, così come ne esistono altrettante che potrebbero determinarne il fallimento.
Infatti, le possibilità di vittoria di Biden risiedono nelle emergenze sanitaria e sociale affrontate dagli Stati Uniti a partire da marzo 2020. Se fino a sette mesi fa le speranze di vittoria dei democratici sembravano ridotte al minimo, a sparigliare le carte in tavola ci ha pensato la più grave emergenza sanitaria che l’Occidente abbia mai affrontato dal Primo dopoguerra in avanti. Con quasi 230.000 decessi, gli Stati Uniti si attestano come il primo Paese al mondo per numero di morti legate alla COVID-19; una quantità di vittime superiore a quelle causate dal conflitto in Vietnam e capaci di mettere con le spalle al muro anche un uomo granitico come Trump.
I lati peggiori della presidenza repubblicana si sono scorti soprattutto in politica interna. Da febbraio 2020, il presidente ha ignorato i continui avvertimenti delle autorità sanitarie, ha sminuito l’uso delle mascherine, si è rifiutato di introdurre il lockdown negli Stati a basse percentuali di contagio e, infine, ha promosso la riapertura delle attività in maniera troppo sbrigativa. A livello comunicativo si è dimostrato quasi indifferente nei confronti delle vittime – emblematica è l’intervista rilasciata a Fox News, storico network repubblicano, in cui il presidente arriva ad affermare che gli Stati Uniti avrebbero il “miglior tasso di letalità del mondo”. Una gestione della pandemia così disastrosa da costringere lo stesso Trump al ricovero per aver contratto la COVID-19.
Dal canto suo, Joe Biden si è presentato all’elettorato nelle vesti del cittadino rispettoso delle regole anti-contagio. L’insistenza posta dall’ex vicepresidente circa il rispetto dei regolamenti sanitari è stata così accurata da spingere Trump a deriderlo sull’uso della mascherina durante il primo dibattito tra i due candidati. Un comportamento come quello di Biden deve aver fatto senz’altro piacere a tutti gli americani colpiti in prima persona dalla COVID-19. Se la pandemia dovesse rivelarsi uno dei criteri più influenti nella strutturazione del voto, Biden non dovrebbe incontrare troppi ostacoli lungo il tragitto che conduce alla Casa Bianca.
Ma le speranze di vittoria dei democratici non risiedono solo nelle difficoltà riscontrate da Trump nel contenimento del contagio. Infatti, a dare propulsione alla campagna elettorale di Biden sono stati i fatti che hanno visto protagonista la minoranza afroamericana in seguito all’uccisione di George Floyd. In America, quella del 2020 è stata un’estate incendiaria, caratterizzata da rivolte di natura razziale che hanno portato la memoria collettiva ai fatti di Watts e Selma. Slogan come I Can’t Breathe hanno accompagnato sparatorie e guerriglie metropolitane da New York a Los Angeles, in un crescendo di violenze che hanno visto protagonisti cittadini afroamericani, forze di polizia, estremisti di destra e sinistra e anarchici. Uno scenario da guerra civile alimentato dalle condanne di Trump nei confronti dei rivoltosi – famoso il tweet “When the looting starts, the shooting starts” (“Se iniziano i saccheggi, iniziano anche le sparatorie”) – e dai suoi continui ammiccamenti nei confronti dei suprematisti bianchi.
La popolazione afroamericana, di fronte all’ennesima dimostrazione di odio razziale, ha riversato tutta la propria frustrazione e la propria indignazione nei confronti di un sistema sociale, politico ed economico incapace di superare quel sistema di razzismo istituzionale che da quattrocento anni alberga nelle profondità più oscure dell’animo americano. In questo contesto, Joe Biden si è schierato con la minoranza afroamericana e ha condannato i fatti di Minneapolis nella maniera più categorica.
Il candidato democratico è apparso in un videomessaggio ai funerali di George Floyd pronunciando parole inequivocabili: “è giunta l’ora della giustizia razziale”. Un messaggio giunto a seguito di un incontro tra Biden e i familiari della vittima che non ha fatto altro che consolidare il legame tra la popolazione afroamericana e l’ex vicepresidente di Obama. Stando così le cose, è ipotizzabile che quello della popolazione nera, nei confronti di Biden, abbia tutte le carte in regola per essere un voto plebiscitario.
Come se non bastasse, il candidato democratico ha ribadito la sua vicinanza alla minoranza nera assegnando la vicepresidenza a Kamala Harris, senatrice della California di origini indo-giamaicane. Da molti considerata la vera erede di Obama, Harris è una politica progressista, molto vicina alle rivendicazioni della comunità LGBT+ e favorevole a una società multietnica. Nel dibattito con il vicepresidente Pence andato in scena il 7 ottobre, Harris ha dimostrato di essere molto preparata e ha provato all’opinione pubblica che una politica dai toni civili è ancora possibile.
L’impressione è che Biden abbia scelto la senatrice della California in modo più che oculato, trasformando la sua discesa in campo in una vera e propria candidatura condivisa; una sorta di ticket per riprendere le fila del discorso sociopolitico iniziato da Obama nel 2008. La mossa di Biden, oltretutto, potrebbe permettere ai democratici di attirarsi le simpatie dell’elettorato femminile – specialmente quello più indeciso – ostile alle frequenti esternazioni sessiste di Trump[13].
In relazione a quanto scritto finora, è chiaro che Biden si avvicina al voto del 3 novembre forte del vantaggio sullo sfidante nei sondaggi e del drammatico andamento dei fatti di cronaca degli ultimi sette mesi. Tuttavia, l’aridità delle proposte di Biden e la sua strategia volta, per lo più, a sfruttare le debolezze di Trump rischiano di rivelarsi elementi troppo poco incisivi alla vigilia di una delle elezioni più incerte della storia degli Stati Uniti.
La vittoria dei democratici non è affatto scontata. Se è vero che Biden può fare affidamento sulla maldestra gestione della pandemia da parte di Trump, è altrettanto vero che per il tycoon non tutto è perduto. Dopo l’introduzione del lockdown e la chiusura di molte attività lavorative, gli americani che hanno perso il lavoro sono stati circa 38,6 milioni, mentre le richieste di sussidi di disoccupazione sono state effettuate da quasi 2,4 milioni di cittadini. Tra marzo e aprile a perdere il posto di lavoro sono stati 22 milioni di americani; un numero tale da compromettere il tasso di occupazione record registrato dal tessuto produttivo statunitense a inizio 2020 – il migliore da oltre cinquant’anni.
Ciononostante, con la fine del lockdown e la ripresa delle attività professionali, le ricette economiche di Trump hanno ricominciato a dare i propri frutti. Infatti, se la riapertura non ha pagato in termini umanitari, lo stesso non si può dire per il tasso di occupazione. Tra maggio e giugno, gli Stati Uniti sono stati in grado di creare la cifra record di 7,5 milioni di posti di lavoro e, nonostante la pandemia non accenni a diminuire, la ripresa della produzione ha permesso all’economia di generare altri posti di lavoro anche nei mesi di luglio, agosto e settembre.
Si tratta di dati destinati ad assumere un’importanza molto rilevante nella strutturazione del voto, dal momento che quelle economico-occupazionali sono tematiche care all’elettorato americano – soprattutto quello appartenente alla classe media, dove la strutturazione del voto si fa più incerta.
Gli incoraggianti dati relativi al tasso di occupazione potrebbero favorire Trump, il quale si presenterebbe agli occhi degli elettori americani come il leader capace di rilanciare la locomotiva dell’economia occidentale. Oltre a ciò, Trump potrebbe far leva sulle detrazioni fiscali per le aziende che producono negli Stati Uniti e sull’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora – proposta, quest’ultima, identica a quella di Biden. Se la tematica economica dovesse rivelarsi ancora una volta molto influente, è probabile che il candidato democratico possa perdere consensi tra gli elettori della middle class e che Trump, invece, possa raccogliere i frutti della propria gestione spregiudicata dell’economia.
A mettere a repentaglio la corsa alla Casa Bianca dell’ex vicepresidente concorrerebbero, poi, motivazioni di carattere politico-ideologico. Biden, infatti, ha strutturato la propria campagna elettorale su un asse che tende, in maniera fin troppo evidente, verso il centro dello scacchiere politico. Una strategia che, meglio di qualsiasi altro strumento numerico o narrativo, descrive la vera natura politica di Joe Biden: un uomo di Stato di lungo corso, più volto al compromesso che al dogmatismo ideologico.
La strategia è evidente: costruire un bacino elettorale in cui possano confluire tutte le categorie sociali che mal sopportano Trump e dove possano trovare riparo le anime repubblicane spaventate dalla polarizzazione espressa dall’attuale presidente degli Stati Uniti. Sulla carta si tratta di una strategia che potrebbe risultare vincente. Ciononostante, è bene tenere a mente i travagli interni al Partito Democratico, specialmente quelli di natura ideologica. Da questo punto di vista, quanto accaduto durante le primarie dei Donkeys è paradigmatico e sembrerebbe una riedizione delle presidenziali del 2016:
La riflessione sulle due anime del Partito Democratico è culminata il 15 marzo, quando Joe Biden e Bernie Sanders hanno partecipato a un dibattito televisivo volto a risaltare le idee degli ultimi due contendenti rimasti in corsa. In quel momento, l’ex vicepresidente si avviava verso la vittoria. Il senatore del Vermont sembra aver voluto allungare la propria campagna elettorale proprio per partecipare al confronto, in modo da piantare le radici del proprio programma, che pare essere considerato migliore dagli elettori, malgrado i magri risultati. Gli exit poll effettuati dal Washington Post durante le primarie di uno stato operaio, il Michigan, testimoniano questa contraddizione. Secondo tali sondaggi, il 58% degli elettori ha scelto il candidato che può verosimilmente sconfiggere Donald Trump, mentre il 37% ha votato il programma che condivide maggiormente. Il 53% di quest’ultima fetta di elettorato ha preferito Sanders, contro il 39% che ha votato Biden. Viceversa, l’ex vicepresidente è stato preferito dal 62% degli elettori che hanno scelto il candidato in grado di sconfiggere Trump[14].
Biden sembra mosso dalla volontà di fornire risposte pragmatiche di breve respiro per risolvere le problematiche socioeconomiche causate dalla pandemia, piuttosto che da una visione di lungo termine che possa dar vita a una società adatta alle esigenze del futuro. Da questo punto di vista, la ripresa di alcuni capisaldi del messaggio politico di Obama sembra confermare la fragilità ideologica del programma di Biden. L’inevitabile conseguenza di questo atteggiamento è un progressivo scivolamento verso il centro dello scacchiere politico che, per sua stessa natura, presuppone la volontà di voler accontentare il maggior numero di elettori possibili.
Purtroppo, come ha dimostrato il fallimento di Hillary Clinton nel 2016, lo scivolamento dei democratici verso il centro, nel tentativo di arginare la destra reazionaria, rischia di far pendere l’ago della bilancia proprio verso i repubblicani, in un “circolo vizioso in cui l’ala liberale, nel tentativo di arginare Trump, ne legittimerebbe gli ideali, contribuendo a spostare l’asse della politica americana verso la destra suprematista”. In un momento storico drammatico come quello che sta vivendo l’Occidente, le conseguenze di un simile scenario avrebbero pericolose ripercussioni per le fasce della popolazione più emarginate – afroamericani, latinos e immigrati su tutti – e consentirebbero a Donald Trump di continuare il suo programma di erosione sociale.
In una tornata elettorale così tumultuosa, pronosticare un vincitore è una sfida impossibile. Di certo, la campagna elettorale di Joe Biden ha avuto il merito di fornire qualche indicazione utile. Se il 3 novembre Biden dovesse parlare agli americani nelle vesti di nuovo presidente degli Stati Uniti, la sua vittoria sarebbe interpretabile più come figlia dei demeriti di Trump che di meriti personali. In caso contrario, il Partito Democratico avrà sprecato quattro anni a demonizzare il presidente meno popolare della storia americana, piuttosto che a ricostruire il legame con il proprio elettorato di pertinenza.
Chi sarà il nuovo presidente? Il parere di Policlic.it
ALESSANDRO LUGLI:
Nonostante tutti gli errori commessi, sono convinto che alla fine Trump riuscirà a vincere anche queste elezioni. La campagna elettorale di Joe Biden è stata contraddistinta da una pressoché totale assenza di contenuti politico-ideologici e si è giocata interamente sull’opposizione al candidato repubblicano e alla sua sciagurata gestione della pandemia. Troppo poco per convincere il grosso della società americana: la middle class attenta alle questioni di natura economica e l’elettorato bianco delle aree più remote del Paese poco incline all’integrazione razziale.
GUGLIELMO VINCI:
Ritengo alquanto probabile che Joe Biden sarà il nuovo presidente statunitense, ma con un margine meno ampio di quanto riportato dai sondaggi, probabilmente con uno scarto attorno ai cinque punti percentuali.
Per Trump un’eventuale vittoria sarebbe quasi un miracolo, ma anche una sconfitta con uno scarto minimo sarebbe un risultato notevole, considerati i presupposti. Nutro profonde perplessità per un risultato che sarebbe, effettivamente, figlio di una serie di errori macroscopici portati avanti dall’attuale presidente nel corso dell’ultimo anno e mezzo, amplificati dalla pandemia globale e dalla questione sociale esplosa nel Paese. Di sicuro, la vittoria di Biden non rappresenterebbe in alcun modo un elemento da analizzare positivamente.
Guglielmo Vinci e Alessandro Lugli per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Per una lettura panoramica, si rimanda ai contributi di Guglielmo Vinci, Gli Stati Uniti verso il giro di boa di Novembre in Policlic, n. 1, maggio 2020 e La (ri)Nascita di una nazione? in Policlic, n. 2, giugno 2020.
[2] La piattaforma politica creata da Kanye West è in corsa in dodici Stati della nazione.
[3] Le stime e i riferimenti statistici riportati, in ordine cronologico decrescente, da varie società di comunicazione e marketing sono disponibili sulla pagina tematica di Wikipedia.
[4] Stando alla cronaca, le indagini interne portate avanti in seguito all’aggressione di Jacob Blake hanno stabilito la responsabilità diretta dell’agente Rusten Sheskey, che ha materialmente colpito la vittima con sette colpi di pistola alle spalle. L’agente e due suoi colleghi sono stati posti in congedo amministrativo in attesa di ulteriori sviluppi. Si rimanda a Jacob Blake: Police officer in Kenosha shooting named, BBC News, 27 agosto 2020.
[5] Il caso del duplice omicidio di Rittenhouse si lega alle storie delle sue vittime e di come il caso sia stato oggetto di un’altrettanto duplice lettura in base alle parti coinvolte: tra gli ambienti della destra statunitense, si ritiene che Rittenhouse abbia agito per legittima difesa (e in seguito sono circolate su Internet numerose notizie – da fonti considerate “non attendibili” – sulle fedine penali di Joseph Rosenbaum, 36 anni, e Anthony Huber, 26 anni). Per gli attivisti vicini alle istanze di Black Lives Matter e Antifa, invece, l’azione di Rittenhouse è stato un altro simbolo del razzismo e del suprematismo bianco. Un’inchiesta del “Washington Post” dello scorso 3 ottobre ha presentato un’ampia e approfondita panoramica sugli eventi attorno alla sparatoria di Kenosha. Si rimanda a Robert Klemko e Greg Jaffe, A mentally ill man, a heavily armed teenager and the night Kenosha burned, “The Washington Post”, 03 ottobre 2020.
[6] “This guy was a violent criminal, and the US Marshals killed him. And I’ll tell you something — that’s the way it has to be. There has to be retribution.” (President Trump sits down with Judge Jeanine in exclusive interview, FOX News/Youtube, 13 settembre 2020)
[7] In riferimento al caso di QAnon, si rimanda all’intervista a Leonardo Bianchi curata da Francesco Finucci Le teorie del complotto: potere contropotere e controinformazione in Policlic, n. 3, luglio 2020.
[8] I primi contenuti segnalati risalgono al 26 maggio scorso (https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1265255835124539392).
[9] Si rimanda al contributo del presente autore La (ri)Nascita di una nazione? in Policlic, n. 2, giugno 2020.
[10] Roe contro Wade è una sentenza storica del 1973 in cui la Corte Suprema statunitense dichiarò incostituzionale la proibizione dell’aborto da parte dello Stato del Texas (che lo concedeva solo nei casi in cui fosse a rischio la vita della madre). Rappresenta la base della normativa federale statunitense per la decriminalizzazione dell’aborto ed è rimasta un costante oggetto di controversia tra la fazione pro-choice e quella antiabortista.
[11] Gli ultimi sondaggi nazionali, riferiti al periodo 29-30 ottobre, sono stati pubblicati da 270 to Win, RealClear Politics e FiveThirtyEight.
[12] “Nobody has done more for the black community than Donald Trump, and if you look, with the exception of Abraham Lincoln, possible exception […] nobody has done what I’ve done in the US.” (“Nessuno si è prodigato per la comunità nera più di Donald Trump, e se andiamo a vedere, con la sola possibile eccezione di Abramo Lincoln […] nessuno ha fatto quello che ho fatto io negli Stati Uniti.”)
[13] Donald Trump è più volte salito agli onori della cronaca per frasi offensive e pregiudiziali nei confronti delle donne – a titolo esemplificativo, il “Washington Post” ha pubblicato un video risalente al 2005 in cui Trump afferma che “quando sei una star le donne ti lasciano fare tutto”.
[14] E. Cerrini, Il tentativo di conciliare liberalismo e socialismo nella provincia americana, in “Pandora Rivista”, 10 luglio 2020.