Questo articolo è estratto dalla Rivista n.0 di Policlic pubblicata il 27 aprile. Scarica qui sotto la versione integrale.
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Secondo Sigmund Freud, a inizio Novecento l’uomo aveva dovuto subire già due mortificazioni, ma si avviava inerme verso la terza. La prima è rappresentata dalla scoperta che la terra non è al centro dell’universo; la seconda, dal momento in cui Darwin aveva chiaramente detto di non essere – noi uomini – troppo diversi dalle scimmie, di essere stretti parenti del regno animale.
Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale ha intenzione di dimostrare all’Io non solo che egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche[1].
Sintetizzando al massimo, per Freud l’Io agisce da equilibratore tra due istanze, quelle della specie che chiama Es e quelle sociali che afferiscono al Super-Io: così ogni parziale invasione dello spazio dell’Io genera nevrosi, la quale si trasforma in psicosi se questo spazio è completamente occupato dall’una o dall’altra istanza, dall’Es o dal Super-Io. Dev’essere da tale riferimento allo spazio domestico che il “Sighi” della serie Netflix Freud enuncia questo pensiero:
Io sono una casa, è buio al mio interno, la mia coscienza è una luce solitaria, una candela al vento. Tremola da una parte e dall’altra, tutto il resto è avvolto nell’ombra, tutto il resto giace nell’inconscio. Ma le altre stanze ci sono: nicchie, corridoi, scale, porte. Sono sempre lì. Tutto ciò che vive dentro di essa, tutto ciò che vaga dentro di essa, è sempre lì. Continua a vivere e operare all’interno della casa che sono io. L’istinto, l’eros, i tabù, i pensieri proibiti, i desideri proibiti. Tutti quei ricordi che non vogliamo vedere in piena luce, che abbiamo spinto via dalla luce, continuano a ballare intorno a noi nel buio.
Forse è l’unico momento degno di attenzione dell’intera serie – insieme alla ricostruzione scenografico-architettonica della Vienna di fine Ottocento: una citazione – che a me risulti – completamente inventata, eppure che bene restituisce l’intricata rete di cunicoli alberganti nella mente dello studioso. Nella totale finzione della serie televisiva, questa finta citazione si mostra persino plausibile.
Oggi nelle nostre case siamo costretti, e non sappiamo ancora per quanto, cioè non sappiamo nemmeno per quanto tempo sceglieremo di rimanerci pur di non fingere una socialità che ci viene proposta come “distanziata” – un bell’ossimoro politologico, non c’è che dire. Ovvero: se dobbiamo mangiare in un locale una pizza al plexiglass con un’amica, non preferiremmo invitarla a casa e farci giungere la pizza a domicilio (certo, c’è il rischio che l’amica Fleur Salomé si trasformi in un “táltos”, però…)? Almeno così possiamo decidere noi se, quando e quanto avvicinarci al suo corpo, e viceversa, se sfiorarle un braccio mentre le parliamo o addirittura proporle di assaggiare un pezzo della nostra pizza direttamente dal nostro stesso piatto. Riprendendo il discorso freudiano, in questo momento la permanenza in casa rischia di generare una nevrosi – se intendiamo la casa come prodotto della specie (è nostra la tendenza a considerare l’uomo l’unico animale con una casa tout court) – o anche una psicosi – se pensiamo la casa un fatto sociale, una maniera di abitare il mondo –, qualora cioè in entrambi i casi il suo spazio continuasse a invadere il nostro Io. Oggi è la casa che entra dentro di noi e non noi che rientriamo a casa. In tempi non sospetti, nel 2016, un saggio dal titolo “Le case dell’uomo. Abitare il mondo” metteva insieme l’opinione di architetti, antropologi, psicologi, studiosi circa la “questione domestica”. Io la definirei “domottica”, perché è una serie di visioni sulla casa e richiama, al contempo, le innovazioni tecnologiche che investono la sua evoluzione – proprio come noi umani. Ed è davvero singolare l’incipit dell’intervento in merito di Alessandro Mendini, architetto di fama mondiale (Chevalier des Arts et des Lettres in Francia):
Le definizioni dell’arredo oscillano fra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è la casa intesa esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è la casa intesa come espressione poetica, come sentimento, come spazio psichico[2].
Eccolo, Freud, persino il Freud farsesco della serie austriaca Netflix, farsesco perché prima con un pendolo e poi con tre tocchi di polpastrelli ipnotizza la sua cliente, che non è una cliente, ma un’amante, una medium, una ninfomane, è tutto è niente: è bella (Unheimliche?). Le mani al centro di questo processo, e sempre in una casa, in una stanza.
Mendini ipotizza nel suo intervento proprio una sorta di “artigianato digitale” da cui siamo e saremo ipnotizzati: si riferisce agli oggetti, alla possibilità, ridotti adesso noi “nelle nostre tiepide case”, di fabbricare quegli oggetti nati in serie, da sé, di crearli colle nostre mani – quanti lo stanno facendo, mani sul pane, mani sul pene (per restare in termini squisitamente freudiani). L’Austria ha costruito non una serie su Freud, ma un altro sé di Freud, una possibilità, una proiezione: ha partorito un altro Freud da sé, uno Sherlock Holmes che, come Freud, ipotizza e ipnotizza – Sherlock ha sempre ipnotizzato tutti, lettori e investigatori, e si è sempre drogato per meglio ipotizzare, proprio come l’altro sé Sighi – e in casa torna perché c’è qualcuno ad aspettarlo (il Watson di Freud è una governante molto complice). Netflix ha dato spazio a una serie di Freud, non su Freud, una serie di cliché: gli altri Freud che ci siamo fabbricati nella nostra conoscenza prêt-à-porter di chi cita autori citando autori che citano autori. La casa di Freud della serie Netflix più vista del momento è colma di gingilli, e lo sono anche le nostre case, adesso più che mai, piene di “oggetti”: per Mendini dobbiamo trasformare gli oggetti in “cose” – le “cose” emozionali? (aggettivo stra-abusato). Quello in cui gli oggetti non sono ancora cose
è il tempo dove non si crede, dove tutto scivola in orizzonti di indifferenza progettuale, elaborata in uno stato di solipsismo. Lo sguardo resta basso, l’orizzonte è corto e privo di teorizzazioni. Si fa, ma non si sa cosa si fa[3].
Stiamo facendo lievitare dolci, ma non sappiamo cosa è lievito: il tempo non trascorre, si alza ma non passa oltre. Quello che manca, per dirla alla Erving Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione), è il retroscena, anzi meglio: il tempo del retroscena. Solitamente, a dire il vero, è la casa il luogo del retroscena perché la casa è rifugio, rifugio da occhi altrui, dal nemico, tempo per sé, tempo di sé. Adesso è tutto: scena e retroscena. Abbiamo perso il teatro e adesso ce ne accorgiamo e ci manca. Abbiamo “più tempo” e invece no: ci pare meno di quando ne disponevamo meno. Sembra accadere quanto raccontato da un medico tedesco alla giornalista ebrea Charlotte Beradt, che ebbe l’incredibile idea di raccogliere i sogni dei tedeschi durante il regime nazista prima del secondo conflitto mondiale. Lo riporta Francesco Remotti nel suo saggio “Abitare, sostare, andare: ricerche e fughe dall’intimità”:
A visite concluse, verso le nove di sera, mentre sono in procinto di sedermi pacificamente sul divano con un libro su Matthias Grunewald, improvvisamente le pareti scompaiono dalla mia stanza, dal mio appartamento. Mi guardo attorno costernato, tutti gli appartamenti che riesco a vedere non hanno più pareti. Sento gracchiare un altoparlante: “In conformità al decreto del 17 del mese corrente, relativo alla rimozione delle pareti”[4].
L’incubo potrebbe essere, specularmente, per noi oggi identico: sognare di stare in un posto, all’aperto, con amici o da soli, al bar o in una grande biblioteca, e improvvisamente compaiono quattro mura a separarci da tutto il resto: il regime del virus versus il virus del regime.
Simone Di Biasio per Policlic.it
Note
[1] S. Freud, Vorlesungen zur Einfühlung in die Psychoanalyse (1915-1917); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, vol. VIII, 1978, p. 446.
[2] Aa. Vv., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, Utet, Novara, 2016, p. 57.
[3] Ivi, p. 60.
[4] Ivi, p. 98.