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Il ddl Zan: ennesimo tentativo di combattere la discriminazione
Lo scorso 4 novembre, la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge Zan, contenente misure per la prevenzione e il contrasto dell’omobitransfobia[1]. Sebbene il testo, per divenire legge dello Stato, dovrà essere definitivamente approvato dal Senato, il passaggio alla Camera è da accogliere con favore per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché l’Italia è ancora priva di una legge per il contrasto delle discriminazioni tra orientamenti sessuali[2] e, in secondo luogo, poiché tutti i precedenti tentativi di stilarne una sono inesorabilmente naufragati[3]. Al pari di questi ultimi, anche il ddl Zan è stato subissato di una pioggia di critiche. Da un lato si sono schierati coloro i quali hanno visto nel testo della legge intenzioni liberticide[4]; dall’altro, alcune associazioni LGBT+ sono scese in piazza lamentando l’insufficienza della riforma[5].
La complessità del tema impone di ricercare l’autentico significato giuridico dell’intervento legislativo, evitando di spostare l’analisi sul terreno dello scontro ideologico. L’omofobia e la discriminazione di genere non sono problematiche appannaggio di pochi, bensì questioni che, attingendo all’ampio bacino della parità, hanno portata universale. In quest’ottica, il giurista è chiamato a contemperare due valori apparentemente contrapposti: il rispetto della dignità umana e la tutela della libertà di espressione. Solo coniugando questi principi si può consentire a ciascuno di manifestare il proprio pensiero, salvaguardando contestualmente l’altrui integrità psicofisica. È questa l’unica via per garantire la pursuit of happiness, ossia la ricerca della felicità, che la Dichiarazione d’indipendenza americana ha identificato come diritto inalienabile dell’individuo[6].
Gli hate crimes minano la coesione e la stabilità sociali
In prima battuta, occorre evidenziare che l’omobitransfobia, al pari di alcune manifestazioni di violenza di genere, rientra nei cosiddetti hate crimes. Stando alla definizione fornita dall’OSCE[7], si tratta di violente manifestazioni di intolleranza che, avendo un forte impatto non solo sull’individuo ma anche sul gruppo di appartenenza, ledono la coesione e la stabilità sociali[8].
I crimini di odio hanno dunque un duplice effetto, poiché sono in grado di danneggiare non soltanto la vittima “diretta” del reato, ma anche il gruppo cui ella appartiene. Il più delle volte, gli autori del crimine scelgono casualmente l’individuo da vessare, strumentalizzandolo al fine di colpire un’intera categoria[9]. Le conseguenze dei reati sopracitati sono incalcolabili, poiché essi non si limitano solo a compromettere l’animus della vittima, ma si estendono a tutti coloro che ne condividono la caratteristica discriminata. Questo processo, che può portare all’isolamento di interi gruppi di persone, finisce con il destabilizzare la società, compromettendo la sicurezza, l’uguaglianza e la pari dignità dei suoi membri[10].
Oltre che dalla peculiare capacità diffusiva, gli hate crimes sono caratterizzati dal bias motive, ossia dall’essere fondati sul pregiudizio. Laddove mancasse il movente discriminatorio, le medesime condotte integrerebbero reati comuni che, come tali, sarebbero perseguibili secondo le ordinarie norme incriminatrici. In altre parole, è proprio il particolare motivo di pregiudizio a connotare gli hate crimes e ad acuirne il disvalore penale[11].
In una società multiculturale come quella contemporanea, è evidente che sia impossibile predeterminare le categorie più esposte al rischio di discriminazione. Al contrario, è compito del legislatore intervenire in modo mirato, tutelando di volta in volta i gruppi presi di mira nello specifico contesto socioculturale[12]. Nel tentativo di offrire una guida al nomoteta[13], l’OSCE ha suggerito di reprimere le condotte che discriminano il marker of group identity, ossia quell’insieme di caratteristiche immutabili che identificano un determinato gruppo di persone[14]. Valorizzando il requisito dell’immutabilità, taluni hanno dubitato che l’omosessualità possa assurgere a tratto identitario di una categoria sociale[15]. In realtà, anche volendo irragionevolmente negare che l’orientamento sessuale sia un carattere insito nell’individuo, la sua asserita mutevolezza non ne giustifica una diminuzione di tutela. La tradizione giuridica occidentale, infatti, presidia con la sanzione penale caratteristiche individuali ben più volatili, quale il credo religioso, senza che nessuno abbia mai seriamente dubitato dell’opportunità delle relative norme incriminatrici[16].
Per la Corte EDU, l’odio omobitransfobico è assimilabile a quello razziale
Individuato il genus cui appartengono i delitti introdotti dalla legge Zan, bisogna evidenziare che al momento, e fino all’approvazione del disegno di legge da parte del Senato, l’ordinamento italiano è uno tra i pochi ancora sprovvisti di norme contro l’omobitransfobia. Si tratta di un primato poco commendevole, viepiù considerando che sistemi giuridici tradizionalmente meno sensibili alla tutela dei diritti umani, come quello georgiano e quello ungherese, hanno registrato significativi progressi verso la tutela delle minoranze sessuali. Quasi tutti i Paesi europei dispongono oggi di un efficace sistema di contrasto alle discriminazioni, e il Portogallo ha persino costituzionalizzato la propria vocazione anti-omofoba[17].
Occorre dunque chiedersi se il diritto internazionale ponga, a carico degli Stati, l’obbligo a dotarsi di una legislazione per il contrasto all’omobitransfobia. Guardando alle principali fonti sovranazionali e soffermandosi, in primo luogo, sulla CEDU, si può osservare che l’articolo 14 della Convenzione pone un generico divieto di discriminazione. Le norme dell’Unione europea sembrano più esplicite sul punto, poiché l’articolo 2 del Trattato istitutivo fonda l’ordinamento comunitario “sui valori del rispetto della dignità umana” e “sui diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”[18]. Con maggiore incisività, l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione aggiunge che “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso […], le convinzioni personali […] e l’orientamento sessuale”[19]. Infine, occorre menzionare l’articolo 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, il quale annovera tra i crimini contro l’umanità la “persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, ispirata da ragioni di […] genere sessuale”.
Già da una concisa disamina del panorama sovranazionale può dunque inferirsi, per le Parti firmatarie dei Trattati appena menzionati, l’obbligo di incriminare le condotte che discriminano determinati orientamenti sessuali. Questa conclusione trova conferma nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che non solo ha equiparato l’odio omobitransfobico ai crimini di odio razziale[20], ma ha addirittura ricondotto gli hate crimes nei trattamenti degradanti avversati dall’articolo 3 della Convenzione[21]. Per questa via, la Corte EDU è arrivata a porre un implicito obbligo di incriminazione in capo agli Stati del Consiglio d’Europa, ritenendo che le condotte discriminatorie in discorso siano caratterizzate da un maggior disvalore penale, il quale giustifica una tutela più intensa e specifica delle vittime appartenenti al gruppo LGBT+[22]. Infatti, dopo aver ribadito l’equiparazione tra l’omobitransfobia e l’odio razziale, la Corte ha recentemente condannato la Lituania per non aver adottato misure idonee a reprimere le discriminazioni tra orientamenti sessuali, rilevandone il contrasto con il diritto al rispetto per la vita privata e con il divieto di discriminazione[23].
Le novità introdotte dal disegno di legge
Ricostruito – sul piano sovranazionale – il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, si può passare all’esame delle novità introdotte dal ddl Zan, ricordando che esso diverrà operativo solo dopo aver ricevuto l’approvazione del Senato.
Il disegno di legge si apre con un articolo definitorio, decisivo al fine di garantire la precisione delle nuove fattispecie di reato introdotte dal legislatore[24]. Il fulcro della riforma è però negli articoli successivi, i quali modificano il codice penale assimilando le manifestazioni di odio omobitransfobico a quelle, già punite, di odio razziale e religioso. Più nel dettaglio, vengono incriminate le condotte discriminatorie “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”, anche commesse in forma istigatoria[25], violenta[26] o associata[27].
Il ddl Zan modifica anche la cosiddetta aggravante dell’odio razziale, estendendone l’applicazione ai crimini animati dall’odio omobitransfobico. In questo modo, il giudice dovrà aumentare la pena di una quantità massima pari alla sua metà[28] per i reati animati da “motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale [o] sull’identità di genere”. Trattandosi di un’aggravante comune, essa troverà applicazione per qualsiasi reato, a patto che venga commesso per i motivi indicati dalla norma[29].
In questa prima parte, la riforma attua chiaramente le coordinate offerte dalla giurisprudenza sovranazionale che, come si è visto, ha in più occasioni assimilato i reati di odio razziale a quelli di natura omobitransfobica. Questa parificazione, peraltro, ha consentito al legislatore di estendere ai secondi le pene accessorie previste per i primi. Si tratta di sanzioni particolarmente gravose dalla natura piuttosto eterogenea. Con la sentenza di condanna, infatti, il giudice potrà aggiungere alla pena della reclusione l’obbligo di “rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata”. Potrà, inoltre, disporre la sospensione della patente di guida, dei documenti validi per l’espatrio e del porto d’armi del condannato, nonché vietargli “di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative”.
Viene poi valorizzato l’istituto dei cosiddetti lavori di pubblica utilità, che potrà essere applicato dal giudice sia prima della condanna per la messa alla prova dell’imputato, sia dopo come condizione per ottenere la sospensione condizionale della pena e, addirittura, come pena accessoria da sommarsi a quella della reclusione.
Concludendo la disamina delle novità sostanziali, è importante osservare che il ddl Zan tutela espressamente il pluralismo delle idee e la libertà delle scelte. Con una previsione ad hoc, probabilmente superflua sul piano giuridico ma significativa su quello valoriale[30], sono “fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, a patto che esse non siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
Sul piano processuale, la riforma estende alla vittima di odio omobitransfobico le tutele previste a favore dei soggetti particolarmente vulnerabili; si tratta di una pletora di norme che prevedono, tra l’altro, la possibilità di ascoltare queste persone avvalendosi del supporto psicologico.
Esauriti gli interventi in materia penale, il ddl Zan si conclude con alcune politiche promozionali volte ad affermare la parità di genere tra i vari orientamenti sessuali. Oltre a istituzionalizzare una giornata nazionale contro l’omobitransfobia, la riforma finanzia i centri antidiscriminazione e li abilita ad accogliere le vittime dei nuovi reati. Infine, anche per monitorare l’applicazione delle norme introdotte, la legge chiama l’Istat a svolgere, con cadenza quantomeno triennale, indagini statistiche sulle discriminazioni di genere e tra orientamenti sessuali.
Le reazioni della comunità LGBT+
Conclusa la disamina delle nuove norme, si può passare al vaglio delle principali critiche mosse contro l’intervento legislativo. Per evidenti ragioni logiche, è bene dare primariamente voce ai destinatari delle nuove tutele, i quali, pur salutando con favore il ddl Zan, ne hanno denunciato la sostanziale insufficienza.
Tra le varie lacune evidenziate dalla comunità LGBT+, si segnala innanzitutto la mancanza di norme volte a contrastare le cosiddette pratiche riparative o di riorientamento sessuale. Si tratta di percorsi cui vengono sottoposte, soprattutto in giovane età, le persone che abbracciano un’identità di genere o un orientamento sessuale ritenuti devianti. Di recente, la Germania ha proibito questo tipo di pratiche, non solo vietandone l’offerta, ma anche sanzionando genitori e tutori che costringono i minori a sottoporvisi[31].
Le associazioni di settore hanno poi evidenziato la scarsa diffusione dei centri antidiscriminazione, i quali non sono presenti in tutte le regioni italiane. Ciò ne paralizzerebbe l’efficacia, poiché difficilmente i soggetti svantaggiati sono propensi ad allontanarsi dal proprio contesto territoriale di riferimento.
Infine, sono state mosse critiche sulla stabilità dei finanziamenti assegnati ai predetti centri e sulla sostanziale impossibilità di rilevare, in modo sufficientemente attendibile, i fenomeni di omobitransfobia[32].
Una riforma “liberticida”? Il delicato bilanciamento tra principi e diritti fondamentali
Esaminando le critiche mosse dai detrattori della riforma, è possibile individuare un triplice ordine di preoccupazioni: in primo luogo, si teme che il ddl Zan possa comportare una “discriminazione alla rovescia”; in secondo luogo, che le nuove norme incriminatrici difettino di precisione; in terzo luogo, che possa esservi un’intollerabile compressione della libertà di pensiero. A ben vedere, nessuna delle tre obiezioni sembra cogliere nel segno.
La prima obiezione viene smentita dall’insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui è irragionevole trattare in modo identico fattispecie differenti[33]. In altre parole, il canone di ragionevolezza, corollario del principio di uguaglianza, impone al legislatore di garantire un trattamento differenziato alle situazioni oggettivamente diverse. In quest’ottica, la scelta legislativa di approntare una tutela rafforzata per i soggetti maggiormente vulnerabili pare pienamente conforme al dettato costituzionale[34].
La seconda obiezione, ponendosi in continuità con la giurisprudenza CEDU che chiede al legislatore di formulare i precetti penali in modo chiaro[35], denuncia l’imprecisione delle fattispecie incriminatrici introdotte dal ddl Zan. Al riguardo, giova innanzitutto ricordare che il testo approvato dalla Camera si apre proprio con un articolo definitorio, il quale chiarisce cosa debba intendersi per sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere[36]. Restano indefiniti gli “atti di discriminazione”, ma ciò non sembra destare particolari preoccupazioni: l’impiego della stessa locuzione nelle fattispecie di odio razziale non ha sollevato alcun dubbio interpretativo.
La terza obiezione, secondo cui la riforma avrebbe un contenuto liberticida, rimanda al bilanciamento tra diritti fondamentali e, per tale motivo, merita una riflessione più approfondita. Le nuove norme, poste allo scopo di tutelare la pari dignità degli individui e, quindi, l’uguaglianza sostanziale, potrebbero infatti collidere con la libera manifestazione del pensiero.
Il legislatore, conscio della possibile frizione tra diritti fondamentali[37], ha espressamente fatto salvi il pluralismo delle idee e la libertà di scelta, “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. La norma, sebbene abbia un forte contenuto ideologico, si palesa invero non indispensabile all’esito di una lettura sistematica delle nuove disposizioni. È sufficiente rilevare, infatti, che tanto la Corte costituzionale[38] quanto la Corte EDU[39] “condizionano” la tutela della libera manifestazione del pensiero alla garanzia di diritti altrettanto rilevanti. In altre parole, se anche la legge non avesse fatto salvo il pluralismo delle idee, i limiti che la norma reca alla libertà di pensiero sarebbero in ogni caso ammissibili purché non eccedenti la misura necessaria per tutelare la dignità umana.
Da ultimo, è necessario interrogarsi sulla conformità del ddl Zan al principio di offensività, sul quale poggia il diritto penale moderno. Questo principio, dall’indubbio rilievo costituzionale[40], consente di incriminare un determinato comportamento solo se esso si dimostra capace di ledere o, quantomeno, di porre in pericolo un bene giuridico. Pertanto, non è possibile sanzionare penalmente le manifestazioni di pensiero che non sono in grado di danneggiare o esporre a rischio alcun interesse giuridicamente rilevante.
La riforma è pienamente compatibile con il principio in discorso, poiché il legislatore ha scelto di non sanzionare le condotte di mera propaganda omobitransfobica[41], limitandosi a incriminare quelle istigatorie[42]. In questo modo, il ddl Zan è in linea con il precetto costituzionale perché, da un lato, non introduce alcun reato d’opinione e, dall’altro, persegue solo le condotte realmente lesive dell’altrui dignità[43].
Fugati i dubbi di compatibilità costituzionale, la riforma sembra muovere un passo decisivo verso l’affermazione della parità. Con questo termine si fa riferimento alla parità tra gli individui cui tende l’articolo 3 della Costituzione, che è un concetto preferibile – quantomeno in questi ambiti – rispetto a quello di uguaglianza. Quest’ultimo potrebbe difatti evocare un’idea di “appiattimento” sociale, mentre è del tutto fisiologico che esistano differenze interindividuali. Si ha una distorsione non solo quando esse divengono fonte di discriminazione, ma altresì ove, magari inconsapevolmente, si cerchi di livellarle. Il diritto moderno, allora, non può limitarsi a tutelare la diversità, ma dovrebbe promuoverla, garantendo a ciascuno di vivere la propria felicità in una società realmente paritaria.
Francesco Battista per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Si tratta del disegno di legge n. 2005, intitolato “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, rinveniente dalla fusione dei disegni di legge nn. 107, 569, 868, 2171 e 2255. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[2] Il difetto di una legislazione in materia espone l’Italia al rischio di essere sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
[3] Si pensi, ex multis, alla Proposta di legge Di Pietro ed altri del 2009, di cui all’A.C. n. 2807, e al successivo Progetto di legge Soro ed altri del 2010, di cui all’A.C. n. 2802. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[4] Mario Adinolfi, scagliandosi contro alcuni parlamentari di Forza Italia che avevano votato a favore del ddl, sul suo profilo Facebook ha scritto che “le intenzione [sic] di Zan e del PD sono violente e liberticide”. Mons. Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia, ha invece sostenuto che la legge “introdurrebbe nel sistema normativo uno squilibrio nel rapporto tra la libertà di opinione e il rispetto della dignità umana”. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[5] V.C. Speziale, Oggi LGBT+ in piazza per una “buona legge” contro l’omobitransfobia e la misoginia, in “Scomunicando”, 17 ottobre 2020. All’interno della comunità LGBT+, pluralista per vocazione, si rinvengono comunque molte voci favorevoli al testo approvato dalla Camera. Cfr. F. Boni, Legge contro l’Omotransfobia, la risposta delle associazioni LGBT al testo base, in “Gay.it”, 1° luglio 2020; Omotransfobia, il comunicato di 12 associazioni Lgbt+: «Ok testo Zan. Ma nessun passo indietro», in “GayNews”, 1° luglio 2020. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[6] Nel testo della Declaration of Independence americana del 1776 si legge: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness”. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[7] Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
[8] Cfr. OSCE, Hate Crime Laws. A Practical Guide, Odihr, Varsavia 2009, p. 11: “Hate crimes are violent manifestations of intolerance and have a deep impact on not only the immediate victim but the group with which that victim identifies him or herself. They affect community cohesion and social stability. A vigorous response is therefore, important both for individual and communal security”.
[9] Per questa ragione, l’OSCE definisce come “simbolici” gli hate crimes. Cfr. ivi, p. 17.
[10] Infatti, i primi commentatori hanno incluso gli hate crimes nei delitti contro l’ordine pubblico. Per approfondire, v. G. Puglisi, La parola acuminata. Contributo allo studio dei delitti contro l’eguaglianza, tra aporie strutturali ed alternative alla pena detentiva, in RIDPP, 2018, pp. 1329 e ss.
[11]OSCE, op. cit., p. 16.
[12] L. Goisis, Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli 2019, p. 31. L’autrice ritiene, pertanto, improponibile un numerus clausus di categorie da tutelare.
[13] Il nomoteta è colui al quale, nell’antica Grecia, veniva affidato il compito di redigere le leggi. Il termine è impiegato oggi come sinonimo di “legislatore”. Cfr. voce Nomotèta, in Vocabolario on-line Treccani. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[14] Esemplificando, l’OSCE ha chiarito che, pur essendo gli occhi blu una caratteristica immutabile, essi non identificano qualcuno come parte di un gruppo, sicché il colore degli occhi non risulta essere un marker of group identity.
[15] Cfr. L. Goisis, Libertà di espressione e odio omofobico. La Corte europea dei diritti dell’uomo equipara la discriminazione in base all’orientamento sessuale alla discriminazione razziale, in RIDPP, 2013, pp. 418 e ss.
[16] Cfr. OSCE, op. cit., p. 38.
[17] Per approfondimenti sul piano comparatistico, v. L. Goisis, Sulla riforma dei delitti contro l’uguaglianza, in “Riv. it. dir. e proc. pen.”, fasc. 3, settembre 2020, pp. 1519 e ss. Tra l’altro, nell’opera, l’autrice nota che “violenza omobitransfobica e violenza di genere sono accomunate in tutte le legislazioni”.
[18] Lo stesso articolo aggiunge che “questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
[19] Altre fonti sovranazionali, dal tenore non vincolante e, pertanto, definite di soft law, offrono importanti spunti definitori. Tra esse, spicca in particolare la Risoluzione adottata il 24 maggio 2012 dal Parlamento europeo, che descrive l’omofobia come “una paura e un’avversione irrazionale provate nei confronti dell’omosessualità maschile e femminile e di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT), sulla base di pregiudizi”, la quale “è assimilabile al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo”.
[20] Cfr. Corte EDU, sent. 9 febbraio 2012, n. 1813/07, Vejdeland et alii c. Svezia.
[21] Cfr. Corte EDU, sent. 12 aprile 2016, n. 12060/12, M. C. e A.C. c. Romania.
[22] Cfr. C. Fatta, Hate Crimes all’esame della Corte di Strasburgo: l’obbligo degli Stati di proteggere i membri della comunità LGBT, in “Nuova Giur. Civ. Commentata”, 2016, 10, pp. 1334 e ss.
[23] Cfr. Corte EDU, sent. 14 gennaio 2020, n. 29297/18, Beizaras e Levickas c. Lituania.
[24] In particolare, l’art. 1 del ddl Zan chiarisce che “a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.
[25] Una volta entrata in vigore la riforma, verrà punito con la reclusione fino a un anno e mezzo chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi […] fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.
[26] Ricevuta l’approvazione del Senato, verrà punito con la reclusione fino a quattro anni “chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi […] fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.
[27] Promulgata la legge, verrà punito con la reclusione fino a sei anni chi, in vario modo, partecipa a gruppi o associazioni che incitano alla discriminazione o alla violenza per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.
[28] Il secondo comma dell’art. 604-ter c.p. regola il concorso di circostanze, prevedendo che l’aggravante in discorso debba sempre prevalere su eventuali attenuanti concorrenti.
[29] In realtà, l’aggravante è quasi comune, poiché non trova applicazione ai delitti puniti con l’ergastolo, sanzione che il legislatore ha ritenuto di per sé congrua.
[30] Nel prosieguo dell’articolo, infatti, si vedrà che la giurisprudenza interpreta in modo restrittivo il reato di istigazione, sussumendovi solo le condotte concretamente idonee a offendere il bene giuridico tutelato dalla norma. In altre parole, in assenza di un’espressa previsione legislativa, non sarebbe punibile chi si limita a manifestare il proprio convincimento, pur se discriminatorio, senza con ciò ledere l’altrui integrità.
[31] Cfr. T. Mastrobuoni, Germania, approvata la legge che vieta la “conversione” degli omosessuali, in “la Repubblica”, 8 maggio 2020. (Ultima consultazione: 16 febbraio 2019.)
[32] Cfr. C. Speziale, Oggi LGBT+ in piazza per una “buona legge” contro l’omobitransfobia e la misoginia, cit.
[33] Cfr., ex multis, Corte cost., sent. 15 aprile 1993, n. 163.
[34] Cfr. E. Dolcini, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2011, pp. 25 e ss.
[35] Cfr. Corte EDU, sent. 14 aprile 2015, n. 66655/13, Contrada c. Italia, laddove i giudici di Strasburgo chiariscono che “la loi doit définir clairement les infractions et les peines qui les répriment. Cette condition se trouve remplie lorsque le justiciable peut savoir, à partir du libellé de la disposition pertinente, au besoin à l’aide de l’interprétation qui en est donnée par les tribunaux et le cas échéant après avoir recouru à des conseils éclairés, quels actes et omissions engagent sa responsabilité pénale et quelle peine il encourt de ce chef”. In Italia, il principio di precisione è considerato un corollario di quello, più generale, di tassatività della norma penale. Riconosciuto l’indubbio rilievo costituzionale di quest’ultimo principio, la dottrina non è concorde nell’individuarne l’esatto ancoraggio normativo. Il pensiero tradizionale fa discendere il principio di tassatività dall’art. 25, c. 2 Cost., così rendendolo strumentale rispetto a quello di legalità. Gli autori più moderni, invece, riconducono il principio de quo all’art. 101 Cost., poiché se il giudice è soggetto solo alla legge quest’ultima non può che essere chiara; all’art. 112 Cost., perché eccessivi margini di discrezionalità vanificherebbero l’obbligo di esercitare l’azione penale; all’art. 24 Cost., poiché la chiarezza della norma è strumentale al pieno esercizio del diritto di difesa; infine, all’art. 54 Cost., poiché i consociati possono osservare la legge solo se è chiara. Cfr. F. Caringella e A. Salerno, Manuale ragionato di diritto penale, Dike giur. ed., Roma 2020, pp. 138 e ss.
[36] Per i relativi significati, cfr. supra, nt. 24.
[37] Il principio di uguaglianza sostanziale è consacrato nel secondo comma dell’art. 3 Cost.; quello di libera manifestazione del pensiero, nell’art. 21 Cost.
[38] Già nel 1974, la Corte costituzionale riteneva che “la previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero non integra una tutela incondizionata ed illimitata della libertà di manifestazione del pensiero, giacché, anzi, a questa sono posti limiti” riconducibili alla tutela di “beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione”. Cfr. Corte cost., sent. 27 marzo 1974, n. 86.
[39] Cfr., ex multis, Corte EDU, sent. Vejdeland et alii c. Svezia, cit.
[40] I referenti costituzionali del principio di offensività sono generalmente individuati negli artt. 25 e 27 Cost.; per approfondire, cfr. F. Caringella e A. Salerno, op. cit., pp. 383 e ss.
[41] Resta però perseguibile la partecipazione, in qualsiasi forma e grado di intensità, a gruppi aventi lo scopo di incitamento alla discriminazione.
[42] Oltre a quelle che sfociano nella violenza omobitransfobica.
[43] La giurisprudenza è, difatti, concorde nell’interpretare le fattispecie di istigazione come reati di pericolo concreto, ossia subordinando la sanzione penale alla verifica dell’effettiva offensività della condotta.