La posizione di La Malfa sulla svolta del centro-sinistra
Si combatte una battaglia politica secondo coscienza: e ci si trova fianco a fianco con persone che si disistimano; e di fronte a persone che si stimano. Così si finisce spesso con l’augurare il successo… Agli avversari. È quello che faccio io con Lei [1].
Il primo marzo 1962, una settimana dopo l’insediamento del quarto governo Fanfani, Enrico Mattei, il fondatore dell’ENI, scrisse queste parole in una lettera indirizzata a Ugo La Malfa. Il giorno successivo il governo formato da esponenti di DC, PRI e PSDI venne presentato alle Camere e il Partito Socialista «varcò il Rubicone, o meglio lo attraversò a metà»[2] (il suo fu, almeno per il momento, solo un appoggio esterno, senza partecipazione diretta al governo). Si aprì una dura battaglia per convincere i socialisti, i quali potevano essere lo «strumento adatto a un’azione di rinnovamento spirituale»[3]. Il partito di Nenni – lo si è detto – si arrestò a metà del guado e finì per astenersi in Parlamento a causa soprattutto del dibattito ancora incerto sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ugo La Malfa fu in quel governo titolare del Ministero del Bilancio; faceva parte, insieme a Fanfani e a pochi altri, delle “teste forti” incluse nel ministero, esponente di punta della cosiddetta terza forza. Entrambi, La Malfa e il suo piccolo Partito repubblicano, avrebbero dato un sensibile contributo al centro-sinistra.
Il sospirato centro-sinistra
Negli anni che precedettero l’apertura a sinistra si susseguirono i governi guidati da «Fanfani a Fanfani passando per Tambroni»[4]. Tuttavia, tra il governo Fanfani del 1958-59 (Fanfani II) e quello del 1960-62 (Fanfani III) cambiarono non solo la composizione governativa, ma anche, e radicalmente, le visioni che permeavano il primo partito del governo: la Democrazia Cristiana. Quest’ultima, infatti, era il primo partito del Paese e aveva come elemento di freno i tre partiti laici italiani, considerando anche che questi ultimi si trovavano, tra loro, in contrasto programmatico.
La Malfa cercava intanto nuovi approdi a sinistra. La situazione di superamento del centrismo che si andava creando rappresentava sul piano interno e internazionale un’occasione di sviluppo sia per il consolidamento della democrazia in Italia sia per la difesa dell’unità democratica europea. In occasione della legge sul bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 1959-60 La Malfa, in polemica con Giovanni Malagodi, riassunse i punti fondamentali per una politica economica aperta alle esigenze di sviluppo della società italiana, considerata a ragione molto diversa da quelle Nord europee. Approfittando del periodo di congiuntura economica favorevole si sarebbe dovuto intervenire nella struttura economica dello Stato. Questo perché l’Italia, paradossalmente, non aveva le istituzioni di un Paese a piena occupazione o di una civiltà economica omogenea. Viveva una situazione di benessere superficiale con delle deficienze strutturali intrinseche alla sua stessa storia. L’errore commesso era quello di ritenere il “miracolo economico” frutto esclusivamente dell’attuazione di una politica avveduta. A suo modo irreversibile. Quasi profeticamente La Malfa prevedeva come, una volta fuori dalla fase di crescita, si sarebbe cominciato inevitabilmente a risentire del vuoto istituzionale dietro la politica economica.
Essendo intervenuta la recessione – diceva – il governo ha dovuto confessare che coincidenza fra le linee di sviluppo previste dal piano Vanoni e la realtà della nostra situazione economica non c’era più[5].
Ciò avveniva a causa della particolare ossatura istituzionale del Paese, piena di “contraddizioni economiche”. Il progresso industriale e il diffuso livello di benessere erano localizzati in determinate aree. Vi erano infatti zone di disoccupazione, sottoccupazione, miseria, debilitazione umana e sociale, non solo al Sud (come sosteneva una tardiva letteratura meridionalistica) ma anche nelle regioni del Centro e del Nord Italia che generavano aree di depressione e di industrializzazione a macchia di leopardo.
Il Paese vide il centro-sinistra «formarsi nelle strade»[6] soprattutto grazie al radicamento territoriale dei comunisti, anche se esclusi dai giochi. Il successo delle Olimpiadi che si svolsero a Roma nell’agosto del 1960 ridiedero slancio e fiducia, il PIL continuava a crescere senza sosta e così la produzione, la ricchezza privata e l’esportazione dei nostri prodotti nel mondo.
In questa nuova stagione, La Malfa incalzò il suo e gli altri partiti sul mai abbandonato tema della programmazione. Con il pragmatismo che lo contraddistingueva, si chiese in particolare come fare a non lasciare i progetti riformatori sul piano teorico. Coinvolse la sinistra democratica, invitandola a fare un passo avanti oltre le “generiche enunciazioni” e la politica delle mere tassazioni e a ricercare lo strumento più adatto verso i fini di una politica di sviluppo economico. Negli altri partiti criticava la «povertà programmatica»[7] con cui affrontavano i problemi economici e sociali. Sapeva che il boom economico, se non scrupolosamente gestito, avrebbe portato a un’enorme dispersione di energie e di capitali pubblici che invece era fondamentale incanalare in maniera più proficua.
In questo progetto lamalfiano, le priorità erano fondamentalmente: un giusto equilibrio tra iniziativa privata e iniziativa statale, così da evitare degenerazioni da una parte e dall’altra; la difesa dei valori laici; l’istruzione; l’idea di un’Europa unita. Questi erano i punti dichiarati da La Malfa a Venezia sin nel 1957 e fu questo il progetto che egli portò con sé nella battaglia per il centro-sinistra. In un importante articolo dall’eloquente titolo “Recuperare le classi popolari”, definiva questi punti «aspetti importanti della battaglia di domani». Era la sua una visione lungimirante. Lungimirante perché sapeva discernere i reali problemi politici dalle misure di propaganda elettorale. Lungimirante perché il suo obiettivo non era quello di «soddisfare necessità immediate e contingenti, ma, costringendo tutti a sacrifici, […] realizzare un obiettivo lontano e permanente»[8].
Dietro le quinte della formazione del governo del ’62, esecutivo in cui La Malfa avrebbe avuto la possibilità di attuare la sua politica programmatica, erano in atto lunghi e intensi scambi riguardanti la fiducia al governo, uno fra tutti quello tra La Malfa e il leader socialista Nenni. Pochi giorni prima che questa fosse votata i toni erano ancora carichi di tensione. Scriveva il repubblicano:
Consentimi di esprimerti, quindi, per iscritto e meditatamente, il mio giudizio su quelle decisioni, giudizio che si compendia nella assoluta convinzione che mentre un voto di fiducia il più diffidente e condizionato che vogliate dare porterà al finale successo della battaglia, un’astensione, anche la più benevola possibile, segnerà l’inizio di un grave indebolimento e, quindi di un processo regressivo, le cui conseguenze sono facilmente prevedibili[9].
Giocando tutte le sue carte, evocava qui quegli interventi programmatici firmati il 2 marzo 1962 e concludeva, quasi sfogandosi:
Se avessi saputo in tempo che si sarebbe arrivati ad una vostra astensione, non sarei certo entrato nel governo.
Del governo Fanfani La Malfa fu l’attivo ministro del bilancio. Trovandosi in quell’ufficio così delicato e “strategico”, si trovò a redigere la relazione economica di un anno particolarmente fortunato, il 1961; ma il commento, intrinseco nella Nota aggiuntiva, fu lapidario e insieme denso di contenuti: «Questo è uno sviluppo che però dobbiamo ordinare attraverso la programmazione, per risolvere alcuni fondamentali problemi del Paese».
«Con Vanoni e Saraceno, e chi altro?»[11]
I primi mesi del Ministero furono frenetici. Dalle interviste e dalle parole del ministro del Bilancio, anche in quelle pronunciate in sedi più private, si deduce quanto l’amministrazione da lui diretta si trovasse impreparata alla svolta radicale che egli avrebbe voluto imporre. Il disordinato sistema di enti e sottoenti cresciuto dapprima col fascismo e poi ereditato dalla Repubblica, che ne aveva fatto campo per forti intromissioni della politica dei partiti di maggioranza, non si adattava alle esigenze di programmazione economica, anzi vi si opponeva con tenacia.
Alcuni degli uomini di cui La Malfa si circondò, in grado di aiutarlo nel suo progetto di politica di sviluppo globale, collaboravano con lui già da anni ed erano personalità che avevano perseguito e perseguirono poi sempre, nel corso della loro vita, le finalità proposte dalla Nota aggiuntiva e attivate dalle azioni per primo governo. Merito non secondario di La Malfa fu averli riunirti in gruppo, secondo un modello che si ispirava al team di tradizione americana. Primo fra tutti, tra gli uomini-chiave, va citato Pasquale Saraceno. Fondatore della SVIMEZ, nel 1950 tra i più convinti sostenitori e ideatori della Cassa per il Mezzogiorno d’Italia, collaboratore di Donato Menichella durante la sua permanenza nell’IRI (dove si era fatto le ossa sin dall’ultimo periodo dell’anteguerra), Saraceno aveva partecipato alla preparazione dello “schema Vanoni” e fu tra i primi collaboratori nella redazione della Nota aggiuntiva. Cattolico ma non conservatore, può considerarsi uno degli uomini chiave del tentativo di risanamento del divario tra Nord e Sud. Saraceno venne poi nominato da La Malfa vice-presidente della nuova Commissione Nazionale per la Programmazione Economica (Cnpe). Il risultato – successivo – fu la presentazione nel 1964 del cosiddetto “Rapporto Saraceno”, un documento economico provvisorio che, una volta modificato sulle basi delle osservazioni fatte dai commissari, fu poi presentato alle Camere dal ministro del Bilancio del Governo Moro I, il socialista Antonio Giolitti.
Saraceno venne quindi reclutato nel trust di cervelli insediato in via Venti Settembre (di cui fecero parte anche Paolo Sylos Labini, Francesco Forte, Giorgio Fuà e altri giovani economisti non di minore rilievo). Si trattava di personalità di varia appartenenza ideologica: Sylos Labini, Forte e altri erano socialisti o di area socialista; anche Fuà, pur avendo lavorato con responsabilità notevoli nell’ENI di Mattei. Allo stesso scopo La Malfa invitò a partecipare i sindacati operai e organizzazioni imprenditoriali.
Il Presidente di Confindustria, Furio Cicogna, dopo qualche resistenza, si presentò e partecipò all’insediamento della Commissione. Non fu un’esperienza facile, anche se fu, quello di La Malfa al Bilancio, un periodo dinamico.
Perché allora – viene da domandarsi – la sua politica programmatica negli anni dal 1960 al 1965 non ebbe una sua sostanziale continuità? Forse perché – viene naturale rispondere – un processo di sviluppo come quello che si propose il primo centro-sinistra avrebbe dovuto trovare un maggiore radicamento negli strati e sub-strati più profondi della società italiana, che a loro volta influenzavano partiti, deputati, senatori e ministri.
Claudia Ciccotti per Policlic.it
Fonti Bibliografiche
[1] ACS, Fondo U. La Malfa, Atti e corrispondenza, s. I, b. 21.
[2] S. Telmon, Ugo La Malfa. Il professore della Repubblica, Milano, Rusconi, 1983, p. 97.
[3] E. Mattei, La nuova battaglia di Ugo La Malfa, “Successo”, n.5, maggio, 1962 ora in P. Soddu, Ugo La Malfa. Il riformista moderno, Roma, Carocci, 2008, p. 216.
[4] P. Soddu, Ugo La Malfa. Il riformista moderno, Roma, Carocci, 2008, p. 207.
[5] U. La Malfa, Discorsi Parlamentari, Roma, Camera dei Deputati, Segreteria generale, Ufficio stampa e pubblicazioni, 1986, p. 694.
[6] Y. Voulgaris, L’Italia del centro sinistra, Roma, Carocci, 1998, p. 87.
[7] U. La Malfa, Povertà programmatica, “La Voce Repubblicana”, a. XXXVIII, n. 90, 15 aprile 1958, sintesi del discorso pronunciato a Rieti il 13 aprile 1958, ora in U. La Malfa, Scritti 1953-58, G. Tartaglia (a cura di), prefazione di P. Craveri, Roma, Istituto Poligrafico della Zecca dello Stato, 2003, p. 859.
[8] U. La Malfa, Le scelte per il domani, “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n.58, 8 marzo 1957, ora in U. La Malfa, Scritti 1953-1958, cit., p. 727.
[9] ACS, Fondo U. La Malfa, s. II, b.12, lettera da U. La Malfa a P. Nenni, 2 marzo 1962.
[10] Ibidem.
[11] S. Telmon, Ugo La Malfa. Il professore della Repubblica, cit., p. 11.